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Armani, il “discorso del re” Giorgio dentro la crisi: bisogna ridisegnare un orizzonte più vero

GIORGIO ARMANI

MILAN, ITALY - DECEMBER 7: Giorgio Armani during the Euroleague Basketball between Armani Jeans Milano and Zalgiris Kaunas at the DutchForum in Milan, Dec 7, 2012 in Milan, Italy.

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Paola Belletti - pubblicato il 06/05/20
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Giorgio Armani è per tutti The King. E come i re di un tempo, che non fossero tiranni, sembra sentire il peso del bene degli altri in questa emergenza mondiale da Covid-19. Ha riconvertito le sue fabbriche italiane per realizzare camici per i sanitari. Di fatto ha continuato a fornire la divisa per una squadra del cuore!Non ci sta a fare la Cassandra di una Troia ormai in fiamme, Giorgio Armani. Ha 85 anni portati come un abito di alta moda che il tempo non lo subisce troppo, lo racconta. Ed è più simile ad un profeta biblico che a una fanciulla bella e inascoltata del tragico mondo omerico.

Della tragedia però ha il senso perché, come racconta a Famiglia Cristiana in una recente intervista, sente su di sé e sugli altri, dai vicini agli sconosciuti, l’incombere della morte. Il coronavirus, dramma reale e anche imposto dalla ossessiva narrazione monotematica che viene diffusa da ogni canale, propone a tutti una realtà già presente ma di solito più nascosta. Se nasci è altamente probabile che prima o poi ti ammalerai o comunque decaderai psico fisicamente ed è graniticamente certo che ad attenderti ci sarà la morte.

Ma tutto ciò che sta in mezzo non è una passerella, con installazioni fatte e disfatte in fretta e furia, sulla quale si avvicendano modelli sempre più improbabili; è una strada, piuttosto, che va da parte a parte e si può percorrere godendosi insieme il panorama che la costeggia.

Ma ora via, bando alle metafore e alle immagini prese qua e là e torniamo a lui, il re.

Alle prime avvisaglie della pandemia è stato tra i primi, come è da par suo, a mettere in atto protocolli di sicurezza e riconvertire la produzione delle sue aziende. E ha scritto, sì, ha scritto diverse lettere: accorate, severe, al personale sanitario, ai colleghi della moda.

Grazie, siamo con voi, vi sosteniamo – ai primi; e cari colleghi, ora è proprio il caso di ripensare il nostro settore e il nostro modo di lavorare. Se prima mi prendevate per un vecchio brontolone moralista (anche se i suoi inarrestabili successi in tutti i comparti di business che ha avviato sono lì a smentire i detrattori) adesso forse vi conviene ascoltarmi.

Così, ancora una volta oggi è arrivato primo. È stato il primo a decidere di non sfilare alla Settimana della moda. Era solo il 23 febbraio: il coronavirus cominciava a insinuare la silenziosa e invisibile minaccia anche nell’aria della sua amata Milano. E lui, tempestivo e risoluto, gli ha chiuso le porte. «La sfilata è stata registrata a teatro vuoto e trasmessa in streaming sulle piattaforme on line, non volevo esporre ad alcun rischio la salute degli ospiti, che erano lì per lavorare, e dei miei dipendenti», spiega. «È stato surreale vedere la platea vuota, ma avevo la consapevolezza di avere fatto una scelta saggia, che ripeterei». (Famiglia Cristiana, 19/2020)

 

La Milano che riparte è quella che forse ha saputo fermarsi al momento giusto? Può essere, di sicuro non si esce da una crisi simile semplicemente azzeccando slogan.

Di fronte allo tsunami che ha investito l’Italia e, quasi ne fossimo la costa, prima di tutti la Lombardia, Armani ha smesso di fare alcune cose e iniziato a farne altre, ma il criterio (e anche la prontezza) è rimasto lo stesso: la vera crescita, quella che mette al centro la persona. Quello è il discrimine che può far decidere se fare o non fare un evento da centinaia di migliaia di euro e optare per donarli agli ospedali, anziché farli fruttare in fondi di investimento, per esempio.

Da quel momento, la volontà di Armani di combattere uno dei più grandi nemici della nostra storia si è vista giorno dopo giorno. Rinviata la sfilata a Dubai, l’8 marzo fa una donazione di un milione e 250 mila euro agli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele e Istituto dei tumori di Milano, allo Spallanzani di Roma e alla Protezione civile. Il 10 marzo chiude negozi, hotel, caffè e ristoranti, sempre in continuità con le linee preventive da lui adottate, per non mettere a rischio la salute di dipendenti e clienti. E arriva, con il cuore in mano, da milanese ormai quasi doc e da ex studente di Medicina, che per la moda ha messo nel cassetto il sogno di ragazzo di diventare dottore, la sua lettera al personale sanitario italiano. «È commovente vedervi impegnati nel vostro lavoro con le difficoltà e i grandi sforzi che ormai tutto il mondo conosce. E soprattutto vedervi piangere. Credo che questo sentimento si colleghi al mio desiderio di intraprendere la carriera di medico quando ero giovane e cercavo una mia strada. Tutta la Giorgio Armani è sensibile a questa realtà ed è vicina a tutti voi: dal barelliere all’infermiera, dai medici di base a tutti gli specialisti del settore. Vi sono personalmente vicino».

