Alla fine dell’omelia pronunciata nel giorno di Pentecoste, Papa Francesco ha affermato: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
Eppure, questo dipende solo da noi e non è per niente automatico. Posiamo vivere la crisi in due modi: come opportunità per riflettere, rischiare e cambiare oppure una sventura da accarezzare lamentandoci e rimpiangendo il tempo passato con le cose e le abitudini di prima, come se esse fossero sempre buone, sane e giuste. E, invece, la crisi può diventare il luogo del ripensamento, del cambiamento e della rinascita. Ciò sarà possibile solo se saremo capaci di fare anche noi ciò che ha fatto Dio per l’umanità nel Suo Figlio Gesù: una nuova alleanza.
La parola alleanza – di lunga tradizione biblica – è quanto mai appropriata: la pandemia, infatti, ha in qualche modo fatto emergere tante nostre importanti “alleanze” che negli ultimi anni si sono sfilacciate e andrebbero ricostruite. Il virus ha dato in frantumi il nostro io spesso avvitato su se stesso e organizzato secondo una visione di vita narcisistica, superficiale e spesso materialista; ha mosso guerra all’efficientismo esasperato e ai meccanismi economici, spesso iniqui, della nostra società; ha liquidato – cioè fatto divenire liquide – alcune certezze consolidate che senza accorgercene avevano blindato le nostre emozioni e il nostro modo di pensare; ha rovesciato i potenti dai troni facendoci scoprire che rispetto alla fragilità e alla morte siamo davvero tutti uguali. C’è un mondo che si è infranto e, tuttavia, questo “essere stati spezzati” può anche essere proprio l’occasione preziosa della nostra vita e del nostro mondo: quando Gesù si spezza, nel segno del pane, proprio allora offre “una nuova ed eterna alleanza”.
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La parola “alleanza”, paradigmatica di tutta la storia della salvezza e di tutta la Bibbia esprime proprio una ricomposizione di ciò che si è infranto, una riconciliazione tra gli opposti.
La terza parola del nostro viaggio, allora, è riconciliazione. Se una cosa possiamo imparare dal virus è proprio questa: abbiamo bisogno di stabilire nuove alleanze di pace con noi stessi, con l’altro, con il pianeta che abitiamo e perfino con Dio. Nella Parola di Dio non a caso il peccato viene interpretato come una “rottura” dell’alleanza con Dio che, di conseguenza, provoca altre rotture intermedie: con me stesso, con l’altro, con il cosmo.
Certamente il virus ha messo in evidenza la rottura di queste alleanze: un uomo sempre più ubriacato di se stesso, che ha spesso dimenticato Dio e lo ha relegato ai margini della vita; un uomo ammaliato dalla logica del capitalismo, che ha inseguito il culto del proprio io e, di conseguenza, ha visto i suoi simili come concorrenti da vincere o minacce da allontanare, provocando quella che già Luigi Zoja ha definito “la morte del prossimo”; un uomo che nella folle corsa al guadagno e al profitto, ha sfruttato in modo iniquo le risorse della terra, depredando la bellezza della natura e sostituendo alla logica della gratuità e della contemplazione, quella della rapina. E, dentro queste “rotture” con Dio, con l’altro e con la Terra, ecco l’alleanza infranta con sé stessi, l’io diviso, affannato, inquieto e infelice nonostante l’apparente benessere.
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Tra i tanti racconti di guarigione e riconciliazione del Vangelo ce n’è uno che ci mette davanti al dolore dell’essere “spezzati”. Un giorno, nella Sinagoga di Cafarnao, Gesù incontra un uomo indemoniato, cioè “diviso”: diavolo significa infatti divisione. Dice San Paolo: “in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. (Rom 7,18-20). Questa situazione mostra una convivenza tra il bene e il male, tra il grano e la zizzania, tra l’unità e la divisione: così è nello spazio del nostro cuore. Esso è una sinagoga, dove abbiamo relazione con Dio, con noi stessi e con gli altri, ma è anche terreno ferito e diviso a causa delle nostre zone d’ombra e del nostro peccato. Riconciliarsi non significa raggiungere una purezza ideale o una astratta perfezione, ma discernere gli ostacoli che impediscono al fiume della vita di scorrere in modo fluido.
Nella Sinagoga, l’indemoniato diventa voce che disturba Gesù: che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci? La guarigione che Gesù compie consiste nel far zittire questa voce con un’autorevole comando: Taci, esci da lui.
Nella nostra vita ci sono tante voci che tentano di allontanarci da Dio, da noi stessi e dagli altri; voci che ci disturbano e vorrebbero ostacolare il bene e la nostra crescita. Nei confronti di Dio, questa voce grida più o meno così: Ma cosa c’entra con la vita di tutti i giorni? Ma sarà vero? Ma se sbaglio mi castiga? Ma perché non mi ascolta anche se lo prego? Nei confronti degli altri, questa voce inocula un certo sospetto. Mi ama veramente? Mi vuole bene gratuitamente? Vuole qualcosa in cambio del mio affetto? E se resto deluso? Forse non è sincero, ha invidia di me, sarà meglio che mi do da fare altrimenti mi supera, e cosi via.
Ma le voci peggiori sono quelle che si levano in noi, come spiriti impuri, e ci straziano come a quest’uomo nella Sinagoga. Sono voci che si fanno strada lentamente dentro di noi e che, pian piano, ci conducono verso la peggiore condizione della nostra vita: non essere riconciliati con noi stessi, non riuscire ad accoglierci, ad amarci e ad abbracciarci così come siamo. Spesso sentiamo in noi una voce che ci disturba: non puoi farcela, non sei degno, non sei capace, di sicuro andrà male. Queste voci danno spazio alla paura, allo scoraggiamento, alla depressione.
Altre voci della vita ci vogliono convincere che la nostra felicità sta nelle cose che possediamo: devi guadagnare, devi essere il primo, devi vincere sempre, devi avere successo. Queste voci hanno una ripercussione “sociale” ed “ecologica”: ne derivano cioè relazioni chiuse, egoistiche e spesso malsane con gli altri, ma anche con il creato che ci circonda.
In mezzo a questo scenario, possiamo contemplare la severa e autorevole libertà di Gesù che afferma: taci! Ordina a quella voce di disturbo di tacere. Ci indica cosi di non alimentare le voci negative dentro di noi, di non dare potere alle paure e ai sospetti, di non ingigantire il nostro io. Questa è una strada di riconciliazione con noi stessi, con l’altro e con Dio. Significa mettere dei confini a tutto ciò che ci lacera e ricostruire le alleanze positive e benefiche.
Riconciliarci con noi stessi, con gli altri, con il cosmo e con Dio diventa così un passo necessario per la vita dopo la pandemia.
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Francesco Cosentino, sacerdote calabrese, è docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana e officiale della Congregazione per il clero. Tra le sue pubblicazioni recenti: Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo (Cittadella, 2010); Il Dio in cammino. La rivelazione di Dio tra dono e chiamata (Tau, 2011); Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione (San Paolo, 2012); Incredulità (Cittadella, 2017).