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Don Franco da Pavia: prima l’affanno, poi il ricovero. Vi racconto cosa ho passato per sconfiggere il covid

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 20/04/20
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“Puoi solo affidarti, le vene sono ormai tutte segnate, il braccio si è gonfiato e le lacrime scalfiscono il ruolo che ricopri nella vita, nel quale ti rappresenti inaffondabile”

Don Franco Tassone a Pavia è parroco del Ss. Salvatore, per anni raccogliendo l’eredità di don Enzo Boschetti per cui è in corso una causa di Beatificazione, ha guidato la Casa del Giovane, in prima linea contro tutte le dipendenze.

Appena prima di Pasqua è stato dimesso dall’ospedale in cui ha combattuto e, per fortuna, vinto il covid, anche se la convalescenza richiederà qualche tempo. Durante gli ultimi giorni di ricovero ha raccontato la sua esperienza in uno scritto, pubblicato da Famiglia Cristiana, 16 aprile.

“Una battaglia inaspettata e terribile”

«Mi trovo in una battaglia – scrive il sacerdote – inaspettata e terribile, a condividere il campo con coraggiosi compagni: il mio confratello che ha donato ad un giovane il suo respiratore, i sacerdoti morti per rispondere alla loro chiamata e per stare insieme al proprio popolo, gli anziani nelle case di riposo, negli ospedali, nei pronto soccorso, i medici, gli infermieri e gli oss che si sacrificano da mesi per alleviare la fatica di coloro che sono stati colpiti da una malattia che è diventata pandemia».

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Per molte persone positive al coronavirus, il ricovero in ospedale è l'inizio di un calvario.

Il cuore ferito della Lombardia

E il pensiero, prosegue Don Franco, «torna indietro al cuore ferito della Lombardia, dove le condizioni climatiche hanno visto le polveri sottili sostituire la nebbia, ai ritmi frastornanti di incontri senza più giorno né notte, alle fasulle strette di mano e ai contagi empatici che non nutrono più. E ancora si allarga allo sfruttamento sconsiderato del suolo, al terreno violato e reso produttore di gas letali e di mangime nocivo, all’acqua inquinata, alla cieca avidità che sta distruggendo i polmoni della terra, allo sfruttamento sconsiderato degli animali, all’intensificazione delle produzioni che hanno distribuito lavoro e ricchezza in modo diseguale…ora ci siamo fermati».

La diagnosi

Poi confessa: «Sono stato in debito di ossigeno davanti a una dottoressa che, con l’ inganno, promettendomi che non mi avrebbe fatto ricoverare, mi ha diagnosticato il coronavirus. Ho subito pensato a quale fratello o sorella ho visitato in un gesto fraterno trasformatosi in malattia contagiosa, a quale incontro abbia cancellato con un colpo di spugna il dubbio sull’onnipotenza e mi sono visto trascinare in un mondo di sofferenza, di sperimentazioni, di esami continui, di speranza di tornare a casa, tra gente chiusa nei respiratori con due soli buchi, uno per respirare e uno per bere».

La prima notte

Da lì il ricovero in ospedale. «Sono stato, così, nella camera dove era appena morto un mio fraterno amico, sono stato completamente rivoltato, come un calzino, nel tentativo di capire se la polmonite aveva creato altri problemi curabili solo in terapia intensiva. Ed eccomi ancora qui, dopo quindici giorni, a raccontare l’ enorme numero di persone intubate con cui ho condiviso la prima notte, la paura negli occhi stanchi dei giovani dottori, la diagnosi che diventava certezza e la ricerca del posto letto…e finalmente passata la paura della prima notte, i primi interventi sul controllo della terapia, la cura di avere sempre il supplemento respiratorio, il tampone, l’ esame del sangue, la richiesta di aderire ai più recenti protocolli sia di cortisone sia di terapie per le patologie reumatiche».

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EVG photos | Pexels CC0

Le giornate in ospedale, nei reparti covid, sono scandite dalla sola presenza degli operatori sanitari accanto ai malati.

Gesti d’amicizia e vene segnate

Don Franco ammette che in una situazione del genere «sei costretto a compiere un atto di fiducia, perché non hai nessun altro contatto sociale e sei nelle mani di chi ti solleva un attimo e ti monitora per avere da te quei risultati che tardano sempre a venire. Così passano i giorni, divori quello che ti danno da mangiare, ti commuovi dei gesti di amicizia e senti che sei, come tanti, nel segno di una provvidenza infinita. Puoi solo affidarti, le vene sono ormai tutte segnate, il braccio si è gonfiato e le lacrime scalfiscono il ruolo che ricopri nella vita, nel quale ti rappresenti inaffondabile».

La lezione da imparare

Tutta la giornata «trascorre nella preoccupazione per la tua salute, strappato da tale pensiero solo dall’umanità dei sanitari, deluso dal ritardo del momento in cui lascerai la tua camera d’ ospedale, stufo di ogni misurazione e di ogni ricerca di cause e di effetti sul tuo corpo. Poi, il primo tampone negativo, il respiro meno affannoso, il ritorno dell’appetito, la ricerca del contatto umano, l’ aiuto reciproco nella stanza, le piccole delicatezze».

«Sono ancora convalescente – chiosa Don Franco – devo la mia vita ai sanitari, non trascurerò questa lezione, imparerò a non esagerare e a non pretendere, e cercherò di far fiorire la stagione della fraternità».


JULIAN LOZANO
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