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Il Covid-19, la Cina, Dio e noi: fare verità per ripartire

QUESTION COVID19
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 04/05/20
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“Ripartire” è la parola d’ordine della “Fase 2”, ma sarà impossibile farlo davvero senza una umile e scrupolosa revisione dell’esperienza vissuta. Tale revisione dovrà essere condotta sul piano dell’informazione, della gestione socio-politica dell’emergenza e della comprensione teleologica e teologica della pandemia come “segno dei tempi”.

Non si può dire che le direttive per la “Fase 2”, che in Italia parte oggi, siano chiarissime, ma dato il contesto globale inusitato ciò desta ben poco stupore: ci si può anzi rasserenare col constatare che (perlomeno nel Paese reale) un brivido di speranza sembra generalmente prevalere sui malumori, la voglia di fare sul disfattismo, l’energia sulla polemica.



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“Fase 2” significa certamente ripartire, e con prontezza – ché sarebbero soprattutto gli strati meno protetti della società ad accusare più pesantemente il colpo di una forte recessione –: sarebbe però impensabile “ripartire” mettendo in sordina le necessarie elaborazioni concettuali di quanto abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo. La stessa importantissima questione del culto cristiano pubblico (su cui molto si sta scrivendo – e non sempre con lucidità) ha un forte contributo da dare in tal senso, ed è questa la ragione per cui anche uno stato laico dovrebbe considerarne, tutelarne e favorirne l’apporto.


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La domanda “che cosa ci attende?” dev’essere dunque saldata all’interrogativo “che cosa ci è accaduto?”, e solo come cerniera tra queste due la questione “che cosa dobbiamo fare?” non rischia di tradursi in vuoto (e inumano) attivismo. Una cosa che senza dubbio tutti vorremmo sapere è da dove sia venuto il Coronavirus che sta flagellando il mondo:

Attribuito da un gran numero di cinesi a un complotto condotto da batteriologi americani, il Covid-19 viene anche percepito da alcuni come il risultato di macchinazioni o do un errore di manipolazione in un laboratorio di Wuhan. In seguito si è persino sparsa la voce che il virus sarebbe apparso in Italia prima di essere scoperto in Cina.

Benôit Vermander S.I., La Cina e il Covid, in La Civiltà Cattolica 4077, 269-276, 272

Questo il quadro che il noto sinologo francese ha tratteggiato per la Rivista più antica d’Italia (nel numero che introduce – e la salutiamo con gioia – la nascita della propria redazione cinese): «Nella maggior parte dei casi – prosegue il gesuita – l’importante è affermare che il virus non è “cinese”, e su questo punto la società civile e il governo sono ampiamente d’accordo» (ibid.).



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Soprassedendo all’iniziale moto di ilarità o di sdegno («Come! Ma se sono stati loro ad appestarci!») veniamo presi da un vivo senso di compassione per questa umanità veramente tutta uguale, nei difetti come nei pregî – una delle cui attività principali sembra essere l’esorcizzare la colpa, su ogni piano possibile.

Coronavirus e Cina

Essendo docente a Shanghai, il sinologo gesuita ha una postazione privilegiata per raccogliere le fila degli intricati eventi occorsi dal dicembre 2019 in qua, da una iniziale fase di negazione alla muscolare gestione dell’epidemia. Tra i primi fatti riportati c’è la nota vicenda dell’oftalmologo Li Wenliang, sulle prime ammonito e costretto a pubblica ritrattazione dal governo regionale e successivamente (dopo la morte per Covid-19) riabilitato e dichiarato “martire” dal Governo centrale: nel frattempo era intercorsa (il 31 gennaio, una settimana prima della morte) la pubblicazione da parte del medico del memoir sui problemi avuti con la polizia del Partito. Non va sempre tutto liscio, e qualche volta le crepe del sistema affiorano alla vista.


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Già prima che si trasformasse in pandemia, infatti, l’epidemia significava un banco di prova della stabilità sociopolitica cinese, nonché della governance comunista:

Il riconoscimento facciale aiuta a rintracciare e a identificare i trasgressori [del contenimento coatto, N.d.R.]; essi vengono inseriti nella lista nera legata al sistema del “credito sociale”, che ora è più o meno operativo; vengono usati droni per avvisare le persone sbadate o i refrattari a indossare una mascherina; vengono utilizzati robot muniti di sensori per avvicinarsi alle persone che potrebbero essere infette; e viene introdotto un sistema di codice QR per tenere traccia dei movimenti e per poter entrare nei luoghi pubblici.

Ibid.

