Le affermazioni di Shaun King sono state benzina sul fuoco dei già esasperati rapporti etnici attraverso tutti gli States: frattanto influencer senza scrupoli lucrano sull’identitarismo di frange cattoliche e derive cruente non appaiono remote. Indichiamo nel Cristo Nero di Portobelo (a Panama) l’icona della via stretta (ma possibile) per favorire la riconciliazione della memoria tra le molte parti in causa.
Non vorrei mai le persone scoprissero il mio nome per via di affermazioni estreme come questa:
Sì, penso che anche le statue dell’europeo bianco che chiamano Gesù dovrebbero venire giù.
Sono una forma di suprematismo bianco.
Lo sono sempre state.
Nella Bibbia, quando la famiglia di Gesù volle nascondersi ed emigrò, dov’è che andarono?In Egitto! Non in Danimarca!
Buttatele giù.https://twitter.com/shaunking/status/1275106946916499456?s=20
Il cupo “dream” dell’ultimo King
La prima reazione che ho avuto verso questo fino ad allora a me sconosciuto “attivista per i diritti umani” è stata una secca bocciatura: «Questo è uno scriteriato che sragiona e che dovrebbe essere incriminato per hate speech: se qualcuno si farà male in un assalto a una statua di Gesù, quest’uomo non dovrebbe sentirsi la coscienza a posto».
Lucidi commentatori come Mario Adinolfi hanno colmato le mie lacune sul personaggio, corredando le informazioni di un’analisi che si farebbe molto male a non considerare con attenzione:
Nel 2018 la rivista Time inserì Shaun King tra i 25 personaggi più influenti di internet. Con due tweet King, esponente di punta di Black Lives Matter, ha sostenuto che le immagini che rappresentano Cristo come un bianco e la madre come una europea vanno distrutte: “Quando sono fuggiti sono andati in Egitto, mica in Danimarca”, scrive King. […] La cosa più tremenda di questa ondata di follie è che tramite i social fanno pensare a miliardi di persone che “in effetti” la Pietà di Michelangelo è un atto di suprematismo bianco. Da distruggere. Attenti, questa fase di idiozia produrrà danni permanenti.
https://www.facebook.com/mario.adinolfi/posts/10158294249990428
“Idiozia” può sembrare un insulto, invece è un tecnicismo: l’idiota è infatti, etimologicamente, uno che si fissa su un solo dettaglio facendone la chiave ermeneutica della vastità del reale. Come ha insegnato il premio Nobel Amartya Sen, poi, non è la moltiplicazione delle identità a produrre violenza nel mondo, bensì proprio la loro drammatica riduzione: coartare un punto di inestimabile trascendenza – una persona – in un’etichetta è un’operazione violenta in sé ed è fatalmente foriera di ulteriore violenza. King rilegga Sen, se mai l’ha letto (è indiano, non caucasico!): quando si dice “io sono un nero, tu sei un bianco”, “io sono gay, tu sei etero”, “io sono di destra, tu sei di sinistra” – tutte altrettante idiozie, in senso etimologico – si dispongono le persone su scacchieri le cui pedine possono immancabilmente essere solo di due colori, ed è questo il carburante dello “scontro di civiltà”.
Purtroppo King dà conferma che sia tale la sua posizione quando rincara la dose con tweet del genere:
Da molto tempo degli esperti hanno detto che questa è con ogni probabilità l’aspetto più verosimile di Gesù.
