Quando è risultato positivo al coronavirus, Joseph Bostain non aveva un percorso facile davanti, perché già messo a dura prova da una malattia genetica che aggredisce proprio i polmoni. Dopo settimane di lotta e preghiera insieme alla famiglia, è guarito. Questa è una storia di speranza che viene da Clarksville, in Tennessee. Ed è anche la storia di una famiglia numerosa che ha vissuto la malattia del figlio più piccolo con la compagnia inossidabile della fede. Il protagonista è lui, Joseph Bostain di appena 6 anni e soprannominato Ninja dalla madre Sabrina. La prendiamo in parola.
L’impatto del Covid 19 sugli Stati Uniti è tragico e in crescita esponenziale, di questi ultimi giorni l’ipotesi che alcuni parchi di Manhattan possano diventare cimiteri temporanei. L’identikit di questo virus è lontano dall’essere chiaro, si registrano molte incognite fatali e imprevedibili nel decorso della malattia eppure anche sorprese positive: ci sono giovani che muoiono senza patologie pregresse e centenari pieni di acciacchi che guariscono. Fin da subito si è saputo che, in linea generale, i bambini sono preservati da una manifestazione in forma grave del virus, ma un bimbo inglese di 5 anni è il paziente europeo più piccolo nella lunga lista dei decessi. Nessuno è preservato, lo abbiamo capito, e c’è chi è più esposto.
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Curare e pregare
La famiglia americana dei Bostain si è imposta l’isolamento sociale molto presto e ha avuto perfettamente chiara la necessità della quarantena, proprio perché il figlio Joseph è affetto da fibrosi cistica. Qualunque patologia accresce la possibilità che il contagio da Covid 19 diventi un pericolo serio, ma la malattia di Joseph ha proprio nei polmoni un punto di forte vulnerabilità. Anche una semplice nota informativa sulla fibrosi cistica ci chiarisce il quadro:
[…] è una malattia genetica che colpisce le ghiandole esocrine, come quelle che producono muco e sudore. A pagare le conseguenze del loro malfunzionamento sono i polmoni, il pancreas, il fegato, l’intestino, i seni paranasali e l’apparato riproduttivo. Chi soffre di fibrosi cistica produce un muco denso e appiccicoso che, anziché umidificare la superficie con cui è a contatto, si deposita bloccando prime fra tutte le vie respiratorie. Qualsiasi dotto, inclusi quelli che permettono ai succhi pancreatici di arrivare nell’intestino tenue per partecipare alla digestione, viene ostruito. Ne conseguono problemi di assorbimento e aumento del rischio di infezioni batteriche che portano a malnutrizione, gravi danni ai polmoni, problemi intestinali e dolori addominali. (da Humanitas)
Con un apparato respiratorio già compromesso e un corpo debilitato, l’eventualità di essere contagiato dal coronavirus diventa gravemente allarmante. È accaduto, il 19 marzo per la precisione, e dunque nella festa di San Giuseppe; mi affretto perciò a ipotizzare che il volto paterno del cielo si sia mosso con premura speciale. Sabrina Bostain, mamma di Joseph e di altri 4 figli, ha tenuto un diario della malattia sulla sua pagina Facebook che comincia nel giorno in cui l’ospedale le ha confermato che il suo figlio più piccolo e fragile era positivo al Covid19. L’epilogo benedettamente positivo arriverà due settimane dopo, il 1 aprile.
Partendo dal quel 19 marzo foriero di una notizia pesante, comincia il percorso di stretto isolamento domestico dei Bostain, una via dolorosa. Le tappe di questo viaggio tra quattro mura sono scandite da due azioni prevalenti: curare e pregare. Il messaggio di mamma Sabrina è chiarissimo fin da subito:
Abbiamo eccellenti supporti medici e, cosa più importante, abbiamo un Dio potente! (da Sabrina Bostain – Facebook)
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Chiede a tutti di pregare per Joseph e racconta una routine quotidiana imperniata sull’essenziale; la febbre è registrata come l’elemento più variabile: va e viene, scompare per un giorno poi ritorna alta. La tosse e la difficoltà respiratoria sono invece costanti serie, soprattutto di notte Joseph tossisce ininterrottamente e spesso si addormenta sfinito al mattino.
