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La «città del quarto d’ora», quando l’utopia ecologica assomiglia tanto alla Genesi

GIRL, HAPPY, BIKE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 06/05/20
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Arriva un’intuizione urbanistica per una vita migliore dopo la pandemia: s’immagina l’uomo al centro di uno spazio piccolo e attorno a lui tutto il necessario, per sprecare meno e curare le relazioni.Ieri sera – strano a dirsi – mi sono addormentata serenamente con una bellissima immagine in testa. Merito di Don Fabio Rosini, il cui libro L’arte di ricominciare è mio amico serale. Parlando di una coppia di genitori a cui è nata una bimba prematura, racconta:

A loro fu chiesto dal personale sanitario di procurare un “vermone”, quel tipo di rotoli molto lunghi e stretti che si mettono sotto le finestre per evitare gli spifferi. E perché? Per metterlo dentro l’incubatrice tutto intorno. Perché la creatura, così piccolina, si sarebbe spostata sempre verso il bordo dell’incubatrice, ed era meglio se trovava qualcosa di morbido contro cui impattare. Perché, gli dissero, cercherà un contatto… La trovavano sempre sul bordo, povera cucciola. Cercava qualcuno. Il limite non è una tassa. È l’altro. È la fine della solitudine.

C’è modo più dirompente e chiaro per impostare il tema del limite, così abusato e vituperato? Il limite è bello perché è la fine della solitudine, ed è la santa liberazione dal nostro delirio di onnipotenza.


TUCANO, BIRD, JUNGLE
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Nello spazio di un quarto d’ora c’è tutto

Anche sprovvisti di fondamenta spirituali, il tempo che viviamo ha precipitato tutti a fare i conti coi limiti: chiusi in casa, passeggiate di poche centinaia di metri, entrare pochi alla volta in un ambiente chiuso, e così via. E c’è chi ha notato il bello di questa vita rallentata e ridotta. Il bello, a dire il vero, ha sempre un’origine e quando lo si incontra occorrerebbe fermarsi a indagarne le ragioni; spesso e volentieri ci rinunciamo e ci limitiamo alla logica di replicare: se qualcosa mi piace, lo ripeto in mille forme e mille modi e continuerà a essere bello. Uhm, non basta prendere e spostare. Se strappo un fiore dal prato e lo metto sulla mia tavola, continuerà a essere bello ma per poco.

Noto la stessa tendenza (uno slancio positivo, ma privo di radici) in una proposta che sta catturando l’attenzione, perché ha quell’appeal ecologico-utopico che è assai attraente. Mi riferisco alla «città del quarto d’ora», espressione coniata da Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, per proporre un nuovo progetto urbanistico:

Racchiusa in un diagramma circolare che ricorda l’Uomo vitruviano di Leonardo, la “città del quarto d’ora” secondo la visione proposta è una metropoli nel cui quartiere puoi trovare tutto ciò di cui hai bisogno in 15 minuti da casa. Uno strumento per la trasformazione ecologica della città, migliorando al contempo la vita quotidiana degli abitanti e, si può aggiungere, evitando quella ressa sui sistemi di trasporto pubblico che va assolutamente evitata in tempo di epidemie. (da Touring club)

Tralascio tutto il filone di pensiero che riguarda il risvolto politico di questa proposta (sarebbe il cavallo di battaglia della Hidalgo per essere rieletta) e mi limito all’idea in sé che mi piace. Ha davvero un senso, per chi voglia fare la fatica di sondarlo e non ridursi alla logica del tutorial. Nel diagramma sopra si vede bene il succo della proposta: l’io è al centro e trova a distanza di un quarto d’ora da sé tutti i servizi indispensabili per lavorare, divertirsi, fare acquisti, curarsi. La lezione della quarantena ci ha tolto all’improvviso il benefit del «come e quando voglio»; ci ha fatto accorgere di tante presenze vicine che avevamo trascurato, ci ha insegnato che fare shopping a tre ore da casa tutto sommato non è indispensabile, ci ha mostrato che in molti casi il lavoro può assumere un volto non così alienante.

