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La leggenda nera della “terra piatta”: chi l’ha inventata e perché

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/06/20
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Nessuno contestò mai a Colombo che la terra non fosse sferica, e anzi ai nostri giorni ci sono probabilmente più terrapiattisti che in tutto il Medioevo. Perfino la lettura della temuta (e ignorata) Encyclopédie ci mostra che i problemi mutuati dalla scienza classica erano ben altri… e Dante li aveva già risolti con la sola immaginazione.

Nessuno contestò mai a Colombo che la terra non fosse sferica, e anzi ai nostri giorni ci sono probabilmente più terrapiattisti che in tutto il Medioevo. Perfino la lettura della temuta (e ignorata) Encyclopédie ci mostra che i problemi mutuati dalla scienza classica erano ben altri… e Dante li aveva già risolti con la sola immaginazione.

Tra le tante leggende nere sul medioevo una che più di altre mi lascia sbigottito – tante sono l’ignorante fantasia e l’ideologia cieca presupposte – è quella secondo cui “prima di Colombo tutti pensavano che la terra fosse piatta”. Devo ringraziare il mio professore di filosofia del liceo che, ancor prima di illustrarci le implicazioni cosmografiche del (veramente epocale) viaggio di Colombo, ci aveva rotto la testa con innumerevoli fotocopie (in originale – francese) dei dieci tomi di Le système du monde di Pierre Duhem, il quale si era preso la briga di raccogliere per tutta la vita (l’opera uscì quasi interamente postuma) «i sistemi cosmologici da Platone a Copernico»: per forza sono stato refrattario alla stolida enfasi sulla “rivoluzione di Colombo” intesa come “dimostrazione della sfericità del pianeta”.

Volendo valorizzare l’asserto, anzi, si potrebbe concedere che di dimostrazione si tratti, ma in senso di “conferma sperimentale”, perché quando Eratostene nel III sec. a.C. calcolò la circonferenza del globo egli suppose la sfericità del pianeta (e il suo calcolo fu enormemente più esatto di quello di Colombo!): tuttavia gli assertori della “credenza medievale” non intendono affatto questo, bensì che fino al 1492 il nostro mondo sia stato popolato da una genia di semi-primitivi oscurantisti.

E ancora ne risuona l’Eco

La cosa sconvolgente è che tanto sesquipedale sciocchezza si ritrovi e si perpetui in molti manuali di storia, anche di discreta qualità, se non in peraltro eccellenti saggi (Giuseppe Galasso lo scrive addirittura due volte, nella sua Prima lezione di storia moderna), e ciò malgrado le erudite smentite di medievisti come Umberto Eco, autorità al di sopra di ogni sospetto di apologetica:

Quando si è iniziato a riflettere su quale fosse la forma della Terra, era stato abbastanza realistico per gli antichi ritenere che essa fosse quella di un disco. Per Omero il disco era circondato dall’Oceano e ricoperto dalla calotta dei cieli, e – a giudicare dai frammenti dei presocratici, talora imprecisi e contraddittori a seconda delle testimonianze – per Talete era un disco piatto; per Anassimandro aveva la forma di un cilindro e Anassimene parlava di una superficie piatta, contornata dall’Oceano, che navigava su una sorta di cuscino di aria compressa.

Solo Parmenide pare ne avesse intuito la sfericità e Pitagora la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche.

Su osservazioni empiriche si erano invece basate le successive dimostrazioni della rotondità della terra, come testimoniano i testi di Platone e Aristotele. Dubbi sulla sfericità sopravvivono in Democrito ed Epicuro, e Lucrezio nega l’esistenza degli Antipodi, ma in generale per tutta l’antichità posteriore la sfericità della Terra non viene più discussa.

Che la Terra fosse sferica lo sapeva naturalmente Tolomeo, altrimenti non avrebbe potuto dividerla in trecentosessanta gradi di meridiano, e lo sapeva Eratostene, che nel III secolo a.C. aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre, considerando la diversa inclinazione del Sole, a mezzogiorno del solstizio di primavera, quando si rifletteva nel fondo dei pozzi di Alessandria e di Syene (l’odierna Assuan), città di cui si conosceva la distanza.

