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Lettere sulla Chiesa di un giovane/vecchio prete a Gesù

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 07/05/20
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Il prolifico sacerdote ambrosiano don Samuele Pinna ha dato alle stampe un originale epistolario fittizio in cui don Augusto, suo alter ego letterario, rende conto a Cristo Signore del tran tran della parrocchia, della diocesi… e soprattutto della sua coscienza, a tratti stanca ma mai abbattuta. Ne emerge una lezione spirituale arricchente per tutti.

Ricordo che da ragazzo rimasi rapito dalle più di cinquecento pagine de Il Nome della Rosa, io che mi annoio coi gialli e tendo a diffidare della letteratura contemporanea: per poco meno di una settimana parve che andassi a scuola, mangiassi, viaggiassi e dormissi nei ritagli di tempo che non dedicavo a quella strana lettura. La trama mi era quasi indifferente, l’intrigo non mi sfiorava, mentre ero in soggezione davanti alla grande erudizione squadernata da Umberto Eco, e soprattutto da come si potesse parlare tanto minutamente di cristianità senza lasciar trapelare un rivolo di cristianesimo.



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Tra le lunghe tematiche in cui più mi prendeva questo brivido ricordo gli interminabili dialoghi sul riso e sulla gaiezza: Jean-Jacques Annaud avrebbe dovuto restituire ai suoi spettatori, complici i limiti del mezzo cinematografico, una rappresentazione piuttosto stilizzata (a tratti anzi caricaturale) della contrapposizione tra la gravitas benedettina e la iucunditas francescana – fin da ragazzo ero poco incline a credere che nella storia del cristianesimo fossero sorte delle vere e proprie novità, cioè delle note esistentive non presenti almeno in grado germinale fin dal principio.

La questione del riso fu tra quelle che più mi presero, perché nel botta e risposta tra Jorge e Guglielmo vedevo alternarsi il sic et non di Abelardo, il videtur sed contra di Tommaso e tutta la cura con cui la Viva Tradizione della Chiesa ha cercato e diuturnamente cerca di garantire e sostenere un ethos che mai s’ingabbiasse in una mera precettistica. Spesso in particolare mi torna alla mente questo passaggio:

Mi chiedo – disse Guglielmo – perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia.

I bagni sono cosa buona – disse Jorge –, e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l’audacia. I bagni restituiscono l’equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rene l’uomo simile alla scimmia.

Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo, è segno della sua razionalità – disse Guglielmo.

È segno della razionalità umana anche la parola, e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono. […]

E il dialogo prosegue per una manciata di pagine ancora. Questa pagina mi piacque fin da ragazzo perché, scorrendo a partire dal tempo della storia, i secoli avrebbero dimostrato l’infondatezza della “teoria degli umori” nella fisiologia – cosa che invalidava le teorie mediche – ma da un lato le proprietà terapeutiche del riso sarebbero state confermate, e dall’altro la storia avrebbe insegnato con raccapricciante cura che non tutte le espressioni peculiari dell’uomo sono ipso facto buone.


VIGNETTA PAPA CROCIFISSO GUARESCHI
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Con particolare riguardo alla vita cristiana, della quale il dialogo intendeva discettare in primis, anche noi sappiamo, come il fu giovane Adso da Melk (io narrante del romanzo di Eco), che nel cuore del medioevo il riso fu ritenuto espressione del trionfo pasquale di Cristo, al punto che se ne fece il perno di rituali che alcuni giudicarono immorali e dissoluti, talaltri invece iniziatici e mistici. Sta bene che il riso sia peculiare dell’uomo ed è incantevole che vi abbiamo saputo scorgere perfino il vessillo del Risorto, ma basta un esame di coscienza per conoscere il fondo di verità espresso da Jorge nel dialogo: in tutti gli atti veramente e genuinamente umani è contenuto un nodo di ambiguità che impedisce loro di essere semplicemente neutri. Quale riso, dunque, ci fa bene e ci salva? Quale invece ci attosca e danna?

A queste cose ho pensato per gran parte della lettura di un piccolo-grande libro recentemente dato alle stampe dal prolifico don Samuele Pinna: “Dalle lettere di don Augusto”, che reca il vistoso sottotitolo “Come rimanere cattolici nonostante tutto”. Cosa si trovi incluso nell’indefinito pronome “tutto” è domanda che trova risposta solo nella lettura del libro, ma la dotta e cordiale Presentazione di Paolo Gulisano offre una soffiata importante:

[Dell’Eutrapelía, N.d.R.] […] parlò addirittura Dante Alighieri nel Convivio, definendola come la decima virtù del cristiano, la penultima prima della giustizia e dopo la fortezza, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, ama|tiva d’onore, mansuetudine, affabilità, verità: «La decima – scrive l’Alighieri – si è chiamata eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente». […] È l’arte del far ridere, l’umorismo buono, molto diverso dalla satira, che consiste non tanto nel ridere quanto nel deridere.

