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“Entrare nella testa del Coronavirus”: il filosofo Hadjadj ci spiega come e perché

Fabrice Hadjadj
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PEPEONLINE - pubblicato il 10/05/20
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di Emiliano Fumaneri

In questi giorni si sprecano tante parole: chi lo fa per stordirsi, per distrarsi; chi lo fa per cercare di tenere sotto controllo la paura. Ma non tutti agiscono in questa maniera. C’è anche chi, come il filosofo Fabrice Hadjadj, usa la parola per onorare il Logos e, con esso, la dignità umana.

Hadjadj – che insegna a Fribugo, presso l’Istituto Philanthropos – ha avuto una felice intuizione: improvvisare un vero e proprio corso online, fruibile a tutti, dal titolo “Penser entre la peste et le corona” (Pensare tra la peste e il coronavirus).

La prima “puntata” del corso, che di seguito proverò a presentare, è visualizzabile sul canale Youtube FAB LAB. Il suo titolo è Épidémio-logiques (Epidemio-logiche).

Lo scopo è chiaro: comprendere la logica dell’epidemia (l’epidemio-logica, appunto) e far dunque esercizio di intelligenza per passare, avverte all’inizio Hadjadj, dalla «siderazione» alla «considerazione».

Il legame tra umiltà e dignità

Anche in tempi emergenziali pensare non è mai una passione inutile. Hadjadj lo prova richiamando un passaggio dei Pensieri di Blaise Pascal (1623–1662) su quella “canna pensante” che è l’uomo. Per Pascal l’uomo è un essere vulnerabile al punto che «non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo». Oggi, al tempo del coronavirus, chiosa Hadjadj, potremmo dire che a ucciderlo basta una gocciolina respiratoria…  L’uomo è fragile quanto una canna, ma è una canna che pensa e perciò, «quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire».

L’uomo che è un nulla, un punto infinitesimale in confronto allo spazio immenso dell’universo, è anche quel nulla capace – grazie al pensiero – di comprendere questo spazio immenso. Per lui la suprema grandezza coincide quindi con la più profonda umiltà.

Da qui discende, dice Hadjadj, il forte legame tra l’umiltà e la dignità dell’uomo.

La grandezza della specie umana sta nella capacità di de-centrarsi per adottare il punto di vista stesso di un’altra specie. Nel momento in cui il virus ci attacca alla maniera di un nemico, la nostra sola grandezza sta dunque nel cercare di entrare nella sua epidemio-logica.

Entrare nella logica virale

Adottare il punto di vista del virus per comprendere la logica virale. Questo proposito rinvia a qualche cosa di già esistente, nella fattispecie a un videogioco del 2012 di nome Plague Incorporated, dove l’obiettivo del giocatore è elaborare una strategia per annientare la popolazione mondiale con un’epidemia.

In sostanza, lo scopo del gioco è progettare un virus il più performante possibile per distruggere l’umanità. Ma questo, fa osservare Hadjadj, non coincide con la vera logica virale. Un virus reale infatti non può, in ultima istanza, aspirare alla totale estinzione dei suoi ospiti. Ciò per una semplice ragione: annientare i suoi potenziali “ospiti” equivale anche ad annientare se stesso.

La natura del virus

Il virus è una entità che potremmo definire “liminale”, a cavallo tra il mondo delle cose e il mondo del vivente. A livello virale comincia a emergere la vita e già si intravede qualcosa che è proprio della vita: perseguire una finalità e anche manifestare una sorta di intenzionalità (naturalmente molto diversa da quella specificamente umana, alla quale si può accostare solo per analogia).

Quando è lasciato a se stesso il virus risulta passivo, come una piccola cosa inerte, e affinché possa sviluppare delle capacità propriamente viventi (vale a dire nutrirsi, interagire col suo ambiente, moltiplicarsi) occorre che investa un altro essere vivente.

Sorgono quindi diverse domande: in che modo un virus dipende dal suo ospite? E come prende il controllo su di lui?

