Il matrimonio è un’impresa magnifica ma ardua. E’ un palazzo alto che necessita di profonde fondamenta perché quando crolla rovina addosso a tutti, schiacciando soprattutto i figli. Torniamo a farci le domande giuste e a recuperare il senso del fidanzamento come periodo fecondo di verifica.
Bisogna riconoscerlo con onestà, il divorzio è sempre rottura, sofferenza, fallimento. Fallimento di un amore, di un progetto, di un cammino che si desiderava fare insieme e che, purtroppo, si è interrotto. La fine di un’ unione che coinvolge e sconvolge non solo la coppia ma tante altre persone, a cominciare dai figli. Non intendiamo in questa sede fare un discorso morale, o, almeno, non solo morale. Che i figli di genitori divorziati soffrono lo attestano psicologi, medici, esperti dell’educazione, statistiche.
Non è nostra intenzione esprimere alcun giudizio su coloro ai quali la vita ha presentato il volto duro, ma solo richiamare l’attenzione su qualche aspetto che forse abbiamo trascurato e che potrebbe evitare tante sofferenze. Qualcuno ha creduto di risolvere il problema preferendo al matrimonio la convivenza, ma poi si è accorto di averlo solo spostato. Convivere vuol dire mangiare, dormire, abitare insieme. Condividere intimità, affetti, sogni, economia. Avere in comune il bene più prezioso: i figli.
Figli ai quali non importa se i loro genitori siano uniti da un vincolo privato, civile o religioso. I bambini li amano. Stop. Hanno bisogno di loro, sono il loro punto di riferimento. Nel momento in cui dovessero lasciarsi, avvertirebbero lo stesso doloroso strappo che lacera i figli di chi ha celebrato il matrimonio in chiesa o in comune. Un tormento facile da immaginare, difficile da descrivere. No, non è sostituendo la convivenza al matrimonio la soluzione del problema. Nel tentativo di individuare e porre un rimedio, ci conviene riflettere su qualche verità che con troppa fretta fu considerata fuori moda. Qualcosa che sa di antico, ma che non per questo ha perduto la sua importanza.
Il cuore non è una piazza ma un castello con mille stanze nelle quali non a tutti è dato di entrare dappertutto. Nel nostro castello interiore, la parte più intima, il santuario più prezioso e sacro, non potrà che essere riservato alla persona che amiamo e nella quale abbiamo la massima fiducia. Nessuno comprerebbe un appartamento in comune con uno sconosciuto o un bugiardo. Nessuno entrerebbe in affari con un socio avaro, disonesto, traditore. Convivere è bello, affascinante, ma difficile. Nello scorrere lento delle giornate vengono fuori pregi e difetti; abitudini, modi di agire e di pensare.
Conviene sposarsi? Certamente. Quando? Quando si è moralmente certi che la persona che crediamo di amare sia proprio quella giusta. E come fare per avere questa certezza? Ecco la domanda alla quale non è facile rispondere. Tutti coloro che si unirono in un matrimonio finito col divorzio credettero di sposare la persona giusta. Tutti gli amori precipitati in tragedie iniziarono con abbracci, coccole, carezze. Credo che convenga fermarsi e avere il coraggio di riflettere. Prendiamo in considerazione il vecchio fidanzamento. Che cos’è o dovrebbe essere? Un tempo indispensabile di riflessione per capire chi è, come ragiona, come agisce, come interpreta la vita, perché vuole unirsi per tutta la vita a me, la persona che dice o crede di amarmi. Che cosa di me apprezza, che cosa gli piace, che cosa non sopporta. Un tempo in cui occorre essere severissimi con se stessi e con l’altro. Fare di due persone una carne sola è impresa possibile ma ardua. Sposarsi vuol dire guardare nella stessa direzione, avere sogni e progetti in comune. Amalgamarsi, accettare i propri e gli altrui limiti. Essere pazienti, tolleranti, misericordiosi. Intelligenti. L’attrazione fisica, i sentimenti, importantissimi, da soli non bastano. Durante il fidanzamento occorre parlare, discutere, capire: «Come affronteremo eventuali situazioni di disagio, di sofferenze, di malattie? Secondo quali criteri educheremo i nostri figli? Di fronte a una gravidanza indesiderata quali strade percorreremo? Eccetera».
