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Quando l’Ulisse dantesco c’insegnò che il cuore impazzisce in quarantena

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Annalisa Teggi - pubblicato il 25/03/20
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Oggi in Italia si celebra il DanteDì e c’è una voce davvero attuale nella Divina Commedia: Ulisse fece un viaggio ardito non per fuggire da casa, ma per trovare un luogo dove chi amiamo sia salvo davvero. Si celebra oggi, in forme molto diverse da quelle pensate in principio, il DanteDì: una giornata nazionale dedicata alla poesia della Divina Commedia. Perché il 25 marzo? Perché questa data è il giorno in cui inizia il viaggio nell’aldilà di Dante. E che sia anche il giorno dell’Annunciazione non è una casualità, considerando che la prima donna a muoversi nel poema dantesco è proprio la Madonna, mentre il povero pellegrino è smarrito nella selva. Dal cielo parte l’iniziativa di un’avventura alla ri-scoperta di sé e del mondo.

Uscire di casa

Scrolliamoci in fretta di dosso le vesti erudite. Abbiamo l’opportunità di renderci conto che i classici sono quei libri che possono pure starsene impolverati sugli scaffali, ma quando l’umanità è in pericolo si risvegliano. O meglio: loro sono sempre stati ben svegli. Siamo noi che, improvvisamente scossi da circostanze difficili, ci svegliamo di soprassalto e ci rendiamo conto che parole scritte sette secoli fa hanno un vigore più forte delle news di stamattina.


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Tutto si fa chiaro e vivo alla luce di un dramma – questa è la nuda verità. L’acqua ha un sapore più intenso quando si ha sete; Dante è sempre stato lì a offrirci brocche e bicchieri, noi siamo più pronti adesso ad accettare la sua generosità.

Uno dei canti più belli del poema dantesco è quello di cui è protagonista Ulisse, il XXVI dell’Inferno. Anche solo per sentito dire, abbiamo nelle orecchie quei versi:

Fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute a canoscenza.

Magari ricordiamo che quell’eroe è artefice di un ardito viaggio per mare oltre le Colonne d’Ercole, ci hanno detto che è l’emblema della conoscenza che non si pone limiti, del desiderio che come una piccola barca si sente fatto per l’infinito. Curioso, o meglio drammatico, che tutta questa intensità cominci da un abbandono: Ulisse lascia Itaca. Nella versione accreditata da Dante, l’eroe greco ritorna a casa dopo l’odissea per mare in fuga da Troia e una volta lì, abbracciato dall’affetto dei suoi cari, sceglie di lasciarli di nuovo e mettersi in mare. Questo è un punto davvero dolente del testo, che facilmente si trascura perché poi c’è la parte bellissima del «folle volo».

Nulla si capisce dell’Ulisse dantesco se non si comprende perché scelga consapevolmente di lasciare padre, moglie e figlio e perché volti le spalle alla casa di Itaca per consegnarsi all’ignoto. L’eroe parla in prima persona e dice:

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

Non è distratto, non elude il discorso. Mi ha sempre colpito la precisione di questo sguardo che dà un nome diverso a ogni tipo di affetto (per il figlio è «dolcezza», per il padre è «pieta», per Penelope è «debito amore»): non c’è nulla che non va nelle relazioni domestiche di Ulisse, anzi. Non è stanco di stare con quelli che ama; è così premuroso e legato a loro da riconoscere che l’amore non è uguale ma si conforma al bisogno particolare della persona a cui è rivolto. Non c’è niente a Itaca che non vada, ogni persona dentro casa è amabile e preziosa. Eppure.

Eppure Ulisse li abbandona. È questo il nodo stretto, lo si scioglie facilmente con un: «Ha sbagliato a lasciare i suoi cari, ma c’era qualcosa di più grande che lo chiamava». Un’interpretazione che fa acqua. Dante stesso (che è l’autore che fa pronunciare quelle parole al suo personaggio) le scrisse tremando, se non piangendo: era un uomo in esilio, costretto a lasciare la propria famiglia a Firenze. Dante per primo viveva lo strappo ferito di essere separato dalla moglie e dai figli, e perciò doveva avere una domanda aperta sul problema della «casa».


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Oggi noi possiamo permetterci l’azzardo di un’immedesimazione che più sincera non si può. Chiusi in casa, in una quarantena che si protrae, possiamo sentire quel che Ulisse sentì a Itaca. Il bisogno di uscire? Sì, certo; il sorriso dell’ironia ci sta. Ma poi proviamo a scrutare meglio quale sia l’identikit di questa inquietudine e smania che fremono intrappolate tra quattro mura.