La scarsa trasparenza insita nella natura totalitaria del governo comunista scoraggia la speranza di giungere mai a dati veri (senza arrivare alle origini del virus, anche “solo” riguardo al numero delle vittime…), ma gli esiti della innegabilmente efficace gestione dell’epidemia si riassumono in due punti:

  1. sul piano politico «si manifesta l’orgoglio nazionale di fronte alla vittoria riportata sull’epidemia, mentre la maggior parte degli altri Paesi, soprattutto occidentali, sembra più fragile» (ivi, 273);
  2. sul piano sociale, «una parte della popolazione rischia di uscire da questa lotta tollerando ancora meno di prima la pressione dello Stato» (ibid.).

La contesa politica è certamente con le potenze occidentali (e sullo sfondo c’è chiaramente la “nuova guerra fredda” con gli Stati Uniti), ma il governo sa di doversi tutelare, agli occhi dei cittadini, ancora prima dai confronti con Corea del Sud e Taiwan, cioè dai Paesi democratici che meglio di altri hanno gestito l’emergenza in Asia. Nemmeno l’Unione Europea può ritenersi estranea al crash test globale dato dall’impatto del Covid-19: la Rivista dei Gesuiti Italiani ha dedicato un denso articolo di Giovanni Sale (pp. 214-225) a illustrare perché solo con un “nuovo Piano Marshall” l’UE potrà recuperare e consolidare la credibilità del proprio progetto (agli occhi dei propri stessi membri e del mondo).

Infodemia globale

Anche i cittadini dell’Unione Europea, infatti, hanno sperimentato e sperimentano nella pandemia uno spaesamento non troppo dissimile da quello dei cittadini cinesi o statunitensi: a prescindere dalla targa ideologica dei governi che li guidano, tutti questi Paesi hanno dovuto fare i conti con la strana combinazione di una comunicazione ufficiale incerta, nebulosa, e una comunicazione ufficiosa (fatta soprattutto di social) frammentaria e contraddittoria. “Il Covid-19 si trasmette solo da sintomatici”, “No, è vero il contrario”; “Le mascherine servono solo ai sospetti contagiati”, “No, portatele tutti”; “È solo un’influenza, via”, “No, sembrerebbe che abbia un tasso di mortalità superiore a quello della Spagnola”; “Pare che il virus venga da certi animaletti ricercati per i loro effetti afrodisiaci”, “no, è stato prodotto artificialmente dai cinesi/americani/italiani”, “macché, è tutta una messinscena per limitare le nostre libertà individuali”. E via (s)ragionando.



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Antonio Spadaro ha ricordato come,

visto il sovraccarico di informazioni su Internet, ora stiamo affrontando ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito una “infodemia”, cioè appunto la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rende difficile limitare la | diffusione di fake news.

Antonio Spadaro S.I., Coronacheck e Fake News, in La Civiltà Cattolica 4077, 277-279, 277-278

Intervenire ad arginare questo delirante carosello di non-verità è tanto urgente quanto problematico:

Le grandi polemiche italiane sono infatti centrate sul tema del diritto all’opinione e sulla paura che un attore dall’alto possa decidere che cosa è vero e che cosa è falso. Si tratta anche di un problema educativo, perché molti non sanno che cosa sia una verifica oggettiva. Si dice che tutti hanno opinioni, e che tutte le opinioni contano allo stesso modo. Se si parla di oggettività, il rischio è quello di evocare il controllo che viola il diritto all’espressione.

Ivi, 278

Certo, proprio dall’evasività e dall’incredibile entità delle dichiarazioni cinesi (3.869 morti di Covid-19 in Cina?!) cresce non poco combustibile atto ad alimentare la sacrosanta diffidenza degli uomini liberi contro gli orwelliani “ministeri della verità”, ma l’esito paradossale di questa colossale e ubiqua incertezza sui fatti che ci circondano sta nell’aver insensibilmente spinto molti e molti uomini verso quella “dittatura del relativismo” che appena dieci anni fa credevano di combattere alacremente. Né fanno eccezione i cattolici, stavolta, i quali anzi talvolta si pongono in aprioristica e querula contraddizione per pura ostilità politica ai loro governi – e nello scontro ideologico si perdono insieme la verità dei fatti e la libertà delle persone.


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Il castigo di Dio

Se sul piano politico ciò che muove questi cattolici è la loro (in sé non illegittima) opposizione ai loro (spesso non immacolati) governi, sul piano teologico essi amano riesumare (pro domo sua) la categoria del “castigo divino”: David Neuhaus ha distinto tra loro “i profeti di sventura” e “i moralisti del te l’avevo detto”. I primi

se ne servono [di versetti biblici estrapolati dal contesto e coartati ex abrupto nel contesto del Coronavirus, N.d.R.] per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante.

David M. Neuhaus, Il virus è una punizione di Dio?, in La Civiltà Cattolica 4077, 238-243, 238

Gli altri

hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore.

