Se non modifichiamo atteggiamento e stile di vita, rimarremo destabilizzati, spiega il neuroscienziato e sacerdote Alberto Carrara.Un cambio epocale, ecco quello che stiamo vivendo. La pandemia del Covid-19 ha stravolto forzosamente le nostre vite, le nostre abitudini, l’economia, le relazioni sociali… Ancora non sappiamo cosa poterci aspettare e questa incertezza sembra far venire meno molti punti di riferimento della nostra esistenza.
Per capire come questa situazione di crisi si traduce sul nostro sistema nervoso, abbiamo chiesto spiegazioni al sacerdote Alberto Carrara L.C., Membro della Pontificia Accademia per la Vita, Direttore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Università Europea di Roma), nonché Cattedratico UNESCO in Bioetica e Diritti Umani.
— Si stanno creando cambiamenti nel nostro cervello?
–Prof. P. Alberto Carrara: La misteriosa scrittrice americana Emily Elisabeth Dickinson (1830-1886), nota per la sua vita insolita e vissuta prevalentemente nella casa di Amherst, dove era nata, in una sorta di quarantena, oltre alla sua nota poesia sul cervello “Il Cervello è più esteso del Cielo” ha tra i suoi componimenti uno dedicato alla tempesta. Tradotta da Eugenio Montale nel 1945, questa poesia, la numero 1593, suona così: “Con un suono di corno, Il vento arrivò, scosse l’erba; un verde brivido diaccio così sinistro passò nel caldo che sbarrammo le porte e le finestre quasi entrasse uno spettro di smeraldo: e fu certo l’elettrico segnale del Giudizio. Una bizzarra turba di ansimanti. Alberi, siepi alla deriva. E case in fuga nei fiumi È ciò che videro i vivi. Tocchi del campanile desolato Mulinavano le ultime nuove. Quanto può giungere, quanto può andarsene, in un mondo che non si muove!”.
Da mesi il silenzio, l’isolamento, il deserto delle nostre città, la solitudine dei nostri monumenti sono divenuti la nostra “tempesta” esistenziale. In una suggestiva, quanto spettrale, Piazza San Pietro vuota, lo scorso 27 marzo Papa Francesco descrisse questo momento tragico con queste parole: “fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti”.
«Il silenzio, l’isolamento, il deserto delle nostre città, la solitudine dei nostri monumenti sono divenuti la nostra “tempesta” esistenziale.»
–Tutti questi fattori, non avranno effetti sul nostro sistema nervoso?
–Prof. P. Alberto Carrara: Il Covid-19 si è globalmente diffuso come una vera e propria “tempesta” in un mondo globalizzato e tecnologizzato che si muoveva frenetico e quasi inarrestabile verso la conquista dei suoi obiettivi di crescita, produzione ed efficienza, premiando con la fama quelle “hard” e “soft skills” tipiche delle nostre industrie 4.0. Già oggi sappiamo che questo virus attacca sin dalle prime fasi di malattia i recettori per l’olfatto, cioè quelle terminazioni nervose deputate a trasmettere l’impulso e il messaggio odorifico dalla periferia dei nostri organi di senso, in particolare del naso e della bocca, sino al cervello.
Che il COVID-19 di per sé abbia effetti neurologici è una evidenza che sta emergendo con sempre più forza e che viene indagata dagli specialisti in tutto il mondo: la rivista Neurology ha indetto una Call specifica sull’argomento e su PubMed alla voce “COVID-19 nervous system” compaiono numerosi studi. A questo proposito mi preme citare la task force Neuro-Covid condotta da Matilde Leonardi, neurologa, pediatra e direttrice del Centro Coma della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano.
Ora, se da una parte il coronavirus stesso attacca il sistema nervoso e perciò stesso il cervello, dall’altro lato, numerosi fattori epigenetici stressogeni da isolamento, reclusione, paura, eccetera hanno la capacità di riplasmare in negativo la nostra funzionalità cerebrale.
Nel 1998 il premio Nobel per la Medicina Eric Richard Kandel (1929-) nel suo articolo “A New Intellectual Framework for Psychiatry” – pietra miliare per una visione unitiva della persona umana – forniva 5 grandi principi per una psichiatria biologica. Kandel metteva in relazione la stretta interrelazione dinamica tra fattori genetici ed epigenetici nella genesi della malattia mentale.
Con questi presupposti e con le evidenze neuroscientifiche odierne, possiamo affermare che la complessità della situazione di pandemia in cui ci troviamo stia già riplasmando i nostri cervelli.