Hadjadj rinvia a questo proposito all’indagine di un “pensatore della vita” come lo svizzero Adolf Portmann (1897-1982). Per Portmann è di primaria importanza capire la logica del vivente. Per lui ogni specie si sviluppa secondo una finalità che è quella di prolungare la propria particolare morfologia (cioè la forma esteriore come ci appare a prima vista).

Portmann studia il virus della rabbia. Per comprendere l’unità organica dei suoi differenti sintomi, ci dice, non bisogna adottare un punto di vista esteriore. Così facendo non si coglierebbe la loro coerenza. Occorre perciò che l’osservatore umano si “decentri” mettendosi, in un certo senso, “al posto” del virus. Solo allora, una volta afferrata la logica interna del morbo, vedrà l’intima coerenza dei sintomi. Capirà anche come tutto, in queste manifestazioni, concorre per trasmettere al massimo il virus.

Nella rabbia ad esempio il comportamento dell’infetto si modifica. Uno dei sintomi è la straordinaria aggressività che in particolare nei cani spinge a mordere. Perché l’aggressività, perché l’impulso a mordere? Per infettare un altro potenziale “ospite”, naturalmente. Idem per gli altri sintomi, come l’eccitazione che diventa una “pulsione di mobilità”. Perché l’impulso a mettersi in marcia se non per andare alla ricerca di altri possibili ospiti del virus? E ancora: perché l’idrofobia, l’avversione per l’acqua? Ancora una volta, bisogna partire dalla logica della maggior trasmissione possibile: nella bocca il virus si moltiplica in maniera assai ricca e nell’acqua avremmo una eccessiva diluzione; tutto il potenziale di contagio andrebbe perduto.

In sintesi: quando ci si pone dal punto di vista del virus tutti questi sintomi prendono senso e vanno interpretati come elementi di una strategia che mira ad assicurare la presa di controllo da parte della malattia.

Il “patologismo compassionevole” del coronavirus

Possiamo applicare lo stesso schema anche al coronavirus: la tosse ad esempio è sì una reazione infiammatoria, ma al tempo stesso è anche una proiezione di sé, del virus che si “proietta” verso l’esterno; è la sua maniera di “aprirsi all’altro” (sempre dal punto di vista del virus).

Un’altra caratteristica del coronavirus è la sua formidabile strategia di contagio: il suo moltiplicarsi – e quindi diffondersi – attraverso un imponente numero di portatori sani, asintomatici. La Sars, al contrario, era forse più violenta ma più facilmente identificabile e dunque arginabile. Col coronavirus invece non si sa bene chi isolare e chi no. Al limite occorrerebbe isolare tutti.

C’è ancora un altro aspetto interessante nel coronavirus, fa notare Hadjadj. Nel caso della rabbia c’è l’aggressività. Bisogna mordere per assicurare la trasmissione del contagio. Per il coronavirus vale semmai l’opposto. Non c’è collera, bensì tenerezza. Il covid-19 ha piuttosto l’aspetto di una “patologia compassionevole”, piena di tenerezza. Il coronavirus sfrutta la nostra tenerezza; tutti i nostri gesti affettivi diventano pericolosi e, al contrario, bisogna inventare quelli che oggi, con una espressione incredibile, vengono definiti “gesti barriera”.1

Lavorando un po’ con l’immaginazione – ma neanche troppo – si può ipotizzare che laddove la rabbia dà impulso a una pulsione aggressiva, alla stessa maniera il coronavirus possa indurci invece a essere gentili, a farci delle coccole… Una presa di controllo che avviene dunque attraverso “sintomi” opposti a quelli della rabbia: la compassione, la gentilezza, che diventano mezzi di propagazione virale.

C’è un terzo aspetto rilevante del coronavirus: la sua capacità di “prendere il controllo” dell’economia mondiale, con l’infezione che diventa una infezione della borsa, che sfrutta l’economia interconnessa del mondo globalizzato, coi suoi voli internazionali, le grandi concentrazioni urbane e i loro assembramenti di persone ecc.

