Come stanno sopravvivendo quelli che fanno smartworking con moglie e figli attorno? E quelli a cui è chiesto di esplorare territori sconosciuti come la didattica e la spesa? Cronaca seria e faceta di incredibili conquiste (e cadute) domestiche.In questa tranquilla mattina di venerdì la nostra vita familiare si è movimentata verso le nove con un urlaccio paterno alla figlia di 4 anni:
Insomma tutte queste briciole sul tappeto! Vieni a fare colazione a tavola! (… la regia omette una parolaccia neanche troppo brutta che il lettore collocherà a piacimento nell’esclamazione precedente).
La mia premura immediata è stata quella di capire se lui, il consorte arrabbiato, avesse pigiato il tasto mute della videochat di lavoro in corso, ma ormai questo smartworking è divenuto molto flessibile riguardo al home-mess (altrimenti detto: putiferio casalingo). E mio marito mi ha risposto:
Non ti preoccupare, i miei colleghi ormai conoscono nostra figlia. Sanno anche qual è l’orario preferito in cui fa la cacca.
Tutta questa domesticità – dice lui – ha portato anche beneficio, quello di dare al lavoro un volto più umano di prima. Eppure, ogni tanto, essere pronti a pigiare quel tasto mute resta una risorsa salvavita. Ma se invece provassimo l’azzardo di toglierla davvero l’opzione di selezionare cosa ha voce e cosa no? Se ascoltassimo senza censure cosa è accaduto tra le quattro pareti domestiche al pater familias durante la quarantena cosa verrebbe fuori?
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Le sfumature sono assolutamente varie, e mi rendo conto di trovarmi in una condizione molto privilegiata: noi – marito e moglie – abbiamo mantenuto il lavoro e possiamo svolgerlo da casa, possiamo accudire i figli e non ci siamo ammalati. Sono consapevole di tutta la gratitudine che devo esprimere non solo con la bocca ma con le opere. Se qui concedo a me e ai lettori un ritaglio di ironia, lo faccio sullo sfondo consapevole di un tremore che non mi molla. Ho amici che hanno perso il lavoro, e mantenere la famiglia sta procurando loro terribili preoccupazioni. Conosco padri che si sono ammalati e dall’ospedale pregano che la moglie non si infetti, altrimenti che ne è dei figli (se non hai nessuno a cui affidarli)? Ci sono famiglie separate che hanno vissuto la pandemia come occasione per riscrivere la storia ferita del loro affetto, e altre che hanno usato il virus come ulteriore arma per fare più male.
Quando diciamo che la famiglia è il fondamento della società stiamo dicendo che ospita, nel piccolo, il dramma complessivo del mondo. Un litigio a tavola tra fratelli è davvero il testimone attendibile di cosa siano le guerre fratricide a ogni latitudine; una mamma che fa i conti col budget mensile è la voce di un’economia intraprendente e responsabile; un padre sdraiato sul divano dopo una giornata di lavoro è … uhm … è la carezza di Dio all’obiezione della fatica (anche Lui si è riposato il settimo giorno). Se ora mi permetto di sorridere su come i nostri mariti hanno vissuto in casa la quarantena lo faccio con la tenerezza di chi tiene in mano una miniatura – piccolissima, e in grado di contenere il cuore pulsante dell’universo intero.
Come siamo messi col multitasking?
Non ho mai messo piede in ufficio da mio marito, non so com’è in quell’ambiente; quindi adesso ogni tanto lo sbircio, soprattutto durante le riunioni virtuali: è attento ma anche simpatico, interagisce in modo proficuo, è accomodante ma diretto, coglie aspetti di valore che ad altri sono invisibili. Caspita, è proprio il tipo di uomo di cui mi innamorerei, e di cui in effetti mi sono innamorata. Ma, quindi, chi è quell’alter ego che gira per casa una volta chiuso il pc? È mio marito, quello che negli ultimi 14 anni ho infastidito fino all’esaurimento nel tentativo di fargli entrare in testa che le faccende familiari necessitano per forza di una visione multitasking. Non esiste giornata in cui fare la lavatrice è solo fare la lavatrice.
Il padre in quarantena è quella creatura che grazie a una spinta imprevista è uscita dalla caverna dell’ «intanto faccio questo» al campo aperto del «cosa faccio in mezzo a questa esplosione di urgenze?». Conosciamo bene questa creatura e ne capiamo lo smarrimento. Sul diario di bordo annotiamo piccole enormi conquiste con mille punti esclamativi: oggi papà è riuscito a mandare una mail di lavoro e a inoltrare alla maestra su Whatsapp le foto dei compiti svolti (… gli avevamo anche chiesto di spegnere un fornello dopo dieci minuti, ma era oggettivamente troppo).
Ma anche la mamma in quarantena ha qualcosa da imparare da lui: il fare non è il nostro dio onnipotente. Quando ho chiesto a mio marito: «Perché in casa non sei così vigile, efficiente e proattivo come ti vedo mentre lavori per la tua azienda?» la risposta è stata un secco: «Perché finalmente in casa posso non essere efficiente». Ho ripensato a quel sabato mattina in cui io pulivo le terrazze come una matta e lui, che mi aveva promesso di sistemare certe benedette mensole in cantina, si era seduto coi figli a guardare Cars ridendo a crepapelle. Forse non era solo pigrizia; c’era l’attenuante di un recuperato buon senso. Fuori dalla porta di casa non c’è scampo se sgarri a una consegna, in casa l’efficienza lascia spazio a quella sana anarchia che antepone una risata coi figli alle mensole ordinate.