Il tempo è un’altra variabile su cui ci siamo ricreduti molto. Abbiamo mollato un po’ l’ansia da traffico e minuti che corrono, abbiamo rallentato il passo e apprezzato la noia. Bene. Tutto questo valore buono riscoperto dentro l’impatto brusco della quarantena e tutte le incognite di un futuro comunitario da riscrivere possono ridursi all’immaginazione di una città con tante biclette e sorrisi, poco inquinamento e tanta empatia umana, meno traffico e più pagnotte del fornaio sotto casa? Detto altrimenti: ci basta avere un nuovo decalogo umano da seguire come virtuosi cittadini rinsaviti? Di solito, noi siamo bravi a entusiasmarci e altrettanto bravi a dimenticarci. Senza ragioni umanamente sensate a contrastare la nostra incostanza, ricadiamo facilmente negli errori.

Ed è qui che torna utile recuperare l’esempio iniziale della bimba prematura. L’ipotesi di una vita racchiusa in uno spazio limitato e fecondo non è l’ultimo ritrovato urbanistico, ma l’ipotesi umana che nostro Padre fondò fin dal principio.

Figli che giocano nel giardino di Dio

Chesterton ci lasciò un consiglio che è sempre utile ricordare: l’uomo sbaglia quando di fronte a un problema usa dei rimedi, soprattutto a fronte di grossi guai occorre partire da un ideale. In pratica – dice GKC – è più avveduto chi davanti a un enorme incendio si mette a studiare il sistema idraulico della città, piuttosto che mettersi a riempire un secchio d’acqua e buttarlo a caso sulle fiamme. Quando le cose vanno molto male, non bastano piccole soluzioni sradicate da un’ipotesi umana complessiva in grado di essere un sostegno vitale come le radici per l’albero.

Che l’uomo sia progressivamente andato alla deriva nel suo rapporto con lo spazio e con il tempo e, soprattutto, nelle relazioni è evidente. Che questa pandemia possa essere un’occasione per potare quel delirio di onnipotenza che ha creato disastri in ambito sociale, economico e ecologico è altrettanto evidente. Ma il tutto non può ridursi a un tocco di bacchetta magica che con un puf ci trasforma in bravi piccoli hobbit amanti del loro quartiere, devoti al cibo km 0 ed entusiasti del monopattino elettrico. Soprattutto: eseguire una serie di comportamenti non ci rende, di per sé, più buoni.

Il miglioramento non è una condotta, ma accade solo se il cambiamento è parte di un disegno che ha uno scopo, inerente possibilmente una felicità autentica.

Quella bimba prematura nella sua incubatrice aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa. Siamo figli e abbiamo bisogno di appartenere. Questo è l’inizio di un ragionamento molto diverso, ed è proprio un inizio: la tanto vituperata Genesi, che secondo alcuni sarebbe solo una favoletta risibile rispetto alle teorie evoluzionistiche, è un ritratto umano fedele della nostra identità fin nei dettagli. L’idea che il tempo non sia una corsa forsennata e labirintica, ma il ritmo anche lento di un cammino con una meta è già lì: sette giorni per creare il mondo, di cui un giorno di riposo.  L’ipotesi che il quartiere, piuttosto che la grande metropoli, sia lo spazio su misura per la persona è già lì: l’uomo posto in un giardino, non in un deserto sconfinato.

Le dimensioni piccole, i limiti che aiutano la cura, li abbiamo potuti apprezzati di nuovo ora perché ci furono donati al principio da un Padre che sapeva bene come crescerci. Sono l’incubatrice della nostra anima, perché solo dentro i limiti la vista si mette a fuoco facendo un passo alla volta e la tentazione dell’onnipotenza si smorza. In quel diagramma sulla città da un quarto d’ora c’è un “io” al centro di uno spazio ridotto, e attorno a lui tutto il necessario. Ricordiamoci che non è l’ultima intuizione urbanistica, ma la prima idea di Dio per noi. E l’abbiamo già tradita.

Bellissimo se ci ricordiamo che questo ideale è umanamente più sensato perché ci permette di curare le relazioni e di essere un po’ meno monadi vaganti, ma non limitiamoci a ristrutturare la città. Prima occorre fare qualche restauro nei cuori.

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