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Luce dopo un grande buio: mamma guarisce dal Covid-19 e suo figlio dalla leucemia

MUM, HUG, CHILD
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Annalisa Teggi - pubblicato il 13/05/20
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Una famiglia siciliana vive in questi giorni la gratitudine di una doppia guarigione. Prima di essere intubata e sprofondare nel sonno del coma la mamma Benedetta aveva affidato a Dio se stessa e i figli.Tra le mille sfumature che fanno parte del drammatico ritratto umano che ci lascerà la pandemia c’è anche quella dalla tinta forte e luminosa di chi potrà testimoniare con lacrime di gioia quello che Chesterton sintetizzò così:

Il vero modo per amare qualsiasi cosa consiste nel renderci conto che la potremmo perdere.

Lo sfondo nero della perdita – della nostra mortalità – è quel compagno di sguardo, terribile e necessario, che vince la superficialità del dare per scontato ciò che c’è. Quello che accade in questi mesi sotto i nostri occhi è sovrabbondante in termini di contraccolpi umani e siamo troppo vicini al quadro per mettere ben a fuoco la trama complessiva di questo disegno intenso e drammatico. Vedremo e comprenderemo con migliore chiarezza quando saremo un po’ più lontani; ora possiamo custodire con grande capienza emotiva le voci e gli eventi, i volti e le lacrime.



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Tra i ricordi da serbare c’è la testimonianza che ha raccolto la giornalista Marina Turco de Il Giornale di Sicilia. Anche lontano dai luoghi più colpiti dal Covid-19 il virus non manca di assestare colpi ferali. E la realtà non manca di consegnarci segni confortanti di speranza. Benedetta e Andrea sono madre e figlio, siciliani: lei ha contratto il coronavirus al lavoro e ne ha subìto le conseguenze più gravi, guarendo oltre ogni più rosea previsione, e lui a soli 9 anni è in fase di remissione completa da una leucemia linfoblastica.

Ammalati e isolati, ma insieme

Questa storia ha per protagonisti i 4 membri di una famiglia molto normale di Palermo: mamma Benedetta, papà Antonio e i loro due figli, Arianna e Andrea. Il contagio del coronavirus li ha colpiti, pur abitando in una regione come la Sicilia che è stata risparmiata dai numeri tragici di altre regioni del Nord:

Benedetta è una dei tre impiegati del call center Comdata che hanno contratto il Covid-19 a marzo. Il virus arrivato in via La Malfa per vie traverse, forse è bastato uno scambio in un’area break con chi aveva incontrato gente di Bergamo. Questo si dicono i colleghi fra loro ma non c’è stato tempo per investigare. Benedetta ha cominciato a star male il 15 marzo, aveva febbre e spossatezza. (da Il Giornale di Sicilia)

Oltre alla preoccupazione per se stessa, Benedetta è stata pronta nel prendere le precauzioni giuste per non compromettere la salute fragile del figlio Andrea che è immunodepresso e dal 2016 lotta contro la leucemia. Si è messa in autoisolamento domestico e questa scelta è risultata decisiva perché ad oggi nessuno dei suoi familiari è risultato positivo al coronavirus. Purtroppo però il virus ha aggredito pesantemente la donna: è stata ricoverata in ospedale a Partinico dopo otto giorni di permanenza a casa e la polmonite si è aggravata al punto da imporre ai medici la scelta di intubarla e indurre il coma.

Benedetta saprà solo dopo che a questo punto del suo percorso la possibilità di guarire era scarsissima – il nudo valore numerico si aggirava attorno al 25%; ma era ben consapevole che il coma fosse la discesa in un buio da cui poteva non svegliarsi più.