Essere chiari, cioè, su quei punti dai quali mai si potrà retrocedere. Su quelli che sono i pilastri della vita. Il fidanzamento non è, non deve essere, quindi, una sorta di matrimonio anticipato, magari con “viaggio di nozze” incluso, ma un tempo particolare, unico, bello, difficile in cui ci si studia reciprocamente, per capire se questa unione “s’ha da fare” o meno. Un tempo difficile perché le capacità di osservazione, valutazioni, decisioni sono offuscate dall’alone magico dell’innamoramento che non permette alla ragione di ragionare bene. Meglio perciò non correre. C’è un tempo per ogni cosa.
La castità prematrimoniale in questa luce non è vista solo come atteggiamento morale ma psicologico, affettivo, in preparazione a una probabile unione o a un probabile addio. Il ferro e l’argilla non potranno mai fondersi insieme. Dalla stessa fonte non potrà mai sgorgare acqua dolce e acqua salata. Inutile insistere. Chi si ostina è destinato solo a fare e farsi male. Non è mia intenzione fare l’apologia del passato. I nostri nonni hanno avuto i loro problemi. Vorrei solo evitare che luoghi comuni entrati nella mentalità corrente fossero accolti come verità rivelate quando non lo sono affatto. I figli vanno messi al centro nel cammino di una coppia; vanno ascoltati anche e soprattutto quando non parlano. Non sempre è facile, perché potrebbero mettere in crisi le nostre convinzioni, le nostre passioni, le nostre decisioni.
Adam ha solo 10 anni, ma sembra già un ometto. Riservato, maturo, triste. Troppo triste per la sua età. Un giorno gli chiesi perché fosse sempre solo e taciturno. «Non ho una casa», rispose. Sapevo che non era vero. Adam una casa l’aveva. Lo pregai di aiutarmi a capire.
«Mia mamma – disse – ha avuto una sorellina dal suo compagno. Il compagno di mia mamma è il padre della mia sorellina ma non il mio. Anche il mio papà ha avuto un figlio dalla sua compagna; quando vado da loro il sabato e la domenica mi sento sempre a disagio. Lei è la mamma del mio fratellino ma non è la mia mamma. Tutti mi vogliono bene ma a me non piace. Io voglio stare con la mia mamma e il mio papà …».
Rimasi senza fiato. Dissi a quel caro bambino le parole più belle e affettuose che ogni persona di buona volontà gli avrebbe detto, ma sentivo che non entravano nel suo piccolo cuore. Purtroppo, dovevo ammettere, aveva ragione lui. Possiamo fare qualcosa per evitare tanta sofferenza? Si, se lo vogliamo. Si, se rinunciamo ai nostri egoismi. Si, se sappiamo rispettare i tempi e non fare salti mortali. Si, se abbiamo imparato che quanto più alto è il palazzo da costruire tanto più profonde, massicce e sicure devono essere le fondamenta sulle quali dovrà poggiare. Si, se mettiamo la serenità e la felicità dei figli al di sopra di ogni altra cosa. Si, se abbiamo il coraggio di mantenere la parola data, le promesse fatte. «Il fine è il primo nell’intelletto e l’ultimo a essere raggiunto» insegna san Tommaso d’Aquino. Il fine, cioè, deve essere chiarissimo fin dall’inizio.
Perché mi sposo? Che cosa cerco nel matrimonio? Perché con questa donna? Che cosa pretendo da lei? So che altre donne per me non esisteranno più? Ho capito che il tradimento – che tanti nemici della gioia continuano a presentare come un gioco – è quasi sempre all’origine di separazioni, divorzi, tragedie inenarrabili? Ho capito che sposandomi mi incammino per una avventura unica, stupenda ma tanto esigente? Sono disposto a morire pur di dare gioia, serenità, sicurezza alla mia donna, ai miei bambini? Allora imbocco la mia strada e mi accingo a pronunciare il fatidico si. In caso contrario, prendo atto che è meglio dirsi addio oggi anziché domani. Padre Maurizio Patriciello.
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