Gli Americani bianchi che hanno comprato, venduto, commerciato, stuprato e schiavizzato Africani fino alla morte, per centinaia di anni in questo Paese, semplicemente non possono avere questo uomo al centro della loro fede.https://twitter.com/shaunking/status/1275233551034843136?s=20
Potremmo anzitutto osservare che quell’immagine non assomiglia granché all’uomo della Sindone – ma poi il Lino Torinese viene contestato in sé – e se nessuno al mondo afferma di aver trovato i resti mortali di Gesù da dove partirebbero gli “esperti” per le loro “ricostruzioni”? Staremmo però parlando del dito, secondo la nota immagine, e non della Luna: allora qui il discorso dovrebbe farsi più sottile per addentrarsi in questioni teologiche che King evidentemente non padroneggia (è un uomo religioso, a giudicare dai tweet in cui chiede preghiere per sua madre, ma questo non ne fa un teologo). I cristiani sono i discepoli di Gesù, sì, e hanno fede in lui, ma sarebbero dei folli (anche maledetti dalle loro stesse Scritture) se quel Gesù fosse un mero essere umano come tutti gli altri.
Da Paolo a Eugenio IV passando per Costantino: così la fede cristiana erose lo schiavismo
Proprio perché King non sembra ferrato sulla teologia si dovrebbe andare sulla storia, che almeno a parole gli interessa di più: è stata la Lettera a Filemone di san Paolo, infatti, il minuscolo granellino di sabbia che alla lunga avrebbe scardinato lo schiavismo (già canonizzato da Aristotele – cercherete sue statue per abbatterle? ma studiate piuttosto le sue opere per imparare qualcosa!). È stato infatti in nome della conversione al cristianesimo che Costantino, pur non abolendo l’istituto dello schiavismo, emanò una legge in cui si proibiva lo sfregio dello schiavo fuggitivo «perché sul volto dell’uomo c’è l’immagine di Dio». Sul volto di ogni uomo – così ritenne l’Imperatore cristiano (personaggio tutt’altro che privo di ombre) –: non solo sul volto degli uomini liberi, e certamente lo schiavismo antico non era una questione etnica. Si poteva nascere numidi e destinati al cursus publicus imperiale oppure ostiensi da venti generazioni ma schiavi: viceversa l’affrancamento riapriva molte porte politiche e sociali anche a chi era nato in condizione servile, e i mercati di schiavi vendevano tanto bene gli angli quanto i celti quanto gli “arabi” (ossia gli oriundi della Siria) e gli africani. Il “razzismo” come lo conosciamo oggi – ossia la presunzione che alcune “sovra-etnie” somaticamente riconoscibili siano ipso facto superiori ad altre – è un’eresia della ragione pratica moderna.
Era il 13 gennaio 1435 quando Eugenio IV pubblicò la bolla Sicut dudum, nella quale si condannava la pratica schiavista che gli spagnoli avevano intrapreso ai danni dei Guanci, autoctoni delle Isole Canarie colonizzate proprio in quegli anni. «Ma questi non sono uomini – fu la replica sprezzante degli spagnoli al Papa –: sono animali!». In poco più di sessant’anni l’originaria popolazione autoctona delle Canarie fu sterminata: fu uno dei primi genocidî dell’età moderna. Se ne devono ritenere due cose:
- la questione razziale era presente («questi non sono uomini»), ma a quel poco che se ne sa i Guanci erano perlopiù caucasici, non negroidi;
- la Chiesa cattolica si drizzò unica nel difendere i loro diritti, quando il concetto di “diritti umani” era universalmente impensabile e unicamente radicabile (come di fatto è tuttora) nell’«uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5 – il primo scritto del Nuovo Testamento!).
A questo punto mi pare sensato tornare ai nostri giorni e a King, che nella sua “rabbia antica” ha detto qualcosa di molto indicativo:
Io sono un cristiano praticante.
Sono un ministro ordinato e sono stato un pastore in cura d’anime per parecchi anni.
Se le mie critiche al supremazismo bianco nel mondo cristiano vi dànno fastidio al punto che volete uccidermi, il problema siete voi.