Malgrado molte leggende che ancora circolano su internet, tutti gli studiosi del medioevo sapevano che la Terra fosse una sfera. Anche uno studente di prima liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell’imbuto infernale ed esce dall’altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sa benissimo che la Terra è tonda. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni.

Nel VII secolo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di accuratezza scientifica) calcolava la lunghezza dell’equatore. Indipendentemente dalla precisione delle sue misure, chi si pone il problema della lunghezza dell’equatore ovviamente ritiene che la Terra sia sferica. Tra l’altro la misura di Isidoro, sia pure approssimativa, non si discosta moltissimo da quelle attuali.

In questo articolo, del 2014, si presentava un libro co-curato dall’illustre medievista e semiologo (La filosofia e le sue storie – L’antichità e il Medioevo), ma in un convegno svoltosi a Cremona già sei anni prima (21-22 novembre 2008) Agostino Paravicini Bagliani aveva magistralmente denunciato lo stato della corruttela dell’opinione accademica e alcune sue cause remote:

Il passaggio de la terre plate au globe terrestre per riprendere il titolo dell’opera [pubblicata «dalla prestigiosa collana delle Annales di Parigi»! N.d.R.], costituirebbe persino una mutazione epistemologica del medioevo verso la modernità: «Durante tutto il medioevo, dal XII al XV secolo, spiriti sottili hanno tentato con diverse arguzie di elaborare sintesi per tentare di conciliare il mito biblico della terra piatta con l’idea greca di una terra rotonda: piatta a livello dell’ecumene abitabile, sferica soltanto a livello dell’astronomia. Alla fine del XV secolo questo fragile edificio, coerente in apparenza, si è infranto. L’esperienza della navigazione iberica, dall’Atlantico al di là dell’equatore, ha spezzato un’immagine rassicurante, alla quale ci si era abituati da tre secoli».

Ora, ciò che mi interessa mettere in evidenza è che l’argomentazione del Randles – e più in generale di coloro che fin dall’Ottocento hanno messo in circolazione il mito della credenza medievale alla non sfericità della terra – si basano essenzialmente sulle celebri affermazioni di Lattanzio (250-317), che contengono la più categorica condanna della concezione sferica della terra. Come è noto, nelle Divinae institutiones, l’apologeta cristiano aveva sferrato un’acerba polemica contro «coloro che pensano che vi sono antipodi», i quali «hanno immaginato che il cielo era rotondo […] e che anche la terra era rotonda come una palla, e che se il cielo è rotondo, anche la terra doveva essere rotonda» (Divinae institutiones, 3, 24).

Il mito di un medioevo ciecamente favorevole a una concezione della terra non sferica appare in opere di alto livello storiografico (vi si riferiva ad esempio Aaron Jakolewitsch Gurjewitsch), anche se in questi ultimi decenni il problema è stato affrontato criticamente da numerosi specialisti della geografia medievale che hanno dimostrato la sua infondatezza. Sono studi che hanno condotto a conclusioni radicalmente opposte a quelle cui si riferiva la tradizione ripresa dal Randles.

Già all’inizio degli anni Settanta del Novecento, lo storico americano della scienza medievale Edward Grant affermava: «Contrariamente a un moderno errore popolare, per il quale prima della scoperta di Cristoforo Colombo si sarebbe pensato che la terra fosse piatta, non si conoscono flat-earthers di una qualsiasi importanza nell’Occidente latino (medievale)».

E come ha ricordato più recentemente Patrick Gautier Dalché: «Non vi è nessun testo latino medievale che sostenga che la terra è un disco piatto».

Testi di questo genere non esistono anche perché, come è ben noto, Lattanzio fu riscoperto soltanto nel Quattrocento e non ha potuto quindi nutrire una discussione medievale in proposito. E quando fu riscoperto, non riuscì a convincere uomini di scienza come Copernico, che nella sua lettera dedicatoria al De revolutionibus, considerò “infantili” le opinioni di Lattanzio sulla forma della terra. Lattanzio impressionò però gli umanisti per le sue altissime qualità letterarie. Lorenzo Valla ne elogiò la qualità ciceroniana del suo stile.

