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Non sei chiuso in casa, ti stai allenando a sconfiggere il demone dell’accidia

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Una penna spuntata - pubblicato il 09/04/20
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L’opposto dell’indolenza non è l’attivismo ma la perseveranza, la consapevolezza del fatto che, in fondo, tutto ciò che accade ha un ruolo nel progetto di Dio. «Stare» era il compito che richiedeva più forza spirituale ai monaci del deserto.Quando ho visto che Amazon aveva messo in offerta la versione ebook The Noonday Devil. Acedia, the Unnamed Evil of Our Times, mi è venuto da sorridere. Il tempismo è eccezionale: quale momento migliore di una quarantena per offrire catechesi sul peccato di accidia? E così, ho rapidamente scaricato il bel libro scritto da Jean-Charles Nault, abate dell’abbazia benedettina di Saint Wandrille de Fontenelle.

È un librone che puntavo da tempo, e che non ho ancora finito di leggere.
Per quanto posso capire dai primi capitoli, è profondo convincimento dell’autore che l’accidia – un peccato quasi dimenticato ai nostri giorni – sia molto più attuale di quanto ci piacerebbe credere. Come scrive il cardinal Ouellet, che firma l’Introduzione,

la duplice lettura, spirituale e psicologica, offerta da chi per primo studiò questo fenomeno (cioè i Padri del Deserto ed Evagrio Pontico in particolare) ha molto da insegnare ai nostri contemporanei – uomini che potranno aver perso la familiarità con il termine “accidia” ma senza dubbio continuano a sperimentarne la terribile sintomatologia.
L’accidia – il peccato monastico per eccellenza – non può certamente essere considerata un relitto di passate ere. E, se al contrario, fosse proprio lei l’oscuro demone di questi nostri tempi?

Molto onestamente: non conosco molto bene i Padri del Deserto. Non ho mai approfondito i loro scritti, né tantomeno posso dire di conoscere a fondo quelli di Evagrio Pontico (345 – 399). Per scrivere questo articolo, mi affido abbastanza ciecamente alle parole di Jean-Charles Nault, ripercorrendo passo passo le sue pagine.

Orbene: secondo l’autore, per comprendere il pensiero di Evagrio è indispensabile conoscere la teoria dei logismoi, i cattivi pensieri che inducono in tentazione e portano al peccato.
Negli scritti di Evagrio, questi cattivi pensieri sono in un certo senso personificati, direttamente identificati con i demoni che li causano. Dunque, avremo il “demone della gola”, il “demone della lussuria” e così via dicendo, per un totale di otto demoni descritti da Evagrio in un’opera che si intitola (appunto) Gli otto spiriti malvagi.


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Perché proprio otto? Nault mi informa che la tradizione nasce, probabilmente, da un passo biblico – per la precisione, l’apertura del capitolo 7 del Deuteronomio. Lì, vengono elencate tutte le nazioni che Israele dovrà combattere prima di poter raggiungere la Terra Promessa: in tutto sono sette, alle quali andrà logicamente aggiunto l’Egitto con la sua ultima, dura schiavitù. Quindi: in tutto, otto nemici da combattere prima di raggiungere la terra promessa. Traslando: otto nemici che il cristiano dovrà combattere prima di raggiungere la salvezza.

Benissimo: nella sua opera, Evagrio analizza questi otto nemici. Alcuni colpiscono sfruttando le passioni del corpo, altri colpiscono là dove ad essere incontrollate sono le passioni delle mente. Solo uno – l’accidia, appunto – colpisce contemporaneamente nel corpo e nella mente. Secondo Evagrio, è proprio questa sua capacità di combattere su due fronti contemporaneamente a rendere particolarmente insidioso il demone dell’accidia. Evagrio lo definisce un “pensiero complesso”, nel panorama dei pensieri malvagi. E Nault, l’autore del saggio, osserva che, in 2000 anni di Storia, mai nessuno è riuscito a fornire una traduzione del termine accidia capace di rendere in modo efficace tutte le sfumature che le venivano date un tempo.

Ma quali sono queste sfumature?
Come si manifesta l’accidia?
E, soprattutto: se la riconosciamo in noi, come possiamo combatterla?

Cinque sono primariamente le sue manifestazioni, a detta di Nault.
Cinque sono anche le strategie che possono essere adottate per combatterla.

Come si manifesta?

Una certa instabilità interiore

Partiamo dal presupposto che, per un monaco del deserto, era molto importante starsene dov’era. “#IoRestoACasa” (anzi: #IoRestoInCella) era, per un monaco, un preciso dovere. Era il carisma che contraddistingueva quella scelta di vita; era la vocazione del monaco.

Ebbene: la manifestazione più frequente del demone dell’accidia ha luogo nel momento in cui il monaco è preso dalla smania di muoversi, di cambiare scenario, di lasciare la sua cella.
Non necessariamente per la vita, eh. Magari, anche solo per un pomeriggio. Giusto il tempo di andare in città, sgranchirsi le gambe, prendere aria, veder qualche faccia nuova per scambiare due parole.