La bianchezza cristiana è sempre stata pericolosa.https://twitter.com/shaunking/status/1275425380611080194?s=20
Un influencer WASC della “christian whiteness”
La “bianchezza”? La “bianchezza cristiana”? Non sto a scomodare la categoria di “black racism”, ma chiaramente chi parla di “bianchezza cristiana” ha dei problemi atavici sia con il nostro mondo che si vuole multietnico e multiculturale sia con il cristianesimo – e dispiace dirlo, ma nei millemila arcipelaghi evangelical made in USA ci vuole molto poco a diventare “senior pastor” –: ancora una volta, però, sbaglieremmo se volessimo dare a King le ripetizioni di teologia di cui pure ha un evidente bisogno. Il punto dolente della questione, invece, è che quell’espressione assurda – “christian whiteness” – sembra purtroppo una plausibile spiegazione a questa cocente domanda: «Com’è possibile che il cristianissimo regno di Castiglia fece spallucce davanti alla tonitruante bolla di Eugenio IV, anzi continuò per sessant’anni a sterminare le popolazioni locali delle Canarie per di più pretendendo di star così “evangelizzando” quelle terre?». Un tentativo più complesso di spiegare la cosa ci porterebbe troppo più lontano di quanto possiamo qui dire, ma si dovrebbe risalire almeno fino alla contaminazione tra la teologia della storia di Agostino e quella di Orosio (chiedo scusa se rimando a un mio saggio sull’argomento, che sarà pubblicato a breve): quanto possiamo anticipare è che sì, per qualche ragione dagli universalismi medievali venne a distillarsi la convinzione tutta moderna per cui nessuna cultura nota aveva espresso mai il grado di progresso che allora si andava conseguendo in Europa. Cosa questa che può suonare odiosa quando un bianco ignorante la brandisce come “argomento” razzista, ma che sul piano della storia delle civiltà è impossibile negare. La cultura dell’occidente basso-medievale aveva prodotto una rivoluzione che avrebbe travolto ogni Paese noto e che, anzi, nell’apertura di orizzonti ancora ignoti avrebbe trovato nuova linfa per la propria Μήτις [Metis: ardimentosa intelligenza] e per la propria Ὕβρις [Hybris: irreligiosa tracotanza].
Ecco la vera posta in gioco che da più di un mese infiamma le Americhe: “rabbia antica” e “generazioni senza nome” tremano nelle voci sguaiate dei King, e siamo colti da dolorosa sorpresa nel constatare che nelle loro ingiuste farneticazioni sono effettivamente contenuti pezzi della nostra storia comune. Pezzi irredenti che restano un pericolo per l’Occidente e una frontiera per la Chiesa di Cristo, oggi come e più che ai tempi di Eugenio IV:
Nelle scorse 12 ore ho ricevuto circa venti minacce di morte per aver detto che le statue dell’europeo bianco Gesù sono uno strumento di oppressione per il supremazismo bianco e che quindi dovrebbero essere demolite.
Tutto ciò comprova quanto dicevo.
La vostra religione è in realtà bianchezza con una patina cristiana.https://twitter.com/shaunking/status/1275424620724846592?s=20
«Ancora con la “bianchezza”!», verrebbe da dire… e però come potremmo altrimenti qualificare personaggi come Taylor Marshall, texano “tomista” (così dice di sé) che ogni giorno mette sulla tavola dei propri otto figli un pane che deriva dalle monetizzazioni dei suoi canali social dai quali egli quotidianamente vellica in cattolici statunitensi sentimenti razzisti, xenofobi e paralefebvriani? Gli ultimi giorni lo hanno visto impegnato in una redditizia campagna di odio contro i vescovi cattolici in California, in particolare contro il “media bishop” Robert Barron (tomista addottorato all’Angelicum – lui), che l’influencer accusa di ignavia rispetto all’assalto alle statue di Junipero Serra: ieri Barron lo ha bloccato e all’influencer non è parso vero di poter fare un altro pienone di like&share nella parte di “Giovanni d’Arco”; oggi gli ha risposto che le questioni secolari non competono ai vescovi ma al laicato e lui ha esaltato i suoi follower con una tirata contro il Vaticano II che porta alla distruzione della nostra società cristiana. Eppure non disdegna l’impegno attivo in prima persona, dal momento che ha pubblicato dei post in cui invitava i “veri cattolici” ad andare a presidiare fisicamente una chiesa che a suo dire era minacciata dai rivoltosi BLM, ottenendo l’effetto di porla effettivamente nel loro mirino!