A dire il vero, Lattanzio non impressionò sul punto neppure gli autori tardo-antichi successivi a lui, se è vero che non solo Isidoro calcolò la lunghezza dell’equatore ma pure che Agostino smussò esplicitamente l’argomento di Lattanzio – Eco lo aveva riportato puntualmente – asserendo che

non bisogna lasciarsi impressionare dalla descrizione del Tabernacolo biblico perché, si sa, la Sacra Scrittura parla spesso per metafore, e forse la Terra è sferica. Ma siccome sapere se sia sferica o no non serve a salvarsi l’anima, si può ignorare la questione.

Agostino non dice proprio così (e non mostra il minimo dubbio sulla sfericità della terra), ma anche in questa sintesi brutale emerge l’anticipazione di un famoso tema della celebre Lettera a Cristina di Lorena (1615) di Galileo Galilei: la Scrittura è inerrante relativamente a «come si vadia al Cielo», non a «come si vada il cielo».

Sorprendenti ritagli dall’Encyclopédie

Donde dunque sarebbe provenuta un’impostura tanto sottile da riuscire a imporre un argomento tanto grosso in così vasta (e perfino buona) letteratura? «Devono essere stati gli Illuministi! – verrebbe da pensare – Quei perfidi spregiatori del Medioevo!». E invece no: dall’Encyclopédie abbiamo invece alcune cose preziose che a onor del vero riporteremo, in particolare dalla voce Terre, pubblicata nel 1751 all’interno del Tomo XVI, e firmata congiuntamente da D’Alembert, Thiry, Jaucourt, Venel, Boucher d’Argis e Faiguet (mancano giusto Diderot e pochi altri perché i mostri sacri dell’impresa ci siano tutti). Sulla questione delle “giurisdizioni epistemologiche” leggiamo nella prima parte dell’articolo:

Gassendi distingue a tal proposito [le difficoltà poste dalla Scrittura, N.d.R.] due libri sacri; uno scritto che chiamiamo “la Bibbia”; l’altro [non scritto] che chiamiamo la natura o il mondo; così egli sviluppa il concetto: «Dio ha manifestato sé stesso mediante due luci: una è quella della rivelazione, l’altra quella della dimostrazione. Ora, gli interpreti della prima sono i teologi e gli interpreti dell’altra sono i matematici; sono questi ultimi che bisogna consultare sulle materie la cui conoscenza è sottomessa allo spirito, come sui punti di fede si devono consultare i primi; e come si rimprovererebbe ai matematici il loro allontanarsi da quanto compete loro, ove essi pretendessero di rimettere in causa o rigettare gli articoli di fede in virtù di eventuali ragionamenti geometrici, così si deve convenire che i teologi non si debbono avventurare oltre i limiti che sono fissati loro, quando si azzardano a pronunciarsi su punti di scienze naturali fuori dalla portata di quanti non sono versati nella geometria e nell’ottica fondandosi unicamente su qualche passo della Sacra Scrittura, la quale non ha inteso insegnarci alcunché in materia».

Pierre Gassendi era stato un eruditissimo prete francese vissuto nel XVII secolo (e morto poco meno di un secolo prima della pubblicazione della voce degli illuministi che lo citano): già questo basta a incrinare certe superficiali caricature e dell’Illuminismo e della cultura che l’ha preceduto (e preparato). Nello stesso anno 1751, firmando da solo la voce Cosmogonie nel volume IV dell’Encyclopédie, D’Alembert scriveva:

Sulle prime sembra che questo sistema favorisca l’ateismo, in quanto non suppone altro che l’impressione di un primo movimento, di cui tutto il resto è una conseguenza, e che non fa ricorso all’azione continua dell’Essere supremo. Ma chi ha potuto dare quel primo movimento, e chi ha stabilito le leggi in virtù delle quali esso si conserva? Non sarà sempre l’essere supremo?

E all’inizio della voce premetteva:

In qualunque maniera s’immagini la formazione del mondo, non ci si deve mai allontanare da due grandi principî:

  1. quello della creazione, perché è chiaro che la materia non s’è potuta dare l’esistenza da sé e bisogna che l’abbia ricevuta;
  2. quello di un’intelligenza suprema che ha presieduto non soltanto alla creazione, ma anche all’aggiustamento delle parti della materia in virtù del quale questo mondo si è formato.

