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Il ristorante è chiuso, ma la cucina è aperta per i poveri

CHEF, RESTAURANT, KITCHEN
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Annalisa Teggi - pubblicato il 09/04/20
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In ogni circostanza ciascuno può sempre decidere cosa fare del tempo che gli è dato: c’è chi ha unito in modo virtuoso la chiusura del proprio locale di ristorazione e il bisogno di chi si è ritrovato a patire la fame.

 Si comincia a vedere gente che ha fame perché non può lavorare, perché non aveva un lavoro fisso. Cominciamo a vedere già il dopo. Verrà più tardi ma comincia adesso. – Papa Francesco

Lo diceva il 28 marzo, ricordandoci che – sempre – tutto è una questione di sguardo. Ogni evento non è solo un fatto interpretabile secondo i nostri mille umori variabili o le nostre teorie politiche, sociali, culturali; ogni evento è una questione che interroga la coscienza e ci chiede qualcosa in più di un’interpretazione, ci chiede una risposta libera. Parlando ieri (al telefono) con una suora, ho preso consapevolezza insieme a lei di quanto questa prova della pandemia sia anche occasione per accorgersi, da parte della gente comune, di quanto sia bella la carità, parola che usiamo meno di «solidarietà». Non che la solidarietà sia una cosa brutta, anzi; ma la carità è il vero fuoco che accende tutti gli altri fuochi che non ruotano attorno all’egoismo.

Prima di perdermi arrivo al punto. La crisi sanitaria del Covid19 allarga e allargherà i suoi tentacoli in ogni ambito del vivere, non ultima sarà l’incognita che pesa sull’economia. Vedere quasi tutto chiuso, mi fa pensare alle famiglie che vivono il dramma di aver perso il lavoro, temporaneamente o definitivamente. Ma nessuna chiusura è tale da lasciare imprigionata la libertà umana, che è una faccenda molto più vasta del «non posso uscire di casa». Lo sguardo, allora, è decisivo perché – come diceva Gandalf (il saggio mago e guida spirituale della saga di Tolkien, Ndr) – in ogni circostanza ciascuno può sempre decidere cosa fare del tempo che gli è dato.

Il settore della ristorazione ci offre uno scorcio per mostrare come situazioni opposte possano incontrarsi grazie a una coscienza viva e all’opera. Non è detto che due mancanze si sommino in una mancanza gigante, possono generare una piccola e nuova pienezza, non immaginabile a priori.

Un dono take away

Tutti i ristoranti, bar et similia sono chiusi. Sul versante opposto, ma non così distante, c’è il problema messo in evidenza dal Papa: la drammatica crescita del problema della fame e della povertà. Da due ferite aperte può nascere un’idea positiva? Ebbene, può nascerne più d’una.

Fin da subito alcuni locali pubblici si sono organizzati per offrire la consegna a domicilio, spostando il servizio a casa del cliente: ad esempio, il mio bar di fiducia può recapitarmi a casa la colazione, e ogni tanto me lo concedo – per allietare le giornate che a volte si fanno pesanti e per sostenere un’attività a cui sono legata. Che il rispetto della legge sulla quarantena si confronti con la creatività imprenditoriale virtuosa è cosa buona e giusta; e quindi ben venga che ci sia chi si adopera, grazie al take away o alla consegna a domicilio, per non far morire la propria impresa.

Ma uno sguardo ancora più ammirato va a chi, pur in difficoltà in prima persona, escogita ipotesi per aiutare chi è ancora più in difficoltà. Si potrebbe sintetizzare il tutto dicendo che alcuni ristoranti chiusi oggi stanno sfamando i poveri. Scorrendo le notizie, si trovano sparse in tutta la nostra penisola iniziative spontanee di gruppi, o di imprenditori, o di privati che hanno trasformato gli ostacoli della situazione attuale in un’occasione di carità. Sono certa che non offrirò un quadro complessivo di queste piccole bontà all’opera; sono grata di sapere che a livello microscopico ci saranno tante altre realtà solidali il cui eco non arriva al mondo dell’informazione. Non è importante, in fondo; l’importante è la presenza nella realtà.

Ho raccolto solo tre esempi che parlano di quante sfumature possa avere l’intraprendenza umana a servizio del bene e che sono distribuiti in tre diversi luoghi geografici dell’Italia. Questo breve viaggio comincia da Cagliari e ha come fulcro il tema dello spreco, che è sempre stato un vulnus serio del nostro stile di vita, ma ora è proprio moralmente intollerabile.

