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Libano, la polveriera che toglie il sonno a Papa Francesco

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Agi - pubblicato il 28/06/20
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La situazione nel Paese proccupa Bergoglio e non solo per la questione della presenza dell’importante comunità cristiano-maronita ma per la stabilità dell’intera regione che rischia di essere compromessaBergoglio lo ha detto chiaramente all’Angelus: “speriamo che i dirigenti siano davvero capaci di fare la pace. Là ci sono bambini che fanno la fame, che non hanno nemmeno di che mangiare”. L’allusione è al fatto che martedì prossimo si terrà la quarta Conferenza dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite per “sostenere il futuro della Siria e della regione”. Un “importante incontro”, lo definisce Francesco, al quale dal Vaticano si guarda con speranza e non senza timore. Tutto il Medioriente in fiamme (sempre oggi, un pensiero rivolto alla catastrofe umanitaria in corso nello Yemen piagato dalla guerra civile) è al centro dell’azione del Pontefice. Oggi l’auspicio è che il nuovo consesso internazionale “possa migliorare la drammatica situazione del popolo siriano e dei popoli vicini, in particolare del Libano, nel contesto di gravi crisi socio-politiche ed economiche che la pandemia ha reso ancora più difficili”. Guerra, morbo, fame. Invito del Papa: fate qualcosa, senza indugi.

Perché, più di tutti, il Libano preoccupa Bergoglio

Non esistono priorità, quando si tratta di drammi come questi. Ma tra tutte, è la situazione libanese quella che forse preoccupa maggiormente Bergoglio. E non è solo questione della presenza, nel Paese, dell’importante comunità cristiano-maronita. Il Libano è stato per lunghi anni modello di democrazia e convivenza, ed ora, dopo una ventennale guerra civile, deve ancora lenire quelle piaghe e impedire che vadano in suppurazione delle altre. Se il tentativo dovesse fallire non solo si avrebbero altri innumerevoli lutti, ma la stabilità dell’intera regione verrebbe irrimediabilmente compromessa. L’altro giorno, nel palazzo presidenziale a Baabda, si è tenuto un incontro nazionale straordinario, su iniziativa del capo dello Stato Michel Aoun e con il sostegno attivo del presidente della Camera Nabih Berry. Destinato a responsabilizzare le forze politiche di fronte a un clima di rivolta che minaccia l’unità nazionale, questo appello non è riuscito pero’ a raccogliere l’unanimità fra le forze politiche.

Ricorda il sito specializzato Asianews che all’evento sono stati invitati gli ex capi di Stato, i leader di governo del passato, i vertici dei partiti e dei blocchi parlamentari e il vice-presidente della Camera. Tuttavia gli ex capi di governo, che rappresentano la stragrande maggioranza della comunità sunnita, non hanno risposto alla chiamata. Allo stesso modo, i leader rappresentativi delle comunità cristiane che sono all’opposizione, come Samir Geagea e Samy Gemayel.

Nel comunicato diffuso dall’ufficio presidenziale la settimana scorsa e che annunciava l’appuntamento di ieri, si leggeva che lo scopo era di prevenire la ripetizione degli “straripamenti” che, il 6 giugno 2020, hanno quasi incendiato alcuni distretti di Beirut e Tripoli. Manifestazioni risvegliate dalle divisioni di natura confessionale e che hanno visti opposti, a Beirut, Tarik Jadidè e Barbou, dei quartieri a maggioranza sunnita e sciita, e che hanno registrato la comparsa di civili armati per le strade. La frapposizione dell’esercito fra i due quartieri ha impedito il peggio. I soldati hanno al tempo stesso impedito che gli scontri degenerassero, in quel frangente, su una delle vecchie linee di demarcazione che separano due quartieri a maggioranza cristiana e musulmana di Beirut, Ain el-Remmanè e Chyah.

Lo spettro della guerra civile

Fonti vicine al capo dello Stato affermano che dal 6 giugno scorso, e a causa di alcuni rapporti che sono arrivati sulla sua scrivania, il presidente sente che il Paese gli sta sfuggendo dalle mani. Ed è per questo che egli ha desiderato comunicare le proprie inquietudini a tutte le forze politiche, chiedendo loro di unirsi per sbarrare la strada a tutto ciò che minaccia l’unità e la sicurezza del Paese. Nel suo intervento in apertura dell’incontro a Baabda il presidente ha riecheggiato in modo chiaro lo spettro della “guerra civile”. “È con grande preoccupazione – ha detto all’inizio della riunione – che abbiamo assistito a un ritorno di certi segnali indicatori del rischio di una guerra civile”. La stabilità, ha proseguito, in tema di sicurezza “è essenziale e rappresenta una condizione per la stabilità economica, finanziaria, monetaria e sociale del Paese [] Lottare contro la sedizione e i tentativi di creare il caos è responsabilità di tutte le componenti della società” prosegue ancora il comunicato finale, pubblicato al termine della riunione. A questo si aggiunge il richiamo al governo e alle forze di opposizione a “lavorare insieme per salvare il Paese” da una crisi sociale “più pericolosa della guerra stessa”.

Il tabù della neutralità

E’ ovvio che tutte le forze politiche in Libano sottoscrivono questo appello. Tuttavia, se gli ex capi di governo (sunniti) e l’opposizione cristiana non hanno raccolto l’invito del presidente, ciò che è sembrato mancare davvero in questo incontro straordinario è un ordine del giorno chiaro, per dare ai partecipanti la possibilità di esprimersi su quella che sembra essere una delle cause, sebbene indiretta, di questo clima di rivolta. Inoltre, nei giorni che hanno preceduto la riunione il patriarca maronita, il cardinal Beshara Rai, cosciente delle reticenze reciproche, aveva proposto al capo dello Stato di rinviare di qualche giorno l’appuntamento “al fine di ultimare i preparativi necessari” al suo svolgimento. Il leader della Chiesa maronita suggeriva inoltre di indicare, fra le costanti del Paese che ha dovuto adottare per rafforzarsi, quello della sua “neutralità” a livello geopolitico.

Si tratta, in questo caso, di una questione particolarmente delicata perché solleva in modo automatico quella dello status di Hezbollah, alleato della Corrente Patriottica Libera (Cpl), partito armato la cui presenza pesa in modo grave sul Paese, la sua società, l’economia e la politica. Ed è proprio il “tabù” che ruota attorno a questa questione, che il capo dello Stato aveva promesso di sollevare nel primo periodo successivo alla sua elezione, e che ha spinto alcune personalità invitate a disertare il vertice. Privato della sua unanimità, l’incontro del 25 giugno è stato prosciugato di parte della propria forza originaria. Certo, quelli che l’hanno boicottato sono gli ultimi a poter dare lezioni al capo dello Stato. La responsabilità della pericolosa situazione in cui versa il Paese è collettiva e non saranno un “dialogo” o una dichiarazione finale in più a fare la differenza. Per la società civile il rischio che si corre è grande nel voler combattere la crisi con mezzi di polizia. Dobbiamo andare alla radice del problema, ed è quanto né il capo dello Stato né le parti in causa sembrano pronte a fare.

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