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E se diremo che è idiota (in senso etimologico e tecnico) l’invito di King ad abbattere le statue di “Gesù europeo” non dovremo dire lo stesso anche per i biechi assalti di Marshall ai vescovi? Se è irricevibile l’accusa di usare Gesù come strumento di oppressione non è vero che celebrare il Ringraziamento lucidando pistole e benedicendo il Secondo Emendamento non ha nulla a che vedere col cristianesimo, se non forse, appunto, una patina? In definitiva, non dovremo forse cominciare a preoccuparci che davvero esista (forse non solo negli USA!) del “christian whiteness”, e che a parità di idiozia almeno King abbia l’attenuante di essere un discendente degli oppressi, mentre Marshall l’aggravante di tenere ancora il punto degli oppressori?
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Oltretutto è pura calunnia che Barron e gli altri vescovi non abbiano mosso un dito per l’abbattimento delle statue di san Junipero Serra, laddove proprio il 22 giugno la Conferenza Episcopale della California aveva rilasciato una dichiarazione in merito e già nel pomeriggio mons. Barron la divulgava tramite i suoi molti canali.
https://twitter.com/BishopBarron/status/1275206180495855619?s=20
In essa si legge, tra l’altro:
Nelle scorse settimane, la questione specifica della rimozione di statue di leader politici, militari e culturali del passato ha assunto una forte importanza. Perché questo processo sia veramente efficace come rimedio al razzismo, bisogna che si discerna attentamente l’intero contributo che la figura storica in questione ha offerto alla vita americana, specialmente promuovendo i diritti delle persone ai margini.
Chiedendo la rimozione delle immagini di san Junipero Serra dai luoghi pubblici in California, e nell’abbatterne le statue a San Francisco e a Los Angeles, i protestatari hanno fallito questo test. […]
La verità storica è che Serra ha ripetutamente fatto pressione sulle autorità spagnole per un trattamento migliore delle comunità di Nativi Americani. Serra non fu semplicemente un uomo del suo tempo: lavorando coi Nativi Americani si dimostrò uomo in anticipo sul suo tempo, che fece grandi sacrifici per difendere e servire le popolazioni indigene, e che lavorò contro un’oppressione estesa ben oltre l’epoca della missione.
La tragica eredità di mons. De Las Casas
Davvero «il cristianesimo è una religione di storici», come diceva Marc Bloch; e i Vescovi – i quali ne sono depositarî e ne vedono bene le lunghe trame – sanno che molte ragioni e molti torti sono disseminati da tutte le parti (parti che del resto sono ben lungi dall’essere riducibili al “due” di un derby qualunque): anche uno dei primi vescovi che la Chiesa inviò nel Nuovo Mondo, del resto, sintetizza in sé quest’aspetto ambiguo e tragico, pur conservando la perfetta buona fede di un Apostolo che commette errori anche gravi.
Mons. Barron e gli altri sono infatti successori degli Apostoli preceduti nella genealogia episcopale da mons. Bartolomé de las Casas, il quale nel XVI secolo fu tra i primi a scagliarsi con forza contro le violenze sulle popolazioni locali. Scrisse insistentemente a Madrid e a Roma per illustrare le qualità umane e le virtù cristiane degli indigeni, e questi suoi scritti sortirono anche un certo effetto (pamphlet appositamente preparati per argomentarne la subumanità vennero rigettati per la testimonianza del prelato). Disgraziatamente, ebbe la sciagurata idea di suggerire di adottare semmai dei coloni africani come forza lavoro: i testi mostrano chiaramente che lo fece in considerazione della maggiore resistenza fisica delle etnie centroafricane rispetto a quelle amerindie. Immediatamente De las Casas si avvide che quell’improvvida considerazione fu la scintilla da cui sarebbe divampato il rogo dello schiavismo afroamericano fino alla Guerra di Secessione, anzi fino al primo King (Martin Luther) e al secondo (Shaun): pianse amaramente tutti i giorni della sua vita, scrisse, supplicò, ma «poca favilla – scrisse il poeta – gran fiamma seconda», e lui dovette restare impotente a guardare l’incendio che aveva causato.