Dal papà che c’è in casa nostra ho imparato in mezzo alla pandemia questi verbi: rallentare, mollare, apprezzare.
Pronto, cara?
Gli stereotipi non esistono, questo è soprattutto evidente a chi ha della famiglia una visione tradizionale: parlare di ruoli non significa esaltare i copioni. Sono quelli che vogliono precipitare la famiglia in un calderone nebbioso che hanno bisogno di confermare il proprio caos ricordandoci che «anche un padre può cambiare un pannolino». Noi vetero entusiasti della famiglia lo sapevamo già e, meglio, lo vivevamo già. Ci sono mogli cattoliche sottomesse che hanno mariti eccellenti ai fornelli, per sintetizzare.
Perciò mi sento perfettamente autorizzata a sorridere di un luogo comune vivente che incontro spesso e adoro: il marito che non ha mai messo piede al supermercato. Prima si confondeva nella folla, con la quarantena è diventato suo malgrado visibilissimo e in diretta competizione con un altro animale feroce: la moglie campionessa di risparmio e risorse. Le corsie dei supermercati sono più sgombre e silenziose, ogni presenza risalta. Riconosci subito, dal passo svelto e dall’occhio di lince, la madre di famiglia con anni di commissioni sulle spalle: va dritta per la sua strada e sa; riuscirebbe a stanare una confezione di lievito di birra sperduta in mezzo alle bustine di vanillina.
La presenza di mariti al supermercato è aumentata con la quarantena (mia impressione?). Dal confronto con alcune amiche, noto una certa tendenza a delegare al maschio di casa quest’incombenza che non è più un’impresa caotica e facile. Il marito allo sbaraglio nell’universo della spesa lo riconosci: sta in mezzo alla corsia, come per guardare con un unico colpo d’occhio il vasto reame degli ammorbidenti e delle merendine. Quasi sempre ha un foglio in mano che guarda con preoccupazione; l’occhio passa dal foglio allo scaffale quasi disperato. La moglie avrà usato un alfabeto sconosciuto per compilare la lista? Perché non c’è un solo tipo di passata di pomodoro? Verrà decapitato se porterà a casa uno yogurt con la percentuale di grassi sbagliata?
Ed è così che la posa più frequente di questo amabile impacciato è quella di chi ascolta il telefono incastrandolo tra orecchio e spalla, con una mano tiene la lista e con l’altra rovista tra gli scaffali seguendo meticolosamente le istruzioni della moglie-voce guida. Lo so benissimo che ci sono mariti che sono cintura nera di «sconti, offerte e prodotti imperdibili», dico solo che da certi papà in quarantena ho imparato anche questi verbi: affidarsi, chiedere, sapere di non sapere.
Fai rumore siiii
Più che il vincitore di Sanremo, Diodato è stato profetico. Ci stava preparando a quello che sarebbe diventata una casa in quarantena: un rumore incessante. Niente più porte da cui uscire e poi ognuno per la sua strada, ci rivediamo a cena. E allora qui divento seria. L’unico modo per stare di fronte al bellissimo rumore della mia famiglia chiusa tra 4 mura è avere al fianco non una mia fotocopia, ma un’alternativa: un alleato così necessario proprio perché a tratti mi sembra un nemico. In certi momenti di fatica mi è indispensabile vedere il campo di battaglia dal punto di vista di mio marito, altrimenti soffocherei dentro le grida, le richieste, i suoni che si sono moltiplicati. Se non avete letto la confessione di questo papà in quarantena (Andrea Romano), fatelo; è meravigliosa.
Lui mi ha fatto pensare alla faccenda del rumore:
[…] all’improvviso sono stato risucchiato in un paradosso: ermeticamente isolato dall’esterno, completamente esposto a tutti i rumori provenienti dall’interno del mio appartamento. Senza possibilità di ovattarli, dizittirli o ignorarli. (da The Vision)
Il vero rumore è tipico delle relazioni; i pranzi di famiglia coi parenti sono una sfida all’idea astratta del volersi bene. Allora Andrea Romano usa la parola giusta: esposto. La quarantena ci ha esposti al rumore che è la famiglia, un tumulto perché ogni presenza è il centro della scena e non una comparsa.Quel rumore va sciolto in frasi sensate da capire e risposte da dare, da sola non ho gli strumenti per decifrare tutto. Avere mio marito a casa h24, stare fianco a fianco in due, ad affrontare in modo diverso ogni frammento di giornata mi sta cambiando. La voce della mia maniacale cura va ammorbidita con la voce della sua improvvisazione; la voce della mia paura che sta all’erta va abbracciata dalla sua voce pragmatica e positiva.
Sapendo ciò di cui sto scrivendo, mio marito poco fa mi ha chiesto: «Insomma, mi hai promosso o bocciato come padre in quarantena?». Lo promuovo proprio perché parliamo lingue diverse, e certe volte non capirsi ci salva dall’innesco di una guerra mondiale su scala domestica. Ma a lui dirò: «Ti promuovo se, dopo che te l’ho ripetuto dieci volte, la smetti di chiedermi dove tengo la candeggina. Ti promuovo se posso andare in bagno in pace, senza che mi raggiungano le tue grida perché ti ho lasciato solo di fronte a una pentola che bolle».
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