La teoria del compromesso

Ma si può fare anche qualcos’altro: riflettere su quella che si potrebbe chiamare una “teoria del compromesso” da parte del virus.

Perché mai il morbo dovrebbe cercare di venire a patti con la sua preda? La ragione è assai semplice: un predatore ha sempre bisogno della sua preda. Da questa basilare necessità discende una duplice esigenza: da un lato il predatore deve vigilare affinché ci siano sempre delle prede da cacciare, dall’altro bisogna che queste prede si moltiplichino. «Se la tigre fosse intelligente», commenta con umorismo Hadjadj, «inventerebbe dei centri di riproduzione di gazzelle, che so, dei luoghi in stile Club Méditerranée dove le gazzelle, maschi e femmine, possano ritrovarsi, copulare assieme, produrre dei piccoli… ».

Insomma, servono per forza delle prede. Altrimenti il predatore è semplicemente finito.

Ci sono due versioni della teoria del compromesso.

Compromesso come “pacificazione”

Una prima versione molto ottimista pensa che – specialmente nel caso di un virus che ha bisogno di un essere vivente per continuare a esistere – la relazione tra un parassita e il suo ospite sia destinata a pacificarsi progressivamente. Si va cioè verso il mutualismo: ognuna delle parti ricaverà un guadagno dall’appeasement. Il parassita deve curarsi del proprio ospite per garantirsi una sopravvivenza. È quella che in epidemiologia viene detta “’ipotesi dell’avirulenza”. Alla fine il virus perde in virulenza. Diventa appunto a-virulento: anziché distruggere il proprio ospite, arriverà a ritagliarsi un proprio spazio al suo interno.

È quel che accade coi batteri che formano il nostro microbiota (meglio conosciuto come flora intestinale), per non parlare dei virus che sono stati integrati nel nostro genoma.2

Si vede qui come la simbiosi primeggi sulla concorrenza. Del resto anche perché vi sia concorrenza occorre che si con-corra a qualche cosa. Con-correre assieme è una maniera di essere assieme che precede anche la rivalità. Per cui il modello puramente concorrenziale perseguito da un certo darwinismo sociale degli inizi, dove ciascuno fa da sé e per sé, non tiene. Non funziona. Prima di tutto c’è la collaborazione.

Infine, in questo caso la rivalità deve tramutarsi in collaborazione. Questa è la tesi: non solo la simbiosi (o meglio, il concorso) precede la concorrenza, ma anche in un’ottica di rivalità la concorrenza deve ultimamente approdare alla mutualità poiché va pure a vantaggio del virus preservare il proprio ospite.

Compromesso come “violenza controllata”

C’è invece una versione meno ottimista, opposta alla tesi dell’avirulenza finale. Essa parte dalla constatazione che l’avirulenza può essere registrata su scala temporale più ampia, a livello dei ritmi dell’evoluzione, ma non al nostro livello.

È la teoria che potremmo definire del “trade-off”, del compromesso, dell’arbitraggio tra  due parametri: compromesso tra virulenza – vale a dire violenza, attacco dell’altro – e trasmissione.

L’ospite, per il virus, è al tempo stesso un alimento e un vettore. Se lo uccide troppo velocemente accorcia la durata dell’infezione e dunque la possibilità di propagazione. Dall’altra parte, se i sintomi sono veramente troppo deboli in quel momento non c’è più trasmissibilità.

I parassiti perciò devono adottare un livello ottimale di virulenza, cioè una violenza che forse finirà per uccidere l’altro, ma solo dopo un certo tempo. La cosa migliore da fare è quindi di essere già presenti e in maniera latente, nascosta, per potersi comunicare, trasmettersi e solo dopo, eventualmente, eliminare l’ospite.

C’è dunque una sorta di optimum. Si ritrova in questo caso una logica che è molto interessante perché rimanda a quanto diceva Levinas a riguardo dell’odio: colui che odia ha bisogno che la sua vittima lo veda mentre la sta odiando e distruggendo.