Pur di ottenere il risultato che si propone, il monaco accidioso è talvolta pronto a offrirsi volontario per compiere atti di straordinaria carità, che magari possono anche farlo sembrare “quello più santo di tutti”. Come scrive Evagrio,

la persona colpita da accidia cerca nobili pretesti (come ad esempio visitare gli ammalati), ma la verità è che li sfrutta per raggiungere il suo scopo. Il monaco accidioso è molto ben disposto a svolgere questi compiti, ma finisce col considerare precetto la sua personale gratificazione.

Non c’è nulla di male nel gratificarsi visitando gli ammalati, evidentemente, sennonché non è quella la primaria vocazione di un monaco del deserto. Il demone dell’accidia è particolarmente insidioso perché – per citare nuovamente Evagrio – ti mette in testa

la necessità di cambiare il tuo luogo e il tuo stile di vita. Fa sì che le vite degli altri ti sembrino la vera strada per la salvezza e ti persuade del fatto che, se non ti allontanerai da dove sei, allora sarai perduto.

Evagrio è duro nel dipingere la persona colpita da accidia come un fuggitivo che abbandona il campo di battaglia (spirituale) cui è stato assegnato, per cercarsene uno a lui più congeniale.
Insomma: un disertore.

Una preoccupazione eccessiva per il futuro

Bisogna pur ammetterlo: la vita di un monaco del deserto poteva effettivamente essere molto austera. Fin troppo, direbbe qualcuno. Sicché, non stupisce venire a sapere da Evagrio che i monaci subivano spesso la tentazione di preoccuparsi in modo eccessivo per la propria salute e – in generale – per il futuro, angosciandosi di fronte alla prospettiva di

una vecchiaia prolungata, una insostenibile povertà e una malattia capace di uccidere il corpo.

In questo senso, l’accidia si accompagnava frequentemente al peccato di gola, inducendo il monaco ad arrovellarsi sulle possibile conseguenze nefaste della sua vita di sacrifici. Qualche tempo dopo, san Giovanni Climaco avrebbe descritto con una certa ironia il dramma interiore di un monaco che, tormentato dall’accidia, cadeva in balia di mal di testa e brividi attorno al mezzogiorno, iniziava blandamente a migliorare verso le tre del pomeriggio e – miracolosamente sanato – balzava giù dal letto giusto in tempo per correre alla mensa all’ora di cena.

Una preoccupazione eccessiva per il futuro

Va anche detto che il lavoro manuale dei padri del deserto non era particolarmente appagante. Nella maggior parte dei casi, ‘sti poveri cristiani si mantenevano intrecciando cesti di vimini che poi cercavano di vendere alla gente. Nault cita anche casi in cui – se nessuno aveva bisogno di comprare i cesti – i monaci li disfacevano per ricominciare a intrecciarli da capo subito dopo, tipo Penelope. Tutto, pur di tener le mani occupate in un lavoro ripetitivo che non ostacolasse la preghiera.

San Giovanni Cassiano si soffermerà molto a lungo sulla manifestazione dell’accidia sottoforma di odio per i lavori manuali. È probabilmente “colpa” sua se, col passar del tempo, l’accidia ha cominciato ad essere considerata pigrizia in sé e per sé, svogliatezza, fannulloneria. Evagrio, invece, era più sottile nel definirla la tentazione in cui cade chi

odia il lavoro manuale della sua professione e ambisce a impararne un’altra, che lo nutra meglio e sia meno faticosa.

Non necessariamente l’accidia è fannulloneria: talvolta, può anche essere l’entusiastico attivismo di chi decide di mollare tutto e reinventarsi. Ma sempre a causa di un disagio di fondo: una insoddisfazione irrisolta nei confronti dello status quo.

Incapacità di rispettare le regole

Evidentemente, le regole monastiche, soprattutto quelle che richiamavano alla preghiera.
Da un lato, il demone dell’accidia può attaccare il monaco inducendolo a fare il meno possibile:

lo distoglie dalla lettura e dallo studio delle parole spirituali, affermando: «Guarda quel vegliardo santo, conosceva soltanto dodici salmi eppure piaceva a Dio».

Ma una tentazione uguale e opposta è quella in cui cade il monaco che, di colpo, decide di strafare e pretende di

rivaleggiare col Battista o con Antonio, il primo degli anacoreti. Incapace di sopportare nel lungo periodo il loro lo stile di vita e le loro privazioni, egli finisce col provare vergogna di se stesso e abbandona la sua cella.

Uno scoraggiamento generalizzato

Se non riesce a convincere il monaco ad abbandonare la sua cella, il demone dell’accidia tenterà di indurre in lui uno stato di scoraggiamento generalizzato che, nel lungo periodo, potrebbe persino indurre il religioso a mettere in dubbio la sua vocazione. Secondo Evagrio, delle due, l’una: se un monaco è assalito dall’accidia, e non riesce a sconfiggerla, o finirà con l’allontanarsi fisicamente dalla comunità, o cercherà di non allontanarsi ma, per contro, sarà vittima di una regressione nel suo cammino spirituale, tornando a uno stato infantil-adolescenziale.