«La complessità della situazione di pandemia in cui ci troviamo stia già riplasmando i nostri cervelli.»
I numerosi elementi esistenziali negativi: l’isolamento, la paura, la perdita del lavoro, i timori del rischio del contagio, per non parlare del distanziamento forzato da parenti e amici ricoverati e persino moribondi, i lutti vissuti a distanza, eccetera, tutto questo sta concorrendo a produrre alterazioni, in primo luogo, a livello di espressione genica cerebrale, che si riverberano nella modulazione negativa di diversi neurotrasmettitori (tra cui i sistemi dopaminergici, serotoninergici, e altri), sino a vere e proprie modificazioni della connettività neuronale.
Se protratte nel tempo, tali alterazioni indotte da fattori stressogeni possono persino venir riconosciute a livello di indagine attraverso EEG (elettroencefalografia) e altre neuro-tecnologie, ad esempio quali variazioni della connettività corticale. Queste evidenze costituiscono le basi per l’insorgenza di sindromi psichiatriche complesse come ad esempio il PTSD, il disturbo post-traumatico da stress.
–Le emozioni di paura e disagio esistenziale, incidono nel modo in cui affrontiamo la malattia?
–Prof. P. Alberto Carrara: Certamente il ruolo delle emozioni e i numerosi fattori di disagio esistenziale che tutti stiamo vivendo incidono sul nostro sistema nervoso e sul cervello come ho in breve descritto prima. La malattia è sempre un qualcosa che coinvolge l’intero organismo umano e che può beneficiarsi a più livelli.
Oggigiorno siamo chiamati a reinventare le nostre relazioni e a scoprire le nostre deep skills, quelle relative alla nostra capacità empatica, al saper stare con gli altri, all’ascolto, alla solidarietà, ma pure alla moralità e alla responsabilità. Queste strategie positive avranno effetti positivi sulla nostra percezione della malattia e sul suo decorso.
— Chi ha il dono della fede ha una risorsa in più di fronte a questo come ad altri momenti di grande difficoltà. A livello neurologico, ci sono evidenze scientifiche?
–Prof. P. Alberto Carrara: A questo proposito, il 9 aprile sulla rivista Neuroscience Letter è stato pubblicato un nostro studio intitolato “Neurophysiological correlates of religious coping to stress: a preliminary EEG power spectra investigation” (Vol. 728, 29 May 2020, 134956) in cui per la prima volta abbiamo messo in relazione la gestione dello stress da parte di persone religiose e la positività sulla salute fisica e mentale, indagandone i correlati neurofisiologici attraverso una particolare neuro-tecnologia che è l’elettroencefalografia.
Numerose sono le evidenze neuroscientifiche dei benefici della “religiosità”. La preghiera, sia ripetitiva come il rosario, come la meditazione e contemplazione, hanno benefici fisiologici come ad esempio la stabilizzazione della pressione sanguigna, il rilassamento del tono muscolare, l’aumento della soglia della percezione del dolore, eccetera.
«Numerose sono le evidenze neuroscientifiche dei benefici della “religiosità”. »
In effetti l’essere religiosi e il mettere in atto tutta una serie di stili di vita religiosa possono contribuire quale risorsa positiva per fronteggiare questi momenti di grande difficoltà.
–Come possiamo sfruttare le conoscenze delle neuroscienze, per migliorare la vita delle persone? Esistono delle immagini, parole… gesti con un impatto persuasivo (positivo) su cui poter fare leva?
–Prof. P. Alberto Carrara: Come ha recentemente messo in evidenza lo storico israeliano Yuval Noah Harari, da una parte, ci troviamo a vivere l’epoca migliore per poter affrontare clinicamente e tecnologicamente questa pandemia e questo grazie allo sviluppo della medicina molecolare, delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale. Sull’altro lato della medaglia la tempesta coronavirus sta smascherando le nostre vulnerabilità, lasciando scoperte quelle superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità.
Il Covid-19 non ha confini, non è soggetto a barriere, né a muri, colpisce tutti, non guarda in faccia nessuno, non considera i passaporti, il ceto sociale, il virus non legge i titoli sui nostri biglietti da visita. Ma lo stesso motivo per cui si diffonde, cioè la nostra comune appartenenza ad una stessa natura umana, ci fa riscoprire quel possibile antidoto in grado di immunizzarci per far fronte all’avversità: non siamo monadi chiuse in noi stessi, tutto è congiunto, tutti siamo intrinsecamente connessi uno all’altro nell’intreccio dell’essere per cui nessuno si potrà salvare da solo. Il coronavirus ci dovrebbe far risvegliare dalla frenesia assordante a cui eravamo abituati e che ora ci spaventa per il suo irriconoscibile silenzio. La pandemia che ci ha colpiti sottolinea come tutte le nostre esistenze siano profondamente in comunione tra loro, molteplici interazioni le concatenano, per cui oggi più che mai sentiamo sulla nostra pelle il brivido del comune legame al quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. Nessuno di noi vive da solo, continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri.