L’amore non basta

La quarantena, anche in versione deluxe, è una trincea. Il cibo non manca, la TV ci offre ogni genere di intrattenimento, il divano è comodo. C’è da lavorare e da accudire i bambini, ma certo non è come essere al fronte sotto le bombe. Eppure è una trincea, ed è faticoso confessarlo perché ci sarebbe solo da ringraziare – parlo per me – del fatto che questo sacrificio non sia aggravato dal dolore di avere dei parenti ammalati.

Sono a casa e sono in salute; vicino a me ho tutta la mia famiglia. Perché sento lo stesso una ferita aperta che brucia? È dovuta al fatto che sono stanca di stare in casa? O perché ho paura di ammalarmi? Mi pesa il carico domestico e la vicinanza ravvicinata con marito e figli? La risposta è sì a tutte le domande, ma c’è anche altro. Lo dico senza fronzoli: proprio ora che posso guardare uno per uno i volti dei miei cari, capisco che l’amore reciproco che abbiamo gli uni per gli altri non ci può salvare. Il mio amore per loro – e il loro amore per me – è intenso e meraviglioso, ma non è capace di darmi la risposta che il mio cuore chiede. Tutti prima o poi sentiamo il brivido della grande e misteriosa distanza che c’è tra noi e nostro figlio, o moglie o marito, che pure ci stanno accanto a tavola.


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L’ombra cupa di un contagio che miete centinaia di vittime in un giorno, ci porta – volenti o nolenti – a confrontarci con una sconfitta forte, incomprensibile addirittura: posso chiudermi in casa, proteggere i miei cari, ma il nostro affetto non è capace di contenere, né tanto meno salvare, il destino di ciascuno e neppure la domanda di senso che esplode nel cuore. Fa arrabbiare e sconforta: se l’amore è la cosa migliore di cui siamo capaci, perché non basta? E cosa allora può bastare o meglio sostenere tutto? Eccoci con Ulisse, lì ad Itaca, che guarda uno a uno i suoi cari … ed è a un passo dalla scelta di lasciare tutti.

Non una fuga ma un ritorno

Andarsene, viaggiare, assaporare la libertà di non dover rispondere più a niente e nessuno. Questa è l’illusione che c’è dietro lo stereotipo del marito o della moglie che, sbattendo l’uscio di casa, gridano: «Basta, ora me ne vado». Quante volte l’abbiamo detto in questa quarantena? Non c’è da scandalizzarsene.

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AntonSokolov | Shutterstock

Ulisse non è il navigatore che fugge, non è l’annoiato in cerca di avventure. Siamo noi quelli che per tanto tempo abbiamo schivato il pressing delle domande più scomode uscendo di casa; invece Ulisse si mette per mare per poter capire su cosa si regge davvero la sua casa. Quel suo ardore che tutti da secoli applaudono è la necessità di trovare – ovunque sia – un interlocutore che sappia rendere ragione del dolore irrisolto per l’amore che non basta a salvarci. Quell’ardore non è la voglia di andare lontano, ma al centro.

E ci arriva. Ogni tappa geografica raggiunta lo spinge oltre, perché a nessuna latitudine c’è qualcosa di umano in grado di offrire un pilastro così solido da proteggere un’anima indifesa e così grande da contenere il bisogno di un cuore che ama davvero. La conoscenza che Ulisse cerca non è un’enciclopedia o una mappa turistica ma una voce che dica la parola che l’uomo non sa dire: «Tutto di te è amato e salvato». E ci arriva, quasi, al centro di tutto. Ulisse muore a un passo dalla montagna del Purgatorio, intravede il luogo che è la nostra vera casa (in cima a quella montagna c’è l’Eden, il giardino creato da Dio per un’umanità non corrotta). L’ardore non lo ha portato a vagare, come un segugio gli ha fatto fiutare il sentiero giusto.


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Il suo naufragio a un passo dalla destinazione giusta è doloroso per noi che leggiamo, ma necessario nella mente di Dante: solo l’intensità di un ardore così grande, che sa di essere ultimamente incapace di una risposta definitiva sul proprio destino, ci fa riscoprire con occhi nuovi l’unica ipotesi che regge, l’Incarnazione. Quel pezzetto di tragitto che Ulisse non ha compiuto, lo ha percorso Dio verso di noi. Anche Lui ha lasciato la sua casa celeste, si è fatto Uomo ed è sceso tra noi, affinché ciò che custodiamo nelle nostre piccole case sia salvo per sempre.

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