Una volta posti questi due principî, ci si può sbizzarrire con le congetture filosofiche, mantenendo tuttavia l’attenzione a non allontanarci nel sistema che si costruirà da quello che la Genesi ci indica che Dio ha seguito nella formazione delle differenti parti del Mondo.

Questo è davvero sorprendente: da una parte D’Alembert afferma un deismo teorico neppure pienamente coerente (l’“essere supremo” si limita alla creazione oppure la accompagna “per un po’”?), e con ciò si espone a una ficcante critica di ordine metafisico; dall’altra sembra attestarsi su un’epistemologia teologica parecchio più arcaica di quella di Gassendi (di un secolo prima, ma che lui ha letto, trascritto e sottoscritto in quegli stessi mesi), del resto già decisamente superata all’epoca di Agostino.


Al di là di ciò queste pagine di Encyclopédie conservano, come si vede, l’anelito a un dialogo con la cultura cattolica, della quale si intende coinvolgere l’importante apporto. Era però il 1751, ed era Papa col nome di Benedetto XIV quel Prospero Lambertini per la cui ouverture d’esprit ed erudizione lo stesso Voltaire si spellava le mani. Gli succedette però, nel 1758, il veneziano Carlo dalla Torre di Rezzonico, di cui Papa Lambertini lodava la vita austera e morigerata, ma che sul piano intellettuale non era neppure l’ombra di Benedetto XIV: appena il tempo di insediarsi sulla cattedra petrina, e il novello Clemente XIII folgorò di scomunica l’Enclyclopédie, in blocco, gli autori e contributori, i lettori e i possessori delle copie. Era il 1759, e forse papa Rezzonico non sapeva (o magari lo sapeva?) che buona parte delle copie dell’opera già si trovavano (e ancora si sarebbero trovate, seppur stampate clandestinamente) proprio nelle librerie private dei preti. Il dialogo tra cultura cattolica e cultura laica proseguiva, dunque, come era naturale che fosse, ma le due lettere latrici dei provvedimenti contro l’Encyclopédie (5 marzo e 3 settembre) segnarono una pietra miliare del suo deciso logoramento.

Stavamo però cercando qualcosa sul “famoso terrapiattismo medievale”, e dobbiamo invece (non senza una piacevole sorpresa) segnalare che nelle voci Cosmographie, Cosmogonie, Cosmologie, Monde, Planete, Systeme e Terreneppure se ne fa motto. Nelle prime colonne della già citata voce “Terre”, invece, si trova una sorprendente “attribuzione di colpa” al paganesimo antico per la tarda affermazione di quel che poi sarà noto come “sistema copernicano”… ma non vi rovino fino in fondo la scoperta:

Il punto principale che distingue il sistema di Tolomeo da quello di Copernico è che il primo dei due suppone la t. a riposo, mentre l’altro la fa muovere; vale a dire che uno la pone al centro e fa girare attorno ad essa, da oriente a occidente, il sole, i cieli e le stelle; laddove l’altro, supponendo cieli e stelle a riposo, fa muovere la t. dall’occidente all’oriente. […].

L’acribia degli astronomi del nostro secolo [indende “l’epoca”, N.d.T.] ha posto fuori discussione il movimento della t. Copernico, Gassendi, Keplero, Hook, Flamsteed & Co. si sono acquistati soprattutto su ciò una reputazione durevole nei secoli.

È vero che antichi filosofi hanno sostenuto questo medesimo movimento: Cicerone dice nelle sue Tusculanæ Disputationes che Niceta di Siracusa per primo aveva scoperto che la terra ha un movimento diurno per cui essa ruota attorno al suo asse nello spazio di 24 ore; Plutarco [è in realtà un’opera spuria, ma all’epoca non si sapeva, N.d.T.] poi ci insegna nei Placita Philosophorum che Filolao aveva scoperto il suo movimento annuale attorno al sole. Circa cent’anni dopo Filolao, Aristarco di Samo sostenne il movimento della t. in termini ancora più chiari e più forti, come c’insegna Archimede nel suo trattato De numero arenæ.

