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Ruth, la missionaria colombiana in Africa che lotta contro il Coronavirus

ETHIOPIA
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Lucía Chamat - pubblicato il 28/03/20
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La minaccia del coronavirus è una delle situazioni più difficili che ha dovuto vivere suor Ruth, salesiana di Don Bosco dal 2006 in missione nel continente africano“Preghiamo che il virus non arrivi qui. Questa pandemia è davvero minacciosa, soprattutto per i Paesi africani”.

Così diceva qualche tempo fa riferendosi alla pandemia mondiale di coronavirus suor Ruth Mora, che attualmente vive in Etiopia e dirige la comunità Figlie di Maria Ausiliatrice o Salesiane di Don Bosco nella provincia composta da questo Paese, il Sudan e il Sud Sudan (in due di loro negli ultimi giorni sono stati già registrati casi positivi).

La suora colombiana aveva anticipato ad Aleteia che nel caso in cui il virus fosse arrivato in questi tre Paesi la situazione sarebbe stata terribile, perché ci sono pochi ospedali, il personale sanitario è scarso e le condizioni di vita precarie:

“Le infrastrutture sanitarie sono poverissime, e la gente vive accalcata. In questo momento le scuole sono chiuse a livello preventivo, il che significa fame, perché molti dei nostri bambini in Sud Sudan, ad esempio, consumano un unico pasto al giorno, quello che viene offerto loro a scuola”.

La situazione è ancor più critica se si tiene conto del fatto che il paludismo provoca migliaia di vittime ogni anno, e i disinfettanti e gli oggetti per l’igiene personale sono articoli di lusso in questa regione africana. In una situazione simile, la preghiera è la forza delle Salesiane di Don Bosco, che da 35 anni offrono aiuto alla popolazione.

Oltre a pregare costantemente, si preparano come possono, e per questo stanno confezionando mascherine con la comunità della missione più lontana del Sud Sudan, dove negli ultimi giorni si sono verificati scontri armati tra i clan, il che rende ancor più difficile la loro opera umanitaria.

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Dalla Colombia in Africa

Suor Ruth Mora è nata nel dipartimento colombiano di Norte de Santander, regione limitrofa tra Colombia e Venezuela, e fin da giovane ha iniziato il suo cammino vocazionale. La sua prima esperienza dopo aver professato i voti è stata in una casa di accoglienza per bambine ad alto rischio, poi è andata a Roma a studiare Scienze dell’Educazione ed è quindi tornata nel suo Paese, dove ha lavorato in un centro di pastorale sociale e in una scuola statale per la formazione delle insegnanti.

La sua missione successiva è stata nella Pastorale Giovanile della sua comunità a Roma, in cui è rimasta per sei anni e da dove ha visitato vari dei 95 Paesi in cui ha sede la sua congregazione. Da lì è passata a lavorare nella comunità di Santa María la Nueva del Darién a Urabá, una zona costiera della Colombia orientale con una forte presenza di narcotrafficanti, paramilitari e contrabbandieri. “È stato un anno spendido, in cui ho visitato le zone rurali, ascoltando e cercando vie con la gente che tornava nella sua terra dopo anni di violenze”, ricorda suor Ruth, che ha anche aiutato le donne vittime della violenza.

Dopo varie esperienze interculturali ha sentito di essere pronta per andare in missione e lo ha manifestato alle sue superiore, che nel 2004 l’hanno mandata in Africa. La sua famiglia l’ha sostenuta perché sapeva che era felice di compiere questo passo, anche se andava lontano: “Dico sempre che la mia famiglia è missionaria con me. Grazie a Dio ho potuto assistere mio papà nella fase finale della sua malattia, e mia madre è ben assistita da mia sorella, il che mi dà la serenità per continuare a lavorare qui, mano nella mano con Maria Santissima”.

Bambine scambiate con mucche

La sua prima destinazione è stata il Kenya, dove le Salesiane di Don Bosco lavorano da molti anni, e si è presa l’incarico dell’internato, che in quel momento accoglieva 220 bambine: “Qui gli internati sono molto comuni, sono spazi in cui convivono bambine di diversi gruppi etnici e vengono educate all’interculturalità; ci sono servizi pubblici, biblioteca, cibo e offriamo una formazione umana e cristiana”.

Due anni dopo ha assunto la responsabilità della Casa Provinciale che coordinava la presenza di suore salesiane in Kenya, Ruanda, Tanzania, Sudan ed Etiopia, che è poi stata ristrutturata e dal 2010 è alla guida delle dieci comunità di Sudan, Etiopia e Sud Sudan.

In quest’ultimo Paese, uno dei più sottosviluppati del mondo, ha vissuto tutto il processo di indipendenza dal Sudan. “Il Sud Sudan si è costituito formalmente nel 2011, ma è ancora tutto da fare, ci sono numerosi problemi legati a conflitti interetnici e ci sono già state due guerre civili interne, ma la gente è aperta all’apprendimento e all’incontro con gli altri”.

Per le suore, il tema più complicato è l’educazione delle bambine, perché ci sono alcuni gruppi etnici in cui vengono organizzati matrimoni precoci, non viene permesso loro di studiare, la poligamia è molto presente e lo scambio di bambine con mucche è pane quotidiano.

“Ci fa male quando vediamo che bambine brillanti di 14 o 15 anni vengono date in moglie a uomini di 55 o 60. Soffrono, ma la forza del clan è tale che anche quando lottano alla fine dicono ‘Questo è il mio destino’. Non so quante generazioni dovranno passare prima che questo modo di vivere si trasformi e vengano riconosciuti i diritti delle bambine”.

In questa situazione, la grande sfida delle Salesiane di Don Bosco è promuovere l’educazione delle bambine a livello superiore, e per questo hanno aperto la prima scuola superiore nella regione più lontana del Sud Sudan.

Uno dei temi più difficili è curare la loro salute, perché lottano ogni giorno contro malaria e paludismo, come anche contro una realtà politica instabile. Attualmente nella missione di suor Ruth lavorano religiose di 17 nazionalità e molti volontari di varie parti del mondo, che rafforzano il lavoro delle suore e riconoscono la leadership di questa suora colombiana che offre la vita per i più bisognosi, come ha confermato Melissa Aponte, giovane amministratrice colombiana che ha lasciato famiglia e lavoro per aiutare quest’opera per più di un anno.

“C’è un grandissimo spazio per la speranza, perché si vede la sofferenza, ma anche le tantissime potenzialità delle culture”, ha confessato ad Aleteia.

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