«Non siamo monadi chiuse in noi stessi, tutto è congiunto, tutti siamo intrinsecamente connessi.»
“Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti… anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme” (Papa Francesco, 27 marzo 2020).
Gli stessi meccanismi che strutturano negativamente il nostro cervello possono essere sfruttati sia per prevenire l’insorgenza di danni funzionali che poi possono tradursi in veri e propri scompensi, sia possono servire per ri-configurare in senso positivo il nostro sistema nervoso debilitato o già disequilibrato.
Attraverso una pletora di atteggiamenti e stili di vita che possiamo mettere in atto durante la quarantena possiamo essere gli attori e i protagonisti del nostro destino in un senso positivo: l’evitare di “abbuffarsi” di notizie negative, sostituendole con la lettura o l’ascolto tramite audio-libri di opere di letteratura, di poesia, l’utilizzo di sistemi interattivi via web per prendere visione di siti archeologici, gallerie d’arte, ma anche l’ascolto di musica classica, le buone conversazioni via Zoom, WhatsApp, Teams e altri mezzi, la possibilità di uscire all’aria aperta per camminare, l’abituarsi a un silenzio ricco di esperienze positive, lo sbizzarrirsi in cucina o nel giardinaggio, o in un qualsiasi hobby capace di distogliere la nostra attenzione sulla pandemia, tutto questo e molto di più, può contribuire in senso positivo a prevenire e ristabilire quegli equilibri neurochimici ed elettrici del nostro cervello.
La stessa Emily Dickinson nella sua poesia dedicata al nostro organo principe canta la sua estrema plasticità: “Il Cervello è più esteso del Cielo, Perché mettili fianco a fianco, L’uno l’altro conterrà, Con facilità e Tu accanto, Il Cervello è più profondo del mare, Perché tienili Azzurro contro Azzurro, L’uno l’altro assorbirà, Come le Spugne i Secchi assorbono, Il Cervello ha giusto il peso di Dio, Perché Soppesali Libbra per Libbra, Ed essi differiranno se differiranno, Come la Sillaba dal Suono”.
–Come convivono in lei le sue due vocazioni da neuroscienziato e prete?
–Prof. P. Alberto Carrara: Non ho mai avuto problemi di riconciliare le due dimensioni, quella scientifica e quella di fede, che hanno caratterizzato la mia vita da quando avevo 6 anni. Sono cresciuto in un ambiente al contempo empirico e religioso. Da bambino giocavo nello stabulario di mio zio presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, il “piccolo chimico” e il microscopio erano i miei svaghi sin dagli 8 anni. Al contempo, se il microcosmo mi ha sempre affascinato, ho trovato naturale attribuirne l’ordine, la struttura, le regolarità, le leggi, la meraviglia che lo caratterizza quando si studiano i processi genetici, molecolari, neuronali, ad un Qualcuno che tutto ciò non soltanto lo ha pensato, ma lo sostiene costantemente. Scienza e fede non sono due antitesi, non sono due cammini al bivio, bensì le due dimensioni di un unico percorso, i lati di una stessa medaglia. La Bibbia non è il libro per sapere come è fatto il cielo, ma per conoscere il cammino che conduce ad esso!
«Scienza e fede non sono due antitesi, non sono due cammini al bivio, bensì le due dimensioni di un unico percorso,»
Le mie due vocazioni, se di due si può parlare, non convivono, bensì vivono in armonia, una sostiene l’altra nella complessità degli eventi che vivo. La scienza ha sempre potenziato la mia fede, come la fede mi ha sempre motivato nella ricerca scientifica.
Chi desiderasse approfondire questi temi, il prossimo 23 aprile potrà assistere all conferenza “L’epidemia al tempo dell’intelligenza artificiale. Una nuova antropologia per un mondo più sicuro?”, organizzata dal Gruppo di Neurobioetica e il BrainCircleItalia e trasmessa in diretta streaming dalla pagina Facebook Neuroscienze e Neuroetica.