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Non di solo Covid-19 soffre l’uomo. Il prezzo salato della solitudine

SADNESS
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Paola Belletti - pubblicato il 10/06/20
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Uno degli effetti più importanti dell’isolamento e della paura, per quanto condivisi, è stato ed è la solitudine. Ora che il virus sembra avere ridotto la sua forza, declassato da ciclone a tempesta tropicale, si fa la conta di altri danni, non solo fisici. 

Poiché siamo creature complesse e non siamo fatti solo di polmoni, vasi sanguigni e altri organi vitali, ciò che ci è successo in questi ultimi mesi ha colpito con durezza anche altri “apparati” della nostra umanità.

La perdita di vite umane resta il dato da cui partire: secondo uno studio INPS sono 47mila i morti in più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. E tutte queste vite sono una perdita drammatica. Per questo ciò che si è potuto fare per risparmiare anche di una sola vita è valso la pena.

Ma anche le altre vite, risparmiate dalla prima linea della pandemia, hanno perso qualcosa. Gli effetti, quindi, non sono stati e non saranno solo fisici; sono anche economici, sociali e psicologici.

Mal comune, nessun gaudio

«Coinvolge tutti, quindi ci rende uguali davanti a un nemico invisibile ma ci costringe a essere più soli e con il pensiero costante al virus» riflette Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda SocioSanitaria di Lodi.  (CorSera)

E’ come se ci fosse stata prescritta come terapia amara e necessaria la solitudine. Un sacrificio necessario (sproporzionato? mal gestito?) a tutelare un bene maggiore, la vita, che però come in tutte le terapie farmacologiche in circolazione ha portato con sè effetti collaterali assai poco desiderabili.

Uno studio riportato sulle pagine de IlSole24ore e realizzato

dall’agenzia europea Eurofound, condotto in aprile, ha individuato alcuni effetti causati dall’epidemia:  le evidenze principali sono solitudine e scarso ottimismo per il futuro. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno intervistato oltre 85mila persone in 27 nazioni europee, chiedendo loro come la pensano su un gran numero di temi diversi.

L’item “soddisfazione per la propria vita” ha subito una significativa flessione:

In una scala da uno a dieci, gli europei hanno valutato la soddisfazione per la propria vita e la propria felicità intorno a valori simili, rispettivamente a 6,3 e 6,4, con valori molto inferiori rispetto a quanto registrato da un’indagine precedente (la European Quality of Life Survey, EQLS) nel 2016 che le aveva trovate rispettivamente a 7 e 7,4. (Ibidem)

L‘ottimismo, fratello illegittimo della speranza, sta battendo in ritirata, anche se il valore assoluto è ancora alto:

Appena il 45% delle persone si è detta ottimista, contro il 64% riportato quattro anni prima, con chi vive nelle nazioni più colpite (fra cui l’Italia) che come c’era da attendersi è apparso meno fiducioso.

Il dato che colpisce è che la perdita di fiducia nel futuro ha offeso di più i giovani rispetto agli anziani. Riflettendoci il dato pare coerente con la natura delle cose, poiché sono propri i giovani ad avere maggiori interessi e maggiore orientamento futuro: per questo gli scenari di pericolo, incertezza, precarietà diffusa che si prospettano per il domani li mortificano di più.

Giocherà forse un ruolo anche la più volte rilevata fragilità delle ultime generazioni (quelle cosiddette “fiocco di neve”), la minore propensione al rischio, all’assunzione di responsabilità? Sarà, ma queste categorizzazioni se da un lato possono aiutare a leggere una situazione complessa dall’altro diventano pesanti come le palandrane di piombo che ci fanno indossare prima di una radiografia. Togliamole dalle loro spalle, non è da queste radiazioni che devono difendersi.


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Le altre malattie non si sono messe in lockdown

Potrei dirlo per esperienza diretta, ma non ce n’è bisogno, poiché siamo in tanti ad essere toccati dalla malattia ed è comunque evidente a tutti che le altre patologie hanno continuato il loro proprio corso anche durante lo strapotere del virus Sars-Cov-2, se si esclude la riduzione di virosi tra i bambini in età scolare e il calo di traumi dovuto alla sospensione di attività a rischio e all’azzeramento o quasi della circolazione stradale.

Per quanto riguarda invece le malattie croniche, quelle neurodegenerative, le patologie oncologiche o altre infezioni che c’erano prima del Covid-19 e continueranno dopo, queste hanno continuato ad esistere e lo hanno fatto, com’è loro uso, nelle persone.  Questi malati però a causa dell’emergenza che si è tradotta in assedio generalizzato hanno largamente sperimentato una riduzione di attenzione nei loro confronti, per lo meno nella cosiddetta “narrazione” operata dai media. Ogni cosa, ogni notizia, ogni diagnosi persino, tutto doveva misurarsi con la curva epidemica, il fattore di contagio, le misure di contenimento, il numero dei “tamponati” (povera lingua!).

“Siamo dunque malati di serie B?”, si saranno detti tanti pazienti improvvisamente passati in secondo piano. E non è solo questione di come ci si è sentiti. Ci sono ricadute oggettive gravi di questo storno di risorse, anche solo di ascolto, da tutta la gamma dei pazienti possibili a quelli da Covid-19. Negli ospedali la realtà era divisa tra Covid + e Covid -. Distinzione vitale, necessaria certo; ma che ha significato una riduzione, un declassamento per quanto provvisorio di tutto il resto.

