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Libertà – di Giulia Lamarca: «Un gradino mi blocca, ma mi indica infinite strade nuove»

GIULIA LAMARCA, GEMME
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Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 21/05/20
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La malattia conosciuta fin da piccolissima sul volto del fratello, poi un incidente che le toglie l'uso delle gambe. Ora è una travel blogger entusiasta insieme a suo marito Andrea, nella speranza di offrire esperienze di coraggio e perseveranza agli altri.

La malattia conosciuta fin da piccolissima sul volto del fratello, poi un incidente che le toglie l’uso delle gambe. Ora è una travel blogger entusiasta insieme a suo marito Andrea, nella speranza di offrire esperienze di coraggio e perseveranza agli altri.

Ho incrociato la storia di Giulia Lamarca sul trafiletto di un giornale e subito l’ho giudicata con gli occhiali miopi del pregiudizio: come può una ragazza in carrozzina curare un blog di viaggi? Mi sono risposta alla svelta pensando che doveva esserci una nicchia del turismo dedicata anche alle persone con disabilità. Poi, finalmente, ho smesso di pensare di testa mia e ho guardato quale ipotesi fosse ospitata nel suo sito My travels: the hard truth (letteralmente: la dura verità sui miei viaggi). Giulia è psicologa e il suo attuale impegno come travel blogger, insieme al marito Andrea, ha qualcosa da dire a tutti quelli che vivono gli ostacoli come una dura, insormontabile obiezione. Io non ho disabilità fisiche invalidanti e viaggio pochissimo, eppure seguirla sui suoi canali social è fare i conti con una voce che aiuta a togliere quella litania di lamentele che riempie di ragnatele la vita quotidiana. Davvero ti fermi a guardare solo ciò che ti manca?


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È stato un incidente in moto a stravolgere la sua vita, in quell’ospedale dove è stata ricoverata per nove mesi è accaduto anche un incontro decisivo: Andrea, il suo fisioterapista, oggi è suo marito e compagno di viaggi. Chi come me mette a fatica piede su un aereo può gustarsi la bellezza di panorami mozzafiato sul loro profilo Instagram guadagnandoci il bene di un’energia positiva per affrontare il viaggio incognito e sorprendente che è la giornata di ciascuno.

 

Di Giulia Lamarca

Quando si tratta di descrivermi cerco di usare più parole possibili, quindi eccomi: sono una donna, sono una moglie, una sorella, sono una psicologa e sono una persona con disabilità. Credo di avere in me sfaccettature molto diverse, però riconosco che la base che unisce tutto è il mio essere avventurosa. Cerco l’avventura e credo fermamente che l’inclusione sia la grande ricchezza di questo mondo. L’inclusione non è un tema che riguarda solo le persone con disabilità, è l’accoglienza dell’altro, di culture diverse.

Sono stata segnata da tre grandi esperienze. La prima è il non aver avuto un’infanzia idilliaca: nella mia famiglia c’era una persona affetta da una malattia che appartiene alla macrocategoria delle leucemie, quindi dall’età di 6 anni e per i dieci anni successivi abbiamo vissuto questa emergenza in casa. Si trattava di mio fratello. È una storia a lieto fine, mio fratello è guarito, ma per dieci anni abbiamo affrontato un giorno alla volta, con la paura che lui venisse a mancare. È stato un periodo segnante, che mi ha dato una spiccata sensibilità per certi argomenti; ho trascorso un’infanzia in ospedale per stare vicino a mia mamma e a lui, questo di conseguenza ha plasmato la mia mente. Mi rendo conto che, fin dai temi delle elementari, parlavo di cose che non erano usuali per una bambina. Per quanto ciò faccia male, mi ha segnato positivamente perché ho capito i valori importanti, anzi essenziali. Ero una bambina come tutte, ad esempio mi piaceva giocare a pallavolo e adoravo i vestiti, però sapevo che l’essenziale era altro. Sapevo anche qual era il mio posto nel mondo, sapevo quanto era importante camminare con un sorriso nei corridoi degli ospedali. Ci sono persone che lo capiscono più tardi, quando li colpisce una malattia, io ho capito a 6 anni che dovevo sorridere alla vita perché quel sorriso aveva un certo potere sulle persone. Mio padre traeva molta della sua forza nel vedere il mio sorriso in quelle circostanze così dure.

