L'altro ieri sono tornato a messa. Tanta gioia, naturalmente; a tratti commozione, perfino per quelle cose sgraziate che però dicono una comunità vera: l'Alleluia con le stecche, coi ritardi… e cantato pure a mezza voce per la paura del contagio… ma che bello!
C'è voluto poco, al parroco, per raccogliere il tacito entusiasmo dell'assemblea, che non aveva potuto celebrare lí neanche la prima domenica di Quaresima, che non vi aveva celebrato la Grande Settimana né la Veglia delle Veglie e che ora, per la prima volta, aveva facoltà di piangere in chiesa qualche morto di questi mesi inediti – e visibilmente godeva nel poterlo fare bene. Anche il parroco s'è lasciato andare piú volte a confidenze, inframmezzando considerazioni omiletiche ai momenti della celebrazione (pure perché di tanto in tanto doveva necessariamente interrompersi per impartire le istruzioni protocollari):
Intrigante la precisazione, luminoso il seguito:
La prima e la seconda cosa le sapevo, ché don Massimo me ne aveva fatto cenno in diverse telefonate durante la quarantena: già mi sembravano tanto pastoralmente piú buone e teologicamente piú acute di certe banalità spacciate per profondità da qualche prete che “no, io senza la mia comunità non celebro!” – per la preghiera si è costituiti padri di popolo; la terza cosa però la ignoravo, e mi ha incantato la bellezza comunitaria che ne promanava.
A dire il vero l'avevo pure capita male, perché l'unica cesta che io sapevo essere nei pressi del presbiterio (sul suo limitare) è quella della carità, dove si possono sempre lasciare alimenti per i poveri della parrocchia: avevo dunque pensato che le persone avessero avuto l'intuizione di lasciare dentro a quella cesta i bigliettini con le proprie intenzioni, ed ero rimasto tanto edificato dal pensiero – quanto ci siamo scoperti poveri, tutti (gli עֲנָוִים di Is 29,19), in quest'emergenza?
Il parroco mi avrebbe poi mostrato l'esistenza di un'altra cesta, di cui ignoravo l'esistenza, praticamente identica a quella della carità e non molto distante da quella. Grazie a quel quiproquo, comunque, mi è balenato agli occhi lo splendido nesso tra il mistero eucaristico e il ministero diaconale, nesso fatto non di diritti e di rivendicazioni, ma di pura e oblativa carità. In queste settimane (e anche recentemente) delle “ragioni controversistiche” mi avevano portato a ricordare che fin dall'antichità la Chiesa latina ha annoverato tra i ministri ordinarî dell'Eucaristia i diaconi, benché questi – stando alle rubriche dei libri liturgici – non vengano
Ci siamo detti piú volte, e giustamente, che avere cura dei poveri significa onorare il Corpo di Cristo, ed è accaduto che – mentre erano impossibilitate a celebrare insieme la frazione del pane e tanto piú si davano pensiero dei fratelli in difficoltà – alcune anime elette e veramente semplici venissero ispirate a glissare in un cesto identico a quello destinato alla carità le intenzioni che animavano la loro vita spirituale. E quelle stesse intenzioni finivano presentate a sera sull'altare del Signore. Admirabile commercium.
1: Opportunamente sottolineata ancora da Benedetto XVI coi provvedimenti canonistici espressi a mezzo del motu proprio Omnium in mentem del 15 dicembre 2009. 2: Con buona pace di san Tommaso, ai cui tempi ai diaconi era consentito toccare la patena ma non la particola (Suppl. 37, a. 5 ad 5): san Pio V e il Messale Tridentino (la famosa “liturgia di sempre”) avrebbero scelto diversamente.