Ivi, 239

Frequentando questi come quelli «sembra quasi di avvertire la soddisfa|zione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito» (ivi, 238-239). Mi pare che il biblista gesuita descriva così compiutamente quella che altrove abbiamo già chiamato “sindrome di Giona”, ossia quella predicazione profetica in cui il germe di vera Rivelazione è ancora così inviluppato nelle spire delle idiosincrasie e delle immaturità personali dei “profeti” da risultare profondamente compromesso nella comprensione ad extra, e dunque facilmente esposto all’eventualità di una vanificazione totale.


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Neuhaus prosegue prendendo in rassegna alcuni dei passi scritturistici prediletti da quanti in questi mesi hanno voluto descrivere nella pandemia un “castigo divino”: non solo contestualizzando il Sitz im-Leben del testo di 2Sam 24 (cioè indicando i riferimenti culturali e religiosi dell’agiografo), ma anche additandone la Wirkungsgeschichte nella recensione cronachistica (ossia evidenziando le varianti della rilettura prodotta e recepita già nella Scrittura, nella fattispecie in 1Cr 21), l’Autore mostra la superficialità, la fretta e l’insostenibile faciloneria di certe esegesi. Ciò gli permette di non suonare “buonista”, ma anzi enormemente più strutturato e autentico degli aspiranti profeti-di-sventura, quando ricorda la stella polare di tutta la Rivelazione giudaico-cristiana (che poi è il cuore del mandato missionario):

Quando tutto sembra oscuro, il discepolo di Gesù è chiamato a irradiare la certezza che il tempo delle tenebre è limitato, che Dio sta venendo e che la Chiesa è chiamata con la preghiera e la testimonianza a preparare questa venuta. Ciò significa che la nostra lettura della parla di Dio nella Bibbia deve tradursi in un messaggio di Buona Notizia che richiama alla conversione un mondo in crisi, non in un giudizio moralistico o in una profezia di sventura. La Parola deve essere proclamata «per edificazione, esortazione e conforto»; non ci è stata affidata per maltrattare, prevaricare o opprimere lo spirito.

Ivi, 243

Ciò non significa, naturalmente, negare che Dio non sappia nulla del Coronavirus o che l’uomo stesso ne sia estraneo: in apertura e in conclusione del suo contributo, anzi, il gesuita israeliano rimanda alla «straordinaria benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo scorso» (ibid.), nella quale il Santo Padre ha correttamente riordinato gli elementi teologici in questione. Quello che Salviano di Marsiglia chiamava “il giudizio presente” di Dio, ossia quello storico (distinto da quello escatologico), è sempre orientato alla conversione dei peccatori perché misticamente originato dalla Croce di Cristo, che del peccato del mondo è conseguenza e cura. Mi piacque al punto da fissarmisi in memoria la risposta che un giornalista laico francese, Jean-Pierre Denis, ha dato a Paul Sugy che quasi un mese fa lo intervistava per il Figaro chiedendogli se da cattolico ritenesse di poter dare «una lettura spirituale della crisi attuale»:

Come dubitarne, se si è credenti? Come pensare che il Dio che si è fatto uomo possa disinteressarsi dell’uomo? Il Deuteronomio, i salmi, i profeti, la Bibbia intera non parlano che di questo, fino agli eventi che accompagnano la morte di Gesù […]. «La Chiesa ha il dovere, in ogni momento, di scrutare i segni dei tempi, e di interpretarli alla luce dell’Evangelo», diceva ancora il Concilio Vaticano II nel 1965. Quanto era vero in un’epoca di entusiasta ottimismo non può esserlo meno in una prova come quella che attraversiamo.

Insomma, è fisiologica l’impazienza di ripartire, ma sarà impossibile ripartire veramente, cioè senza lasciare strascichi di fraintendimento, senza metterci alla scuola di una paziente e umile ricerca della verità: dei fatti, delle Scritture, dei segni dei tempi – ché in tutto questo, benché disegualmente, passa la Rivelazione di Dio –, ché a alla lunga (e neanche tanto) le incomprensioni generano contrapposizioni tra persone e persone, tra paesi e paesi, tra l’uomo e il mondo, tra il creato e Dio.



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Dire che “è stato tutto un complotto” è soprattutto un modo per scansare le responsabilità di noi che «abbiamo preteso di vivere sempre sani in un mondo malato»; dire che “è stato un castigo divino” esprime invece la speranza del profeta immaturo che si crede esente dal giudizio di Dio e che spera sadicamente di godersi uno spettacolo apocalittico dal quale si presume al riparo. E tutt’altro è ciò che intende, Dio, «quando si scatena la sua ira» (cf. Sal 75,8).

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