Insomma: l’Accidia è un demone pericoloso.

Come combatterla?

Evagrio suggerisce cinque armi di cui dotarsi.

1Le lacrime

Nella spiritualità dei padri del deserto, le lacrime hanno un importantissimo significato: riuscire a piangere vuol dire riuscire a riconoscere il bisogno di essere salvati.
In fin dei conti, perché un bambino piange? Generalmente, piange quando è scoraggiato, o quando gli occorre un aiuto per soddisfare un suo bisogno; oppure, quando avverte la necessità di sentirsi amato.
Sotto sotto, la stessa cosa vale anche per gli adulti. E dunque, colui al quale è stata concessa la grazia delle lacrime è un adulto in grado di ammettere la sua piccolezza, la sua miseria, il suo bisogno di Dio.

2Il lavoro e la preghiera

Secondo Evagrio, le migliori cure per l’accidia sono “la pazienza, il timor di Dio e il dedicarsi con assiduità alle proprie occupazioni”. Il monaco suggerisce di pregare frequentemente e di stabilire “una giusta misura” in ogni attività quotidiana che si dovrà svolgere, badando bene a non cadere né nella trappola della pigrizia né in quella dello stacanovismo. “Non desistere dalla tua attività prima di averla conclusa e prega assennatamente e con forza”, raccomanda Evagrio, “e il demone dell’accidia fuggirà da te”.


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3Il metodo antirretico

Nonostante il parolone, il concetto di fondo è semplice: il termine deriva dal greco antirrhesis, “contraddizione”.
In sostanza, il metodo antirretico suggerisce di combattere la tentazione esattamente allo stesso modo con cui la vinse Gesù nel deserto, utilizzando i versetti delle Scritture per ribattere alle parole del diavolo. Nel suo Antirretico, recentemente pubblicato da Fede e Cutura, Evagrio fornisce una vera e propria raccolta di versetti biblici selezionati per contrastare le varie tentazioni. Ai versetti per contrastare l’accidia è dedicato un intero capitolo.
Jean-Charles Nault, l’autore del mio saggio, ci informa che fu probabilmente il metodo antirretico a generare, col passar del tempo, la preghiera del cuore: una invocazione “prezzemolina” che ingloba in un’unica frase tre potenti affermazioni da opporre a qualsiasi tentazione. E cioè: l’ammissione dei propri peccati e del proprio bisogno di essere salvati, unite a una supplica verso Dio misericordioso (ovvero “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”, Ndr)

4La meditazione sulla morte

Rimedio non molto utile per la depressione, ma decisamente valido per contrastare tutti quei peccati, come l’accidia, che – secondo Evagrio – nascono dalla philautia, cioè l’eccessivo amore per se stessi.
Meditare sulla morte vuol dire meditare sul fine ultimo della vita. Vuol dire riflettere sulle ragioni che hanno portato i monaci a ritirarsi nel deserto e a scegliere, tra i mille, proprio quel cammino di santità.

5La perseveranza

Una perseveranza che, per i monaci, si concretizza nel rimanere fisicamente nella propria cella, nonostante la fatica, poiché – spiega Evagrio – la stabilità fisica aiuta a rendere salda la stabilità del cuore.
Consapevole di non star parlando a una platea di monaci del deserto, Jean-Charles Nault ampia il concetto osservando che “talvolta la perseveranza può consistere nel rimanere fermi senza fare niente o, al contrario, nel continuare a svolgere compiti di cui mai si sarebbe pensato di doversi fare carico”.
La perseveranza, insomma, è la consapevolezza del fatto che, in fondo in fondo, tutto ciò che accade ha un ruolo nel progetto di Dio. Le lacrime ci portano beneficio perché vengono versate alla presenza del Signore; il lavoro manuale ci innalza se è strettamente collegato alla preghiera; la battaglia contro i pensieri malvagi può essere vinta grazie alla parola di Dio; la morte non è solamente la fine della vita, ma è anche il momento del nostro incontro con Dio. La perseveranza, infine, non è stoicismo fine a se stesso, ma è pazientare là dove si è, attendendo che tutto si compia secondo i tempi di Dio.

La pazienza è un concetto che viene sottolineato fortemente negli scritti dei padri del deserto. Si ha talvolta l’impressione che le altre virtù siano “poca cosa” se paragonate a quella che più di tutte conta: la pazienza. La perseveranza.

Come cita un detto dei padri del deserto che viene citato da Jean-Charles Nault: se proprio hai fame, mangia. Se proprio hai sonno, dormi. Ma non lasciare per alcun motivo la tua cella: ricordati che è lo stare nella cella ciò che tiene il monaco sulla giusta strada.

 

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DAL BLOG UNA PENNA SPUNTATA

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