I troppo rispettati dogmi della religione pagana, tuttavia, impedirono che si seguissero oltre queste idee: Cleante aveva infatti accusato Aristarco di sacrilegio per aver osato dire che la dea Vesta e gli altri numi tutelari dell’universo si muovessero dal loro posto, e allora i filosofi cominciarono ad abbandonare una teoria che sembrava tanto pericolosa.

Parecchi secoli dopo, il cardinale Niccolò Cusano fece rivivere questo antico sistema, ma la teoria non fu in voga fino a Copernico, il quale ne dimostrò i grandi pregî e vantaggi astronomici. Egli ebbe presto dalla sua parte tutti quelli che osarono spogliarsi di un pregiudizio volgare e che non ebbero paura di ingiuste censure.

Cusano precursore di Copernico… o piuttosto suo purpureo scudo? E l’attacco è davvero a una religione estinta… o piuttosto a ogni dogmatismo (soprattutto a quelli «delle presenti e vive»)? Difficile escludere queste ipotesi storiografiche, che tuttavia dovremo aver cura di non far tracimare in un processo alle intenzioni: se mai qualcuno volesse negare che la filosofia moderna comporti frizioni con la cultura religiosa occidentale commetterebbe un errore uguale e contrario a quello di chi sostiene che essa nasca in mera e totale ribellione ad essa.

Volevo infine riportare una curiosità soprattutto per quanti pensassero priva di senso la “questione degli antipodi”, cioè la discussione sull’eventualità che davvero ci fossero uomini capaci di vivere “a testa in giù”. Facile riderne, dall’alto delle spalle di Newton, ma leggete il quinto paragrafo della prima colonna dell’importante e già citata voce Terre:

Si distinguono nella t. tre parti, o regioni, e cioè:

  1. la parte esteriore, quella che produce i vegetali di cui si nutrono gli animali;
  2. la parte mediana, o intermediaria, piena di fossili, che si estende più in là di dove il lavoro dell’uomo sia mai riuscito a penetrare;
  3. la parte interna, o centrale, che ci è ignota. Benché molti autori la suppongano di natura magnetica, altri la considerano una massa o una sfera di fuoco; altri come un abisso o un ammasso d’acqua, sormontato dalle zolle della t.; altri infine come uno spazio cavo e vuoto, abitato da animali che hanno, secondo loro, il loro sole, la loro luna, la loro vegetazione e tutte le altre cose che sarebbero necessarie alla loro sussistenza.

Terrapiattismo di risulta durante la disputa evoluzionistica: la lezione di Russell

Jules Verne avrebbe pubblicato il suo Viaggio al centro della Terra nel 1864, e come si vede non tutto il contenuto del romanzo si deve imputare alla nuda fantasia dell’autore. Secondo Jeffrey Burton Russell, americano storico della scienza che al tema del presente articolo ha dedicato ben tre monografie (Inventing the Flat Earth, 1991; The Flat Error, 1993; The Myth of the Flat Earth, 1997), proprio quelli immediatamente posteriori al romanzo di Verne sarebbero stati gli anni dell’invenzione della “leggenda nera medievale sulla terra piatta”: egli ritiene che i suoi principali fautori siano stati John William Draper, Andrew Dickson White e Washington Irving, fortemente impegnati nella disputa sulla ricezione dell’opera di Charles Darwin e sull’evoluzionismo in genere. Un colpo basso nella polemica, insomma, del tipo: «Non volete ammettere che l’uomo viene dai primati? E noi racconteremo a tutti che voi siete stati terrapiattisti fino a Colombo!». Una dialettica singolare, si deve riconoscere, ma da un lato questa è la ricostruzione (non priva di argomenti) di Russell e dall’altro non c’è un fatto tanto bizzarro, vile o cruento che non si sia già visto – in ogni latitudine ed epoca – quando membri dell’umano consorzio disputano.