Certo cinema, certi cliché ci hanno fatto credere che per essere uomini di successo non bisogna guardare in faccia nessuno. Re Giorgio, invece, sembra che riesca a guardare in faccia parecchie persone, forse cominciando da sé stesso. Tra le decisioni prese con prontezza, la conversione di tutti gli stabilimenti italiani alla produzione di camici per gli operatori sanitari. E’ lo stilista che veste le squadre del cuore, dalla nazionale olimpica alla pallacanestro (due dei suoi fratelli giocavano, ricorda)


GIORGIO ARMANI
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Il 26 marzo comunica la conversione di tutti i suoi stabilimenti italiani alla produzione di camici monouso destinati alla protezione degli operatori sanitari contro il coronavirus. Decide inoltre di dare il suo contributo anche all’ospedale di Bergamo, a quello di Piacenza e della Versilia, arrivando così a una donazione di 2 milioni di
euro. Coinvolge anche la società, i giocatori e l’allenatore della Pallacanestro Olimpia Milano, che rinunciano a una parte dello stipendio per sostenere le
strutture ospedaliere. In tutto un altro milione di euro Emergenza: risposta personale e risposta aziendale.

E rispetto alla minaccia concreta di ammalarsi cosa pensa, cosa prova? Paura, per sè, per i vicini e per gli sconosciuti. Quanto è bella questa progressione? Se amo me, amo il prossimo, se amo il prossimo, vicino, familiare, intimo, amo lo sconosciuto che so portatore dello stesso volto e dello stesso curriculum di affetti, legami, preferenze incondizionate.

Combatte, ma ha paura come tutti?
«Sì, certo, in questo momento ho paura, per me, per le persone che mi sono vicine, ma anche per chi non conosco, le persone sconosciute e lontane. (Ibidem)

Siamo tutti costretti a pensare alle cose primarie adesso, se non tutti la grande maggioranza del fiaccato ceto medio. Ma questo è anche il momento di rivedere un settore non essenziale (come risposta ad un bisogno, si intende) ma trainante per la nostra economia e per il posto dell’Italia nel mondo, la moda. E Giorgio solleva, di nuovo, una critica che sta muovendo da tempo al suo mondo: troppa immediatezza, troppa velocità, soprattutto nel lusso. La bellezza, vera, chiede tempo, pensiero e progettazione, fatica e attesa.

Sono anni che sollevo gli stessi interrogativi, spesso inascoltato e anzi passando per moralista: il lusso non può e non deve essere fast. Non ha senso che una mia giacca o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane prima di diventare obsoleti, sostituiti da merce nuova che non è poi troppo diversa. Io non lavoro così, e trovo immorale farlo. Ho sempre creduto in un’idea di eleganza senza tempo, che non è solo un preciso credo estetico, ma un atteggiamento nella progettazione e realizzazione dei capi che suggerisce un modo di acquistarli: perché durino. Questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare e disegnare un orizzonte più vero. Una riflessione che sto vivendo sulla mia pelle: io abituato a ritmi frenetici, sto imparando come tutti l’importanza di rallentare. Una pausa che diventa un’occasione di intimità, un modo di nutrire il nostro pensiero. Questo è il grande insegnamento che, alla fine, ci lascerà questa esperienza di lungo isolamento.

L’orizzonte, prima che venga ridisegnato, va lasciato tergersi, pulirsi da troppo affollati skyline. E contemplato, forse. Ma anche Giorgio intuisce che in gioco ci sia anche Altro. E allora lo scenario in cui ci troviamo già e ci troveremo a breve non dipende solo da noi, ma da qualcuno che più che tenerci in pugno ci guarda nel palmo della Sua mano e ha cura di noi, persino in mezzo a tanto dolore, povertà, sofferenza e incertezza crescente. Armani lo sa che il suo titolo è un po’ usurpato, perché di Re, per davvero, ce n’è uno solo. E pare che anche lui, in qualche modo, ne tenga conto.

«Avere fede è un dono grandissimo, un conforto sicuro, ma anche il gesto di umiltà di riconoscere che c’è qualche cosa che guida la nostra vita. Mi è capitato, in alcuni momenti veramente molto difficili, di rivolgere una preghiera e farlo è stato di grande conforto»

La fede è un dono, di qualcuno che ci conduce e lo fa verso il bene. E pregare reca conforto. Non è una catechesi ma dice tantissimo, in poche parole, pulite, essenziali, come è nel suo stile.

Mi ha quasi commosso, a pensarci. Un uomo ricco, potente, amato, anche osteggiato, certo, ma umanamente riuscito che è in grado di vedere oltre la fiera delle vanità, comprese le più belle, nella quale siamo immersi. La moda, come la intende lui, sembra proprio un nobile tentativo di vincere la corruzione e la morte, di tendere a ciò che è vero e bello per sempre.

Sono sempre più convinta che questa crisi, da sola, non possa cambiare il cuore di nessuno; può con veemenza precipitarci in condizioni drammaticamente diverse. Però in esse, come inaudita occasione, possiamo rifare un incontro che sia in grado davvero cambiarci la vita: la sola rivoluzione resta la conversione del cuore. Il mondo cambia un cuore alla volta. E’ il momento di una nuova ondata di annuncio del vangelo del Regno, sembra sentirne nostalgia persino re Giorgio.

 

 

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