L’eutrapelia è una virtù che andrebbe recuperata, in un tempo che oscilla tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva. Predomina insomma lo sghignazzo sboccato, là dove avremmo invece bisogno di un sorriso buono. L’eutrapelia è una virtù imparentata con la modestia: ci aiuta a non darci troppa importanza e a non montare in superbia.

Paolo Gulisano, Presentazione a d. Samuele Pinna, Dalle lettere di don Augusto, 5-6

Giungendo però a questo don Augusto troviamo sì un ecclesiastico, ma non erudito come Jorge e Guglielmo (benché solidamente colto); egli invece

sembra essere uscito dallo stesso Seminario che a suo tempo frequentarono due sacerdoti come don Camillo e padre Brown.

Ivi, 5

Le lettere sono tredici (più una) e – se nel numero si richiamano al primo e più famoso epistolario della storia della cristianità (quello dell’apostolo Paolo) – esse prolungano lo stile colloquiale dei dialoghi guareschiani di don Camillo col “suo” Cristo nell’antico genere letterario delle Confessioni, che in Agostino hanno tuttora il modello insuperato: come in Guareschi don Augusto dà del Voi a Gesù, ma come in Agostino le risposte divine corrispondono alle interlocuzioni dell’autore nello stesso flusso di coscienza (o per le suggestioni della Rivelazione opportunamente distillata nella memoria orante). La grande difformità rispetto all’epistolario paolino è nel fatto che in questo l’Apostolo parla di Cristo alle comunità, in quello il Prete parla delle comunità a Cristo, ma questo e quello sono analogamente distinguibili in tre sezioni (più una lettera esterna, sovrannumeraria [e, nel caso di don Augusto, una introduttiva]):

  1. quattro lettere descrivono al Signore gli “incontri parrocchiali del terzo tipo” (rispettivamente con “la catechista brutta”, “il catechisto” [sic!], “la vecchia babbiona” e “la direttrice del coretto della Messa dei ragazzi”;
  2. altre quattro rendono conto a Gesù dei “luoghi comuni (in)confessabili tra gente apparentemente normale” (e cioè “il Vescovo burlone”, “il libretto del Matrimonio”, “la piccionaia del Cpp” e l’“ite, Missa est”);
  3. un’ultima tetrade descrive quattro “in-croci d’anime” – storie di ordinaria pastorale che, «nonostante tutto», rendono ragione, senso, giustizia e bellezza al ministero sacerdotale (“la forza del Crocifisso”, “Come una cristiana”, un “caldo abbraccio in un freddo funerale” e “la conversione nello (s)battesimo”).

Don Augusto è un prete anziano bruscamente trasferito:

[…] mi hanno dato il foglio di via e fatto traslocare dalla mia amata parrocchia dopo anni di onorato servizio. Non potevano farmi crepare in pace e nel mio letto, vista la mia età? Non potevano soprassedere per qualche anno ancora?

Samuele Pinna, Dalle lettere di don Augusto, 19

Il suo scrivere risulta espressamente motivato da uno sfogo:

[…] eppure non posso esimermi dallo stendere queste mie memorie nella speranza che, rileggendo quanto scrivo, il mio affare interiore possa trovare un poco di pace.

Ivi, 23

E non di rado nelle lettere del vecchio prete guareschiano, chestertoniano e lewisiano si notano delle note di inconfondibile amarezza:

Sono solo un brontolone, e forse prima di chiedermi tutte queste cose, mi dovrei domandare dove siamo stati noi sacerdoti, dove sono stato io per non far percepire che queste sono verità, ma è delle verità che il mondo ha bisogno.

Ivi, 74

Don Augusto non avrebbe problemi ad affrontare un “mondo alla rovescia” (dice), se almeno la Chiesa da parte sua fosse tutta (o quasi tutta) dritta: e invece gli tocca vedere che in molti àmbiti vitali – dalla liturgia alla catechesi alla predicazione, passando per la vita dei preti e per quella dei laici – sembrano vaste e forti le infiltrazioni della confusione mondana nella comunione ecclesiale, al punto che in qualche contesto sembra che si parli di Chiesa e mondo a parti invertite.

Uno sperava di leggere un libro rilassante e lieve, pieno dell’annunciata eutrapelia… e invece si trova davanti il fedele e spietato bozzetto del “catechisto” («di bella presenza, ma non troppo; intelligente, ma non troppo; informato sui fatti, ma non troppo» – ivi, 35) che prende le distanze su questo e quel punto del deposito della fede, prevalentemente per leva istintiva delle sue idiosincrasie, e che all’improvviso molla la parrocchia mentre si scopre che anche i giovani negli anni affidati alle sue “cure pastorali” si trovano completamente sguarniti di strumenti al banco di prova della vita.