E allora si verifica una manifestazione molto particolare: chi odia, dice Levinas, vuol ridurre l’altro a un oggetto e schiacciarlo, ma nello stesso tempo occorre pur sempre che l’altro resti un soggetto per potersi vedere mentre viene tramutato in oggetto. È il problema del torturatore: non bisogna che la vittima svenga completamente, bisogna che sia presente e che assista al proprio progressivo degrado. La vittima deve vedersi mentre viene svilita e offesa. Dunque il torturatore deve mantenerla ancora come una persona cosciente e non spingersi fino a farla sprofondare nell’incoscienza totale.

È per questo che c’è un’ambivalenza nell’odio. C’è un passaggio assai celebre del poeta Henri Michaux (1899-1984), il quale dice che vorrebbe tanto uccidere sua moglie. Ma non gli basta ucciderla una volta sola, vorrebbe sapere come fare per ucciderla tutti i giorni. Il paradosso è che per ucciderla ogni giorno deve per forza mantenerla in vita. Per raggiungere il suo obiettivo dovrebbe accettare una sorta di perverso compromesso. E alla fine ci sono coppie che hanno una grandissima longevità precisamente a causa di questa specie di compromesso: per poter uccidere la propria donna ogni giorno.

La logica virale è interessante per questo: si arriva sempre a delle logiche di compromesso e da qui a un optimum.

La logica del compromesso del virus ricade anche sull’uomo

Bisogna anche sapere che la logica del compromesso viene adottata anche da parte dell’uomo che viene infettato dal virus. È la logica ad esempio di Mitridate, quel re che temendo l’avvelenamento comincia a prendere ogni giorno delle piccole dosi di veleno in maniera da essere immunizzato nel caso gliene venisse versata una grande dose.

Anche in questo caso bisogna trovare un compromesso tra la protezione e l’immunizzazione. Immunizzazione che suppone una esposizione. C’è sempre questa dualità, questa tensione tra protezione e esposizione.

Anche le misure di isolamento restano all’interno della logica del compromesso e operano una scelta all’interno di questa logica compromissoria.

C’è un epidemiologo di nome William Dab che in un’intervista apparsa su Le Figaro ha lanciato la formula “siamo in guerra” ripresa successivamente dal presidente Macron. Nell’intervista il dottor Dab, che  è stato direttore generale della sanità francese al tempo della Sars, avanza un’ipotesi secondo cui la Francia potrebbe avere trecentomila morti qualora dovesse realizzarsi uno scenario con un gran numero di infettati (30 milioni di persone, secondo la sua ipotesi) e un tasso di letalità intorno all’1%. Ciò porterebbe alla cifra di 300 mila vittime. Perciò si fa difensore della quarantena (il confinement, come la chiamano in Francia) per evitare un così grande numero di vittime.

Allo stesso tempo, nel seguito della sua intervista a Le Figaro, ci sono delle parole estremamente ambigue che mostrano molto bene che abbiamo sempre a che fare con un compromesso. Ecco le parole di Dab:

Se riusciremo a fermare l’epidemia e a fare in modo che sia infettato, e dunque immunizzato, meno del 30% della popolazione, allora il virus avrà campo libero per fare ritorno in autunno. E allora bisognerà ricominciare quel che facciamo adesso. In compenso, se si contamina tra il 60 e il 70% della popolazione durante una prima ondata, col bilancio umano che possiamo immaginare, ciò potrebbe conferire in seguito una solida immunità di gruppo. Una seconda ondata, se mai dovesse essercene una, sarebbe meno severa. È una magra consolazione, ma è così.

Per Dab dunque bisogna isolarsi, ma nello stesso tempo sarebbe meglio, per certi aspetti, che il 70% della popolazione venisse infettato. Ciò pone differenti problemi: la logica dell’isolamento infatti non si prefigge tanto di limitare l’infezione quanto di estenderla nel tempo: ci sarà una seconda ondata; più ci si isola, più si avrà possibilità di aprire a una seconda ondata severa. Il vantaggio consiste nel fatto che così si guadagna tempo per proteggere il sistema sanitario, per avere abbastanza letti in rapporto al numero di casi severi. E poi, seconda cosa, per ritagliarsi il tempo di avere un vaccino, o in ogni caso dei rimedi.

