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Camici bianchi: adesso eroi, ma dopo?

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Silvia Lucchetti - pubblicato il 30/03/20
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Il prezzo a breve e lungo termine che il personale sanitario in trincea per tutti noi rischia di pagare.In questi giorni così difficili assistiamo ad uno straordinario afflato popolare verso il personale sanitario che è in prima linea ad affrontare il terribile nemico invisibile con cui il Paese sta combattendo da circa un mese. Già più di 60 medici hanno perso la vita contagiati dal virus (portale.fnmoceo.it), e non conosciamo gli analoghi dati per il personale infermieristico ed il resto del personale sanitario in campo. L’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità fa registrare 6.414 contagiati fra medici, infermieri e farmacisti: oltre l’8% del totale dei casi positivi in Italia (Ansa.it).

Il suicidio dell’infermiera di Monza

Pochi giorni fa è giunta la notizia del suicidio di un’infermiera che lavorava nel reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale San Gerardo di Monza, città diventata uno dei maggiori focolai dell’infezione. Anche a Venezia, una settimana prima, si era tolta la vita un’altra infermiera che lavorava in un reparto con pazienti affetti da Covid-19 all’ospedale di Jesolo. Di fronte ad un gesto terribile come il suicidio non ha certo senso pensare ad una unica causa, qualunque ipotesi possa essere fatta al riguardo, ma è più realistico ricondurlo ad un insieme di fattori, di diverso peso, che sommandosi fra loro hanno contribuito a determinare questa scelta drammatica. Questi episodi ci portano però a riflettere come in questa ondata di plauso un po’ superficiale ai camici bianchi, pochi riescono a comprendere veramente l’esperienza emotiva che queste persone stanno vivendo specialmente nelle aree geografiche più interessate dall’epidemia e nei reparti maggiormente sotto pressione.

Il “bombardamento” emotivo che vivono ininterrottamente

Vivere l’ansia di non poter offrire la migliore possibilità di cura a tutti di fronte alla marea dei malati, di dover trattare casi gravi con ausili respiratori inadeguati per il limitato numero di respiratori, di essere costretti a centellinare i dispositivi di protezione individuale perché scarsi, di correre il pericolo concreto di esporsi all’infezione e di poterla diffondere in ambito ospedaliero e familiare, sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono al “bombardamento” emotivo di questi professionisti di fronte ad uno scenario mai vissuto prima, e nemmeno lontanamente immaginato.


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Il senso di impotenza

Guardare negli occhi il paziente ancora cosciente che si sta per intubare, raccoglierne le implorazioni e il testamento per i cari che non possono essergli vicino in questo momento drammatico, e che probabilmente non rivedrà nemmeno intorno la propria bara: questa è un’esperienza che chi lavora in rianimazione sta facendo innumerevoli volte al giorno, con pazienti giovani ed anziani, vivendo un profondo senso di impotenza. Anche chi è “vecchio” di questi reparti non si è mai confrontato con un carico di sofferenza e morte così grande.

Ora si lavora ma poi sarà necessario elaborare

Chi studia le reazioni emotive dei soccorritori, dei first responders, sa che spesso essi, negli scenari catastrofici, per non farsi “toccare” dentro da quello che stanno vivendo tentano di ubriacarsi di lavoro, perché – finché svolgono intensamente il loro ruolo – l’impatto emotivo rimane ovattato e distante. Ma cosa succede, e quindi succederà, dopo che questi carichi e ritmi frenetici si ridurranno, speriamo presto, quando l’infezione verrà finalmente contenuta? Le immagini, le parole e gli occhi di tanti ultimi momenti, il rumore di quei respiri affannosi, gli odori dei corpi sofferenti stipati in spazi molto stretti, torneranno prepotentemente a riaffacciarsi di giorno e di notte reclamando di essere progressivamente elaborati per permettere alla mente di recuperare l’orizzonte della fiducia e della speranza.

Eroi? No, uomini e donne feriti!

La gran parte di questi camici bianchi metabolizzerà con una discreta rapidità l’impatto dell’esperienza, anche grazie alla vicinanza e al supporto dei propri cari, mentre una quota percentualmente minore vi rimarrà invischiata manifestando vari quadri post-traumatici di sofferenza psichica, anche gravi, che possono cronicizzarsi e rendere l’esistenza svuotata di senso e di futuro. Essi, benché teoricamente informati su questo rischio in quanto medici o infermieri, rischiano di chiudersi in se stessi e per pudore, rassegnazione o vergogna di non chiedere aiuto o farlo molto tardi. Poi chi oggi li osanna, presto li dimenticherà, e questo sarà per loro un altro grande dolore. Ecco perché siamo chiamati a non banalizzarli come eroi di un momento ma a considerarli uomini e donne feriti, a breve reduci da una guerra combattuta per tutti noi. Solo così non saranno destinati a pagare “sine die” il prezzo della loro generosità perché, se daremo loro le giuste opportunità e tutto il nostro sostegno, la psicoterapia specifica e la cura dell’anima – per chi ha fede o la riscoprirà – potranno ridare loro la speranza di riprendere a vivere un’esistenza piena e libera dai fantasmi del passato.


SUSANNA CACCIA,
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