WOMAN IN HOSPITAL

Shutterstock

La presenza, a distanza, di suo figlio Andrea è diventata decisiva; gli anni trascorsi nel reparto di Oncologia pediatrica e la forza che il bambino aveva dimostrato nel sottoporsi a tutte le terapie necessarie si sono trasformati da ricordi sofferti a punti solidi a cui aggrapparsi. La madre, prima di abbandonarsi al sonno indotto, ha fatto memoria di tutta la tenacia di suo figlio nel vivere la malattia. Racconta Benedetta:

“E’ incredibile la forza dei bambini, forse io ne ho avuta di meno lì per lì. Quando sono precipitata nel coma ho avuto davanti a me l’oscurità – Benedetta ricorda, parla, si ferma, si commuove e ricomincia – La sensazione che mi rimane è di avere visto cosa c’è oltre. Ero gravissima ed ero nel panico. Mi sono rivolta a Dio e gli ho detto: ho Andrea di 9 anni, deve fare la comunione. Ho Arianna di 5 anni, deve andare in prima elementare. Decidi tu”. (Ibid)

La gravità delle sue condizioni le ha consentito quella lucidità estrema che si esprime in una preghiera essenziale, priva di formule di rito e anche di una certa dolcezza verso Dio. Resta solo un pensiero che si aggrappa ai legami. Tante voci, testimoni di un confronto serrato col buio – nei molti modi in cui ci si può avvicinare alla morte -, parlano di una presenza nel momento più cupo. Difficile trovare parole giuste per avvicinarsi a questo argomento, forse se ne può dare un’impressione dicendo che per molti è stata decisiva la scelta di consegnarsi a una solitudine disperata oppure di affermare il legame, anche solo ricordato, con qualcosa o qualcuno. Benedetta si è sentita madre, vincolata alla vita grazie al legame coi figli.

A dispetto delle percentuali negative, si è risvegliata. Pur col corpo segnato da una prova debilitante, il percorso di ripresa è cominciato:

 Dal 24 marzo al 10 aprile solo sofferenza, la solitudine della stanza di rianimazione, gli astronauti ad accudirla, come li descriverà Benedetta ai suoi figli. Il giorno della prima telefonata ad Andrea ed Arianna è stato faticoso. In reparto non si trovavano più né borsa né telefonino.

La guarigione di cui tutti abbiamo bisogno

Dal 2 maggio Benedetta è a casa e alla buona notizia di tre tamponi negativi si aggiunge la gioia per la guarigione del figlio Andrea. Mamma e figlio, su due trincee parallele, hanno condiviso il dolore e la paura, e ora si sentono travolti da quella gratitudine che solo l’essersi sentiti estremamente fragili dona. Ogni presenza comparsa dentro questo calvario è diventata amica, dagli infermieri ai medici all’operatore del 118 che fin da subito, trasportando Benedetta in ospedale, aveva confortato la famiglia. Volti che in altri momenti passano inosservati, diventano essenziali.

La luce che colpisce gli occhi dopo essere rimasti nel buio di una galleria è accecante, tutto appare con un di più di valore. Quante volte capita di rendersi conto di ciò, attraversando anche piccoli momenti di crisi. La gratitudine sincera che sentiamo dopo ogni colpo duro inferto dal vivere ci ricorda che per la maggior parte del tempo siamo ingrati, perché dimentichi di come stanno davvero le cose: esserci è essere strappati al nulla.

Pur rimanendo identica a se stessa, questa famiglia siciliana è passata attraverso una prova che ricostruisce il senso dei loro legami dalle fondamenta. L’esperienza della guarigione sulla terra è un piccolo barlume che riflette quella guargione radicale e definitiva che guadagneremo solo dopo la morte. Con questi occhi è onesto guardare e gioire insieme a chi gode della gioia di aver superato una prova grande. Non facciamoci tentare dalla logica impazzita che fa confronti e azzarda domande come «perché c’è chi si salva e chi no?».

Come ha ricordato di recente Don Fabio Rosini, Dio ha scritto una storia di salvezza per tutti (alla quale possiamo opporre il nostro libero rifiuto) e ridurre un disegno complessivo a tanti frammenti parziali fatti di piccole conquiste o grandi perdite è perdere l’occasione di vivere davvero. Quando ci si imbatte nel dolore la tentazione più grande è la disperazione e quando si incontrano segni di gioia nelle vite altrui la più grande tentazione è invidiarla e sentirsi diminuiti. Dai segni di bene, invece, tutti traggono un guadagno: pur non conoscendo la famiglia siciliana protagonista di questa storia, ognuno sente quando sia desiderabile poter abbracciare i propri cari sanati da ogni ferita. E questa consapevolezza pulisce la voce e gli occhi di fronte alla realtà, ci rende sinceri nell’affidarci al Solo che può curare anche i tagli che non si vedono e le lacrime che sulla terra nessuno può asciugare.

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