Carni, formaggi e latte, ma anche verdura, uova, frutta e gelato. Cibi destinati a finire sui tavoli di ristoranti e pub di Cagliari, prima che entrasse in vigore l’obbligo di chiudere gli esercizi commerciali fino al 25 marzo. Chili di alimenti deperibili che rischiavano di finire nella spazzatura: per questo ristoratori, titolari di bar, gelaterie e pub del capoluogo hanno deciso di regalarli alla comunità. (da L’Unione Sarda)

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Luis Jou García-cc

Il decreto sulla quarantena non ha magicamente fatto sparire le scorte e quindi c’è chi ha pensato che tutti quei generi alimentari custoditi in frigoriferi e magazzini non andassero a male o venissero buttati. Nel caso di Cagliari, questi beni sono stati distribuiti alla popolazione con particolare attenzione alle mense dei poveri e alle famiglie indigenti. Da notare, a margine, che la buona volontà dei cittadini si è fatta carico di portare  questi viveri a domicilio a chi non poteva spostarsi. Sento, leggero, il sussurro dei lamentosi, solerti nel puntualizzare che, come sempre, ci saranno stati i furbetti e gli egoisti di turno. Certo. Il punto è sempre quello di partenza: lo sguardo libero dell’uomo può percorrere la via della virtù o del vizio. Però non usiamo la scusa dei furbetti per non sentirci interpellati in prima persona a buttare l’occhio fuori dal recinto del nostro tornaconto!

La cucina non chiude

Dalla Sardegna ci spostiamo in Sicilia. A Villabate, comune in provincia di Palermo, il ristoratore Alessandro Cimino ha chiuso al pubblico la sua trattoria «Cento46»; ma ha tenuto aperta la cucina.

Centinaia di pasti pronti, escono ogni giorno dal ferro di cavallo, destinati alle famiglie di Villabate, messe in difficoltà dalla crisi sanitaria, ma anche ai senzatetto di Palermo e dei dintorni. Dopo un post pubblicato sui social e grazie soprattutto al passaparola, intorno al ristorante di Alessandro si è subito innescata una catena di solidarietà. La materia prima arriva dal semplice cittadino che va a fare la spesa e lascia qualche cosa nei carrelli solidali dove hanno aderito tutti i supermercati del Paese. Qualche offerta viene da fuori paese, commercianti. Oggi insieme con patate, pane, pollo, carciofi, arrivano in dono anche legumi e delle splendide ricciole.  (da Antimafia)

È evidente in questo esempio come la qualità migliore della carità sia quella di accendere gli altri; la scintilla di uno innesca gli altri. Forse qualche mese fa avrei scritto che la carità è contagiosa, ora mi rendo conto che l’umano è e deve essere opposto a un virus. La malattia passa da uno all’altro senza l’implicazione di una volontà, mentre il bene si propaga solo a forza di piccoli «sì» consapevoli. Il bene non è affatto contagioso, è stimolante e coinvolgente. E mi auguro che questo piccolo ristoratore, che ora non vede profitti per questa sua opera, trovi – proprio dentro l’esperienza della gratuità di oggi – un’intuizione per ripartire nel tempo che verrà.


HOMELESS, SLEEPING, BENCH
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Facendo un grande balzo al Nord, eccoci infine a Varese dove un benefattore anonimo ha dato vita a un’altra realtà sorprendente. Anche in questo caso al centro della scena c’è un ristorante chiuso che ha lasciato aperta la cucina. Ma l’input a continuare in forma diversa l’attività è arrivata da un imprenditore con buona disponibilità economica che si è offerto di dare materie prime e di pagare le utenze all’esercizio:

Lavoro a pieno ritmo, clienti contenti e pizzeria ben avviata. Poi arriva il coronavirus e tutto si ferma. Fino al giorno in cui il telefono squilla e dalla cornetta esce una proposta: «Ho un’idea, perché non riaprite e fate da mangiare per chi ha bisogno? Pago tutto io». (da Corriere)

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Public Domain
http://pixabay.com/en/kitchen-eat-food-cook-cooking-pan-515388/

Come da copione, il fuoco di uno scalda altri. Il ristorante in questione, infatti, non era attrezzato per le consegne a domicilio:

Ed è qui che subentra un altro anello della catena di beneficenza, cioè la rete di volontari dell’associazione «Amici di Gulliver» che già durante l’anno collaborano col Banco Alimentare per «Siticibo», progetto di recupero quotidiano delle eccedenze alimentari in mense aziendali e scolastiche altrimenti destinate allo scarto. «Cento46» ci garantisce i pasti, noi mettiamo i volontari e i mezzi per il trasporto», racconta Mary, storica operatrice dell’associazione. (Ibid)

I pasti preparati vengono consegnati a una mensa per i poveri e a due residenze psichiatriche.

Ripeto, ho raccontato tre episodi che non esauriscono un quadro molto più ampio, ma ne danno un’impressione significativa. Lascio ad altre testate il commento generico sulla bontà che risorge in tempi drammatici, sull’altruismo riscoperto in quarantena. Nessun albero cresce senza radici, ogni cosa ha un’origine. Qui posso scrivere senza gli eufemismi di un umanesimo astratto da dove nasce, anche inconsapevolmente, la buona volontà di chi offre un bene gratuito per chi ha bisogno: siamo tutti figli di quel Dio che prima di patire sulla Croce mangiò insieme ai suoi amici.

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