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Quando nascondersi è implorare il bisogno di essere visti

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Giulia Cavicchi - pubblicato il 28/05/20
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Lo sguardo è decisivo nelle crescita della persona: che tipo di occhi abbiamo sui nostri figli e sugli altri? Arrabbiato? Distratto? Premuroso?Finalmente ho ripreso a fare le mie amate camminate, durante le quali mi capita ovviamente di incontrare altre persone. Tra queste ci sono quelle che non conosco affatto, quelle che conosco, ce ne sono altre poi che conosco di vista ma con cui non ho mai parlato, infine ci sono quelle di cui non so i nomi ma sono familiari, perché le incrocio spesso proprio lì sui miei stessi percorsi.


ROBERTA, CONTE, TEACHER
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Tra tutte queste persone ce n’è una in particolare che mi colpisce. Ci conosciamo di vista, io so come si chiama e lei sa come mi chiamo io, e in altre circostanze ci siamo anche scambiate qualche parola, ma la maggior parte delle volte che la incrocio sembra far finta di non vedermi. Spesso ha lo sguardo abbassato, e continua a camminare così, altre volte ha lo sguardo un po’ indurito, fermo, dritto davanti a sé. In ogni caso, se non sono io a salutarla, lei non gira gli occhi neanche per sbaglio e non saluta. A volte la guardo fissa per vedere se, accorgendosene, ricambia lo sguardo, ma non succede mai, sembra proprio che non mi veda o che non mi voglia vedere. All’inizio la cosa mi irritava un po’, ma poi ho capito una cosa, o meglio, la immagino perché non ne ho la certezza. Credo che questa persona sia talmente abituata a non essere vista che, per la paura (non consapevole) di sentirsi invisibile, gioca d’anticipo e fa finta di non vedermi, così il problema non si pone.

Da quando ho intuito che molto probabilmente si tratta di un meccanismo di difesa non mi irrita più, ma ha tutta la mia comprensione. Immagino che soffra più di quanto lei stessa crede. Da parte mia le auguro davvero di decidere di occuparsi di questo, di occuparsi di sé stessa, perché andare avanti tutta la vita ignorando gli altri perché ci si sente ignorati o si teme di esserlo, è un gran peccato. Quante volte ci adattiamo a vivere con una “spina nel fianco” che diamo per scontata, che consideriamo ormai come parte immutabile di noi, e quanto invece potrebbe cambiare la nostra esistenza se decidessimo di fare qualcosa per stare meglio. Prendere una decisione del genere però è per coraggiosi, perché comporta rendersi vulnerabili, esponendo la propria difficoltà ed i propri bisogni.

A questo proposito, mi è tornato alla mente un episodio che ho vissuto mentre lavoravo ancora presso la scuola dell’infanzia. Avevo appena insegnato ad una bambina di quattro anni ad utilizzare le forbici, quelle arrotondate per bambini, quando dopo un po’ mi si è avvicinata di nuovo chiedendomi: “Mi guardi ancora mentre taglio?”. Questa sua domanda mi ha toccato profondamente perché mi ha fatto capire quanto fosse stato importante per lei il momento che le avevo dedicato e quanto, probabilmente, le mancasse essere vista.

Questa bambina per fortuna, era ancora in grado di chiedere di essere guardata, cioè di esporre questo suo bisogno, mentre più siamo adulti e più la nostra ferita è profonda, più fatichiamo nel mostrarci e nel chiedere, soprattutto se ci abbiamo provato tante volte senza ottenere risposta.

L’esperienza che facciamo nell’infanzia rispetto allo sguardo che abbiamo ricevuto da chi si è occupato di noi ha un peso enorme. Non solo rispetto alle due opzioni se siamo stati visti oppure no nei nostri bisogni, nella nostra identità e unicità, nelle nostre emozioni.

Ha un peso molto grande anche il tipo di sguardo prevalente con cui ci siamo confrontati.

Uno sguardo preoccupato? Arrabbiato? Di rimprovero? Distratto? Indifferente? Triste? Qualunque sia stato, ha avuto sicuramente un grande su di noi, su come siamo oggi, soprattutto sulle nostre paure più profonde.

Lo sguardo dei propri genitori è uno dei temi-chiave che si affronta in psicoterapia, proprio per la sua portata.

E allora penso al fatto che nei prossimi giorni rientrerò parzialmente in studio, e ci rientrerò munita di mascherina. Al pensiero di indossare la mascherina un po’ di tempo fa ero piuttosto recalcitrante, perché inevitabilmente crea una barriera e ostacola la comunicazione, sia verbale che non verbale.

A ben vedere però rimane lo sguardo, con tutta la sua potenza e la sua capacità di presenza. Non è affatto poco. La bimba che ho incontrato alcuni anni fa alla scuola dell’infanzia mi ricorda che l’esperienza di essere visti, con calore, attenzione, presenza autentica, è una delle esperienze riparative di cui c’è più bisogno.

Tornare in studio con la mascherina rimane una nuova sfida, ma sono consapevole che, permettendo la possibilità di vedere e soprattutto di essere visti, viene conservato anche in questo nuovo setting così particolare, uno dei fattori più importanti per la relazione terapeutica.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA GIULIA CAVICCHI

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