In seguito aveva capito che la gioventù a lui affidata gli donava sempre meno e la fede era quasi sparita dalla circolazione. Infine, davanti al nulla sensoriale, non percependo cioè più una gratificazione affettiva nel suo servizio, aveva deciso di abbandonare e di mandare all’aria ogni cosa. E, quindi, si era allontanato, precisando che come lui avevano fatto tanti altri. Alè!

Ivi, 41

Tasto dolentissimo, quello toccato da don Augusto:

Mi pare che troppe volte si reciti una parte e non si trasmetta più un fico secco!

Ivi, 42

Di risate neanche l’ombra, e si accenna un sorriso amarognolo quando si legge degli offertorî con

doni […] molto simili, per valore e fattura, alla paccottiglia che si vince nelle sagre di paese.

Ivi, 47

Né manca la giusta precisazione del prete amareggiato, che potrebbe sembrare un banale passatista misoneista:

Non è tanto per il gesto, ma perché sentiamo la necessità di creare nuovi dogmi, senza fondamento, e trascuriamo quelli veri?

Ivi, 48

Continuando a sfogliare le pagine, però, succede che i sorrisi aumentano d’intensità e di positività, pur nell’impietosa fustigazione delle miserie ecclesiali. Dei piani pastorali, ad esempio, si biasima l’evidente e sconcertante inefficacia:

Che sta succedendo? Si pone in campo una sottile strategia per cercare di rinnovarsi e ci si trova tra le mani miseri risultati, come chi noleggia una gru per tirarsi su i pantaloni.

Ivi, 55

E dopo una tagliente requisitoria sul decadimento di certo progressismo ecclesiale nel passaggio di testimone “dai pionieri ai ragionieri” suona ancora meglio:

Nascevano, in tal modo, un sacco di belle iniziative atte a far riscoprire una fede autentica e responsabile, matura ed equilibrata, egualitaria e priva di trionfalismo. E il risultato indiscutibile è stato lo svuotamento, a frotte, della gente dalle parrocchie. Qualcuno considera tale esodo un semplice effetto collaterale e se non proprio scusabile, quantomeno comprensibile, mentre altri hanno capito, alla Totò, che se l’operazione è riuscita, il paziente è morto.

Ivi, 76

E allora i consigli pastorali vanno necessariamente affrontati con stoica spensieratezza (o se si preferisce con bonario cinismo): portare pazienza con le tante piccole miserie che affiorano da cammini personali faticosi e lenti, se pure esistenti, e cogliere le opportunità date per tentare l’impensabile – evangelizzare i parrocchiani!

Sorridere va bene, ma se serve a riflettere, non a dare colpe; e qui don Augusto ci si mostra tenerissimo nella sua umanità consacrata:

Ogni tanto mi chiedo dove si sia smarrita questa felicità… Perché non riesco a spiegarlo? Perché non interessa?

Ivi, 87

Si ride per non piangere, verrebbe da dire a tratti, e invece no: da un lato si sorride per riflettere, e dall’altro non si lesina di piangere, visto che «non tutte le lacrime sono un male» (il Gandalf di Tolkien citato a p. 108); dall’altro non c’è affatto da disperare, e lo testimoniano al di là di ogni ragionevole dubbio proprio le storie degli in-croci, le normali (dunque non clericali) esistenze in cui Dio compie, con semplicità e potenza, la sua opera – mediante strumenti ordinarî e non. C’è la vecchina anziana e ricoverata che sa di essere unita alla croce di Gesù e ne ringrazia commossa; c’è la vita pasticciata della signora milanese che sembra un inutile garbuglio e che almeno in extremis riacciuffa il bandolo della propria matassa; c’è l’esistenza stracciata e rattoppata di un figlio del boom anestetizzato dal benessere che sul letto di morte raccoglie i cocci di due famiglie lasciate a metà.

E merita una menzione a parte la bellissima storia di Giuseppe Botticelli, che porta in canonica il figlio adolescente («gli occhi freddi e grigi» – p. 111) il quale chiede di essere cancellato dai registri parrocchiali: il prete lo invita a riflettere e gli regala la propria corona del rosario; il ragazzo la butta via appena uscito e il padre cerca di riparare il danno riportandola al prete, che però lo invita a tenerla per sé:

[…] forse non ti sei accorto di averne pure tu un tantino bisogno.

Ivi, 114

Don Augusto è la persona letteraria di don Samuele, evidentemente, ed è anzitutto in forza dell’Ordine sacro che un giovane prete (garbato ossimoro) si sente autorizzato a riversarsi nella figura di un arzillo anziano. Anzi, le lettere culminano in un inno all’infanzia – quella evangelica che fa diventare adulti in un affidamento gioioso – e che hanno reso bambini come Domenico Savio maestri di gioia per santi preti come Giovanni Bosco.

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Samuele Pinna, Dalle lettere di don Augusto, Ares 2020, € 13,80

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