Ai discepoli di Emmaus ardeva il cuore nell’ascoltare Gesù e quell’ardore dev’essere continuamente nutrito nella nostra vita perché il Vangelo continui a essere una compagnia e non una teoria.
Di Emmanuele Silanos
Lavora al carcere minorile di Casal del Marmo, don Nicolò, e i suoi racconti sono sempre ricchi di nomi, quelli dei ragazzi che vi sono rinchiusi e delle loro vite che, appena iniziate, sembrano già sprecate, senza futuro né speranza. Eppure, ad ogni nuovo incontro, emerge una possibilità di dialogo con la parte più profonda di loro, si fa strada il bisogno, la domanda disperata di essere guardati, salvati. Una volta, don Nicolò ci ha detto:
L’incontro con i ragazzi è un’avventura straordinaria perché ha dato corpo, carne e sangue alle pagine della Scrittura e dei Vangeli. Le parole della Bibbia hanno acquisito una profondità che prima non avrei mai immaginato. È come avere la Scrittura squadernata davanti ai miei occhi.
Penso ai miei anni di missione a Taiwan, dove i cristiani, tra cattolici e protestanti, non raggiungono il quattro per cento della popolazione e spesso finiscono per litigare tra loro. Una delle frasi più ripetute era che i protestanti conoscono molto meglio la Bibbia di noi. E, a prima vista, non hanno tutti i torti… Ma cosa vuole dire conoscere di più la Scrittura? E in che modo dobbiamo aiutarci a leggerla e a studiarla?
Ritorniamo al momento in cui due uomini stanno camminando da Gerusalemme verso un paese chiamato Emmaus. Sono delusi da come sono andate le cose: le loro speranze erano state ingenuamente riposte nell’ennesimo sedicente Messia, che loro avevano amato, di cui avevano ammirato i prodigi, la saggezza, la profonda bontà. E quando Gesù in persona si avvicina e domanda loro la ragione di quella delusione, lo apostrofano con sarcasmo, accusandolo di essere “fuori dal mondo” e di non conoscere i fatti che erano da poco accaduti nella grande città. È a questo punto che Gesù, con pazienza, ricorda loro le Scritture e spiega il legame che c’è tra quelle e ciò che è avvenuto. E riascoltare da Lui quelle parole che avevano sentito tante volte, fa loro ardere il cuore: finalmente le capiscono, ne colgono il senso profondo, il nesso con la vita. Fino al momento in cui Cristo si rivela ai loro occhi, nell’Eucaristia.
Diceva san Girolamo che «l’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo»: se non si conoscono e non si amano i Vangeli, le lettere degli apostoli, ma anche i libri che li precedono e che ne sono la preparazione, non si potrà conoscere Cristo se non in modo superficiale. Ma è vero anche l’inverso: se non si fa esperienza della presenza di Cristo che si rende compagnia quotidiana nella nostra vita, è impossibile capire le Scritture.
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È questa la grandezza del cammino che ci propone la Chiesa cattolica: senza la presenza di Cristo sperimentabile dentro la comunione dei credenti e la concretezza dei sacramenti, non è possibile conoscere il senso profondo dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ma senza conoscere ciò che è accaduto ai primi che hanno incontrato Gesù e la storia del popolo di cui facevano parte, la nostra stessa esperienza perde di profondità e attrattiva. Perché la Parola si è fatta carne, non è rimasta puro flatus vocis.
In questo consiste anche il metodo che ci ha insegnato don Giussani: paragonare ciò che ci accade con l’evento originario descritto nei Vangeli e leggere la Scrittura partendo dalla nostra esperienza. Che è ciò che permette a don Nicolò di vedere, attraverso i suoi ragazzi del carcere, “la Scrittura squadernata davanti ai suoi occhi”. La Bibbia diventa, così, una cosa viva, come diceva Charles Péguy quando descriveva, in modo mirabile e commovente, il nostro compito di cristiani:
Gesù Cristo, bambina, non ci ha dato delle conserve di parole, da conservare. Ci ha dato delle parole vive, da nutrire. (…) Gesù Cristo ha preso, è stato costretto a prendere corpo, a rivestire la carne per pronunciare queste parole carnali e per farle intendere, per poterle pronunciare. Così noi, ugualmente noi, a imitazione di Gesù, così noi, che siamo carne, dobbiamo approfittarne, approfittare del fatto che siamo carnali per conservarle, per scaldarle, per nutrirle in noi vive e carnali.
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