Per colpa della comunicazione istituzionale e televisiva la maggior parte dei pazienti non affetti da Coronavirus ha ritenuto di avere una malattia di serie B, perché solo l’epidemia sembrava una situazione seria, e ora ne paghiamo le conseguenze».

Stefania Erra, che lavora nel reparto di Anatomia Patologica dell’ospedale di Casale Monferrato, oggi si trova di fronte a pazienti oncologici irrecuperabili. (La Stampa)

Una cosa simile mi raccontava la neuropsichiatra che ha in carico nostro figlio, agli Spedali Civili di Brescia: è stata un’esperienza durissima per tutto l’ospedale, diceva, sebbene il loro reparto sia stato uno dei pochi risparmiati dalla chiamata al fronte; nel contempo si augurava che in caso di una seconda ondata di contagi ci si sarebbe trovati più pronti e razionali nell’impiego delle energie e delle risorse. Non si possono rimandare a data da destinarsi interventi oncologici, ha osservato con dolore.

 

Ricadute importanti sulla salute mentale

Siamo stati esposti, tutti sebbene con gradi e condizioni di partenza ed esiti assai diversi, ad un prolungato evento traumatico; gli effetti sulla psiche sarebbe sciocco non attenderseli. Ma non è detto che questo si traduca in una vera emergenza di igiene mentale. Così risponde Giancarlo Cerveri, direttore del dipartimento di Salute Mentale dell’ASST di Lodi:
C’è da aspettarsi un aumento dei disturbi mentali già nei prossimi mesi?
«Sempre difficile fare previsioni in medicina. Dopo l’11 settembre del 2001, quando la minaccia terroristica era al massimo, si pensava ci sarebbe stato un forte aumento delle richieste di sostegno psichiatrico che invece non si verificò. Quella era una situazione diversa, un trauma enorme ma che si concluse in fretta. In questo caso non sappiamo prevedere i tempi dell’epidemia né quali saranno gli effetti sociali. Con la riapertura delle attività per alcune persone sarà cambiato tutto, non sarà possibile il ritorno alla vita di prima e questo non si sa che conseguenze potrà avere sulla loro psiche».

Piuttosto stanno tornando allo scoperto richieste di aiuto che erano state forzate al silenzio: si ha meno paura di rivolgersi agli ospedali e allora tornano gli accessi per disturbi legati all’ansia, alla depressione, per attacchi di panico.


Alessandro D'Avenia
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L’ansia dice la verità (ma non tutta!) sulla nostra condizione esistenziale: siamo fragili

L’ansia più di altri disturbi si è fatta presente nella vita di molti. Ed è, di fatto, una risposta adeguata alla condizione vissuta: l’ansia nasce come risposta alla percezione della precarietà della vita. Noi non ne abbiamo mai il completo controllo e questa è verità ontologica ed esistenziale. Di sicuro la pandemia ci ha tutti ben istruiti: la tua vita è fragile, preziosa e minacciata.

Paradossalmente, vedo proprio in questo molesto messaggio la sola possibilità di diventare migliori, quella promessaci reciprocamente manco fossimo tutti in campagna elettorale. Per ora siamo peggiori, più spaventati, più poveri, più insicuri. Ma stiamo male perché non lo siamo abbastanza: dobbiamo spogliarci del tutto e capire che sì, non abbiamo il controllo sulla nostra vita poiché essa è nelle mani di nostro Padre.

Ci siamo riscoperti esseri sociali ma abbiamo quasi paura di esserlo. E non è solo questione di salute psichica, è più lo svelamento di un inganno contemporaneo, rafforzato dalla società dei consumatori. Tutti da soli insieme, telecomandati dal desiderio compulsivo di possedere, provando fastidio per l’altro quando da oggetto di una mia possibile soddisfazione diventa soggetto con delle pretese, dei bisogni, delle contrarietà.

Per questo credo che la Chiesa sia stata la vera regina, sotto povere ma non mentite spoglie, di questo tempo di prova e lo sarà ancora di più. E’ l‘unica che ha qualcosa da dire all’uomo, ora che ha riscoperto di essere fragile, incerto, mortale.

E’ l’unica che può davvero esserci di compagnia.

Ciò che può vincere radicalmente la nostra solitudine è conoscere l’amore di Dio. Ma da essa dobbiamo far ributtare come da rami che sembravano secchi nuove gemme, potenza di vita nascosta, pronta a legarsi in lussureggianti intrecci con miriadi di altri rami. Non sarà quindi un discorso per quanto ispirato a vincere il senso di isolamento e abbandono in un cuore umano; servono gesti, abitudini, cose concrete come portare fuori il cane e poter salutare qualcuno, senza sentirsi soltanto possibili veicoli di malattia e morte gli uni per gli altri. Se è solo da noi che può passare la carica virale, ancora più da noi soltanto può essere trasmessa la carica vitale che vince alla radice la paura e l’abbandono.

Non siamo soli e non siamo in mano nostra, Deo gratias.

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