Tuttavia ci muoviamo sempre all’interno di un compromesso: ricercando più isolamento avremo meno immunità (come con le cure a base antibiotica: più antibiotici, più ceppi batterici resistenti). Siamo immersi perciò in una battaglia senza fine che oscilla tra poli contrastanti: da un lato la volontà di vincere il nemico senza trovare degli accomodamenti con lui; dall’altro lato la constatazione che alla fine questo nemico è irriducibile: ci confrontiamo con un male che c’è sempre e col quale non è mai completamente finita.

Tre conclusioni

Hadjadj arriva infine a tre conclusioni: una pratica, l’altra che rientra nella filosofia del vivente e poi l’ultima che è una conclusione più metafisica.

1) Sul piano pratico:

Da questo punto di vista, più che la logica del virus è il nostro progressismo a vacillare: più si oppongono delle resistenze, più ci saranno delle mutazioni, delle reazioni, ceppi più resistenti; più ci si proteggerà, meno si avrà immunità. Ciò mostra che il tempo, nel suo sviluppo, non è una marcia lineare verso il bene assoluto«È la duplice crescita del grano buono e della zizzania», chiosa Hadjadj, «un progressismo puro non ha ragion d’essere quando si è davanti a questa epidemia». E così, in un sol colpo, assistiamo al crollo della nostra società della predizione, dell’anticipazione.

2) Sul piano biofilosofico (filosofia del vivente):

Un essere vivente persegue una finalità che è quella di conservare la propria specie nel mondo: la sua specie singolare, particolare. Ma anche per conservarla deve per forza sottostare a una duplice logica. Non soltanto una logica di concorrenza, ma anche una logica di associazione, dato che un essere vivente vive sempre in un ambiente assieme ad altri esseri viventi. La simbiosi precede dunque – ma sopravanzandola in profondità – ogni forma di concorrenza.

3) Sul piano metafisico:

Qui occorre fare una premessa: in metafisica il male non è un qualcosa, è una privazione. Non vi è disordine se non perché prima di tutto c’è un ordine. C’è malattia solo perché la malattia è privazione della salute. Se non ci fosse la salute non ci sarebbe la malattia. Il male dunque presuppone sempre il bene: il bene è primario e anteriore. Il virus divorerà il suo ospite, sì, ma nello stesso tempo avrà sempre bisogno di lui. C’è un momento in cui, dopo aver ucciso un certo numero di persone, il virus dovrà mutare, diventare magari endemico ma sotto una forma più benigna (come ad esempio nel caso della Sars), senza nulla togliere al fatto che altre forme virali potranno sempre fare la loro comparsa.

Il fatto è che il male presuppone il bene e a un certo punto bisogna che resti il bene. Occorre insomma che ci sia ancora dell’“essere in corpo” anche per poterlo attaccare, altrimenti il gioco non funziona più.

Ciò è profondamente vero anche per quanto riguarda la nostra vita in generale:

Se abbiamo l’angoscia della morte, in quest’ora in cui respiriamo ancora – per quanto tempo? – è precisamente perché abbiamo visto, prima di tutto, quanto sia bene essere in vita. Lo stupore precede sempre la supplica, come dice il celebre verso di Rainer Maria Rilke: «Soltanto nello spazio della lode può andare la lamentazione». Se mi lamento è perché ho visto prima di tutto la bontà delle cose e sono ferito per averle viste attaccate fino a quel punto, distrutte, danneggiate. Dunque vi è sempre uno stupore che sta sullo sfondo della nostra supplica.

Hadjadj conclude con la lettura delle parole del padre Paneloux, uno degli indimenticabili personaggi de La Peste di Albert Camus:

Oggi ancora, per questo tragitto di morte, d’angosce e di clamori, [la peste] ci guida verso il silenzio essenziale e verso il principio d’ogni vita.

Qui l’articolo originale tratto da Pepeonline.it

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