Però è proprio lui il 21 marzo a mostrarsi in video per una preghiera che recita con un filo di voce, è evidentemente provato. Poche parole essenziali:
Grazie di avermi donato il tempo di stare con mamma e papà, fa che il virus se ne vada. Aiuta tutti quelli che sono ammalati.
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La gratitudine al primo posto, questa è una grande lezione. Ma anche l’accenno agli altri ammalati ha un significato particolare nel contesto statunitense dove il sistema sanitario si trova ad un vero turning point etico e morale: il criterio del censo e delle assicurazioni private rivela tutto il suo lato più meschino a fronte della pandemia. Joseph ha avuto l’opportunità di combattere la sua battaglia con tutto il supporto medico necessario, ma c’è chi se ne ritrova escluso per ragioni puramente legate al reddito.
Accanto alle preghiera insistente della mamma, dei parenti e degli amici ci si inventa anche qualcosa di chiassosamente terreno. Alcuni conoscenti e genitori dei compagni di classe di Joseph organizzano una sfilata di auto davanti alla casa dei Bostain, suonando il clacson; lui si entusiasma guardando dalla finestra. Poi il 23 marzo febbre e tosse tornano a preoccupare seriamente. Il quadro clinico migliora qualche giorno dopo e questa volta in modo stabile. L’umore di Joseph è sempre rimasto positivo; la voglia di leggere, mangiare e giocare cresce.
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Respirare e ringraziare
Il 28 marzo è il giorno in cui si può dire che la febbre sia davvero scomparsa e l’indomani Joseph può mettere il naso fuori in giardino. La sorella maggiore Maddie, nel vedere il piccolo sotto il sole, esplode in una lunghissima lista di grazie:
Grata per la forza incommensurabile nel suo piccolo corpo.
Grata che la sua febbre se ne sia andata.
Grata che la brutta tosse sia quasi sparita.
Grata che i nostri vicini stiano a distanza di sicurezza.
Grata per l’affetto e il sostegno della nostra comunità.
Grata per i medici che vediamo.
Grata che abbiano detto che andava bene uscire.
Grata per il cambiamento di scenario.
Grata che ci sia la brezza e una sbirciatina del sole.
Grata, oh sono così grata.
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Chesterton diceva che il giorno peggiore di un ateo è quello in cui si trova a dover ringraziare e non sa a chi rivolgersi. La gratitudine è un segno cristiano forte, quasi un tratto genetico e non solo un superficiale venticello emotivo. Conosco della famiglia Bostain solo per quello che si può evincere dal profilo social, ma una sincera appartenenza cristiana mi pare indubitabile, con tutte le tipiche caratteristiche americane. In una foto si legge: «Sto in piedi davanti alla bandiera, ma mi inginocchio davanti alla Croce». Più volte, nel fare la cronaca della malattia del figlio, Sabrina Bostain ha condiviso meditazioni sul valore della preghiera nel momento della prova, segno che il viaggio cominciato il 19 marzo è stato un’occasione spirituale e non solo un inciampo doloroso.
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La gratitudine, alla fine di una prova in cui la prossimità del buio è stata tangibile, può essere un semplice sfogo liberatorio che esplodendo si porta via la memoria della fatica e del dolore. Oppure può essere tutt’uno con il respirare, cioè col rendersi conto che anche un’obiezione straziante come la malattia toccata in sorte a un bambino non è un monologo disperato. La gratitudine più sincera, insomma, non separa il momento di buio vissuto e quello della possibile luce; può essere grato chi vive la vita come percorso intero in ogni suo frammento, come parte di un dialogo, anche pieno di un contraddittorio vivace, in cui si mette in mano a Dio la domanda di Santa Teresa: «cosa vuoi farne di me?».