Dante e Tommaso, due voci profondamente medievali

Un viaggio al centro della terra, del resto, lo aveva già scritto, e per primo, il medievale Dante: certo, anche Ulisse ed Enea scesero agli inferi, ma né Omero né Virgilio avevano dato all’oltretomba una collocazione fisica e geografica, mentre l’immaginazione dantesca riuscì nell’impresa di integrare la demonologia cristiana alla cosmografia tolemaica… in un amalgama perfino verosimile!

Si potrebbero ricordare a tal proposito i numerosi passi dell’Inferno in cui Dante descrive la formazione geologica simultanea della voragine infernale e del monte Purgatorio, ma preferisco richiamare due terzine tanto meno orecchiabili quanto più visionarie, quelle in cui il Poeta descrive il passaggio per il centro del pianeta, coincidente con il bacino di Lucifero, e vi descrive un movimento che implica il concetto di centro di gravità cosmica:

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.

Dante, If XXXIV 76-81

Il che basta, en passant, a superare l’annoso “problema degli antipodi”: la terra è tonda e si può stare in qualunque suo punto senza mai sentirsi “a testa in giù”. Anno Domini 1300.

C’è però un passaggio più celebre che ha qui senso richiamare, visto che ragionavamo del viaggio di Colombo, ed è quello (di poco precedente) che contiene il racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse, quasi certamente ispirato alla (purtroppo dimenticata) avventura di Ugolino e Vadino Vivaldi. Nel 1291, infatti, i due fratelli genovesi avevano oltrepassato lo stretto di Gibilterra e avevano fatto rotta a sud («sempre acquistando dal lato mancino»). Forse aveva fonti a noi sconosciute, tanto è realistica la durata (cinque mesi) dell’esperienza odissiaca: Dante immagina tanto vividamente quel viaggio suggestivo da vedere (e farci vedere) «tutte le stelle dell’altro polo» (!). E c’è una terra emersa, sconosciuta a tutti, che compare di lontano: qualche decina di pagine dopo il lettore della Commedia scoprirà che si tratta del Purgatorio, coronato dal Paradiso Terrestre.

[…] e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.  

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.       

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,       

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Dante, If XXVI 124-135

Il cerchio si chiude quando si ricorda (se si sa) che il terzo e penultimo viaggio di Colombo fu dominato (a quanto leggiamo nei suoi diarî e nella Lettera ai Reali di Spagna del maggio-agosto 1498) dall’angosciosa ricerca dell’identità di quell’enorme terra che certo non poteva essere un continente (i continenti sono tre, hanno insegnato concordemente tutti gli Antichi e le Scritture!): «Che sia il Paradiso terrestre?», si chiese l’ormai stanco Ammiraglio del Mare Oceano, a cui «il folle volo» sfuggiva sempre più dalle penne.

Ma che la terra fosse tonda era pacifico per tutti: l’avevo imparato al liceo studiando Duhem e lo riscoprii ventenne commentando l’articolo I della Summa Theologiæ di San Tommaso, una “introduzione metodologica” alla sacra doctrina:

Il fatto che l’uomo [mi si perdoni il rimandare in conclusione al mio articolo del 2008, N.d.A.] non debba ricercare gli altiora non impedisce che Dio stesso – in una libertà in questo testo non espressa se non dialetticamente – li abbia rivelati. Alla conciliazione dell’autorità di fede contraddittoria Tommaso giustappone un’ulteriore autorità, del medesimo tipo, chiarificatrice. La seconda osservazione è di ordine squisitamente epistemologico: non solo l’oggetto della scienza decide della sua necessità e delle sue sorti, ma anche i metodi che si prefiggono. E qui […] Tommaso porta come esempio di quanto ha detto qualcosa di assolutamente pacifico, il cui contenuto sia immediatamente lampante a tutti, «come che la terra è tonda» [«quod terra est rotunda»]. Tutto per suggerire come «niente vieti» che dal medesimo oggetto, analizzato per fini e con mezzi sensibilmente distinguibili, sorgano saperi differenti: non solo allora si separerà la filosofia dalla teologia, ma anche la teologia naturale dalla teologia «che attiene alla sacra dottrina», e senza inoltrarsi nelle terribili ambiguità di un mondo informato da più di una verità.

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