Leggi anche:
L’esodo di Bartolomé de las Casas dal retaggio culturale razzista
Per questa ragione – il “discernimento storico” – la Chiesa cattolica s’è fino ad oggi astenuta dal canonizzare mons. De Las Casas, che fortissimamente volle essere l’avvocato degli indigeni d’America e sciaguratamente si ritrovò ad essere il Caifa degli schiavi d’Africa.
Proprio in forza di ciò mi sono ricordato del Cristo Nero di Portobelo a Panama, attualmente conservato nella chiesa parrocchiale di San Felipe: si potrebbero addurre “cristi neri” a dozzine, ma quasi tutti sono semplicemente umanoidi dai lineamenti caucasici anneriti dalla fuliggine dei ceri e dal tempo; si potrebbero rintracciare più antichi mosaici in cui non solo il colore, ma pure i tratti somatici di Gesù sono distanti da quelli caucasici (come nella basilica romana dei santi Cosma e Damiano), ma ricordavamo che nel tardo-antico non esisteva l’eresia razzista, e quindi questo significherebbe ben poco.
Il Cristo Nero di Portobelo, invece, è stato scolpito in epoca moderna con fattezze negroidi in un legno naturalmente bruno: sono ignote le circostanze esatte della sua fattura, ma storici dell’arte lo ritengono di bottega spagnola e databile tra il XVI e il XVII secolo. La storia nota della statua comincia proprio in un momento imprecisabile del Seicento, allorché il cargo mercantile colombiano che lo portava fece naufragio presso l’istmo e non potè ripartire fino a quando i marinai non ebbero lasciato in Panama l’effigie sacra (più o meno quel che accadde alla Madonna di Ipswich, che doveva andare a Napoli per salvarsi dall’iconoclastia anglicana e si fermò invece a Nettuno). Mi commuove quella statua perché vi ravviso la coscienza dell’Occidente moderno, inebriato dalle proprie conquiste ma tenuto coi piedi per terra dalla fede cristiana: mi piace pensare che qualche bravo scultore spagnolo volle rappresentarvi l’umanità nera ingiustamente umiliata nel Cristo tradito e al contempo la speranza che perfino l’indicibile orrore della tratta non sarebbe rimasto irredento, grazie alla fede cristiana (quel Cristo è rappresentato nell’atto di salire al Calvario portando la croce). Venero in quell’immagine la Fede della Chiesa, che da sempre professa come «con l’incarnazione il Figlio di Dio si sia in certo modo unito a ogni uomo» (Gaudium et spes 22), e per la quale bacio con gioia i Cristi neri, le Madonne gialle, la Sacra Famiglia nelle tende dei Sioux e i san Giuseppe che lavorano nell’igloo: la storia della Salvezza non potrebbe essere efficace per me se non lo fosse con tutti.
I have a dream…
Anch’io, infine, come un King (non) qualsiasi, ho un sogno: mi piacerebbe che a Portobelo si radunassero tutti i Vescovi cattolici d’America, davanti a quel Cristo nero. Non a compiere le genuflessioni idiote che la cattiva coscienza dell’Occidente compulsivamente suggerisce a molti, ma a raccogliere lo spunto di Eugenio IV molte leghe più a Occidente delle Canarie; a professare insieme (magari cum Petro?) l’Evangelo capace di riannodare memoria e riconciliazione perché – lo disse Isaia – «la pace sarà frutto della giustizia» (Is 32,17).