Poi c’è stato l’incidente in moto, circa otto anni fa, ed è stata una grossa batosta considerando che la mia famiglia era già stata messa alla prova. Con la diagnosi di paraplegia incompleta la vita è cambiata da cima a fondo. Sono sempre stata attenta a cogliere le storie dietro le persone. Quando noi vediamo una persona con disabilità ci esce spontaneamente la parola «poverino!»; ecco, da quando sono diventata una persona che gli altri guardano con questi occhi, mi sono resa conto che le persone con disabilità  – quelle che non si lasciano andare, ma cercano di fare il meglio con ciò che sono – hanno una resilienza pazzesca. Hanno una capacità di adattarsi che è enorme. Ho cambiato la mia forma mentis. Quando vedo una persona con disabilità riuscire a fare determinate cose la guardo con grande stima; banalmente andare al cinema, richiede la capacità di riuscire a fare  quello che prima si faceva facilmente con strumenti completamente nuovi. Si impara a gestire situazioni incognite. È la disabilità che mi ha insegnato la parola libertà: stando nove mesi ricoverata, e cioè di fatto rinchiusa in una stanza, ho maturato quella voglia di viaggiare che poi è esplosa quando sono uscita. Uscire dopo una reclusione così lunga significa sentire di nuovo il calore del sole sulla pelle, e accorgersi che lo avevi completamente dimenticato. Desideravo riscoprire questo contatto vivo col mondo, piano piano ho capito da capo cosa significa essere liberi di fare. Per me viaggiare è l’emblema della mia libertà, è come dire al mondo intero «guardate, io sto camminando».

La terza esperienza che mi ha segnato è recente: ero diventata mamma ma ho avuto un aborto spontaneo. Sono ancora nella fase in cui devo capire il senso di questa perdita. Di nuovo, sono tornata coi piedi per terra e più umile. Mi sono guadagnata un certo seguito sui social e programmavo la mia vita attorno a questo; nel mio caso le cose sono evolute velocemente, nel giro di un anno, e ora mi rendo conto che ero finita a seguire degli imperativi diversi da quelle che erano le mie idee. L’aborto spontaneo ha azzerato tutto, mi sono fermata per dire a me stessa: tu devi fare quello che rende felice te. Ho rimesso a fuoco quello che era il mio obiettivo, cioè quello di offrire esperienze che fossero utili agli altri. Io e mio marito eravamo indecisi se condividere pubblicamente questo dolore, l’abbiamo fatto e ho ricevuto moltissimi messaggi di donne che non avevano mai detto a nessuno di aver vissuto la sofferenza di un aborto spontaneo. Forse è un dolore per cui si fa fatica a trovare le parole; da psicologa mi rendo conto che si tratta di una ferita che non può rimarginarsi mai. Aver avuto accanto mio marito è stato ciò che mi ha dato forza. Andrea è tutto, lui è tutto quello che manca a me.

Non appena ho avuto l’incidente e si è saputo che non avrei mai camminato di nuovo, il mio fidanzato dell’epoca mi lasciò. Da allora io tendo a non fidarmi, anche se resto un’eterna sognatrice sull’amore. Col passare degli anni mi rendo conto che Andrea è sempre stato tutto per me, ma io avevo sempre tanta paura a dirglielo o di farlo capire al mondo. Vivere con lui la sofferenza dell’aborto spontaneo mi ha fatto sentire quanto siamo coppia. Molte volte nei racconti delle donne si sente che lo vivono da sole, invece noi lo abbiamo vissuto assieme e anzi lui è stato molto più deciso nel sostenere che dovevamo parlare di questo dolore, anche a costo di non essere capiti.

Libertà è la parola in cui metto a fuoco tutta me stessa. E implica un’azione da fare verso noi stessi e verso gli altri: dobbiamo liberarci di pregiudizi e preconcetti che ci cuciamo addosso da soli e ci fanno stare male; dobbiamo liberarci di quelli che cuciamo addosso agli altri ed essere liberi dagli stereotipi che gli altri applicano a noi. Io poi vivo sulla mia pelle il paradosso per cui la libertà non è impedita dentro i limiti che ci segnano. Quando devo spiegarlo faccio l’esempio della carrozzina: è chiaro che è un limite, perché di fronte a un semplice gradino io sono bloccata se Andrea non mi aiuta, o chi per lui. Però è proprio davanti al limite che s’innesca la libertà di affrontarlo o no e poi la libertà di come affrontarlo. È la libertà che fa dire: «Qui non posso andare. Ma dove posso andare?». Il limite ti mostra una cosa che non puoi fare, usando la libertà puoi mettere a fuoco le 99 cose che puoi fare. Sarei pazza se dicessi che non mi manca camminare, però sono così impegnata a vivere che quella mancanza non trabocca in un’obiezione ingestibile.

 

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