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Come “partecipare” alla Messa… vista in Tv: note e accorgimenti

STREAMING MASS
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 23/03/20
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Inginocchiarsi o no al momento della consacrazione? Cantare o no l’acclamazione al Vangelo? Darsi o no il segno della pace? E soprattutto, perché quei semplici gesti che in chiesa ci vengono naturalissimi possono sembrarci forzati o innaturali nel ben più noto soggiorno di casa? Proviamo a illustrare alcune ragioni e a condividere qualche consiglio.

La combinazione che in queste settimane si consuma, tra il confino nazionale e la trasmissione delle celebrazioni pontificie (ma il Papa non è certo l’unico: molti vescovi e anche parecchi parroci si sono attrezzati per proporre lo streaming delle liturgie della comunità), ha prodotto una significativa impennata delle visualizzazioni e dello share delle stesse (parlando di mero “prodotto radiotelevisivo”): in termini di imprenditoria mediatica ciò implica che le radio e le televisioni faranno bene a considerare la sete di spiritualità presente nella popolazione italiana, soprattutto in sede di scrittura del proprio palinsesto e di progettazione di nuovi programmi.

Chiesa e media: un amore tormentato

In termini di missione pastorale le cose sono più complicate, come già dal 2004 la Conferenza Episcopale Italiana illustrava in due densi numeri di Comunicazione e Missione, Direttorio sulle Comunicazioni sociali nella missione della Chiesa:

Molti momenti della vita liturgica e dell’esperienza religiosa sono oggi oggetto di trasmissioni televisive e radiofoniche e vengono diffusi anche attraverso le reti informatiche con grande utilità per l’esperienza religiosa di tante persone. Occorre operare «per il continuo perfezionamento contenutistico e tecnico di queste trasmissioni». L’impatto e il ruolo dei mezzi della comunicazione sociale vanno valutati con attenzione, soprattutto in presenza di celebrazioni sacramentali, dove risultano fondamentali la sobrietà delle immagini e la pertinenza del commento. Per la natura e le esigenze dell’atto sacramentale non è possibile equiparare la partecipazione diretta e reale a quella mediata e virtuale, attraverso gli strumenti della comunicazione sociale. Pur rappresentando una forma assai valida di aiuto nella preghiera, soprattutto per chi è malato o impossibilitato a essere presente, in quanto offre «la possibilità di unirsi a | una Celebrazione eucaristica nel momento in cui essa si svolge in un luogo sacro», va evitata ogni equiparazione. Per questo stesso motivo risulta fuorviante trasmettere celebrazioni sacramentali in differita o in modo ripetitivo attraverso i media. Tanto meno si può pensare che le celebrazioni sacramentali possano avvenire tramite i media, come ipotizzato da alcuni per il sacramento della penitenza.

Molte emittenti radiotelevisive trasmettono la santa Messa nei giorni feriali e soprattutto la domenica. Tale trasmissione deve essere autorizzata dall’Ordinario del luogo e preparata adeguatamente seguendo i criteri stabiliti dall’autorità ecclesiastica. Dove tali trasmissioni sono abituali, è necessario predisporre una convenzione tra la diocesi o la Conferenza episcopale (nazionale o regionale) e l’emittente, affidando al competette ufficio per le comunicazioni sociali, coadiuvato dall’ufficio liturgico, la verifica delle modalità di ripresa e di trasmissione. La comunità ecclesiale, da cui la santa Messa viene trasmessa, consapevole della peculiare situazione dovuta alla presenza di strumenti mediatici, si impegnerà a rendere la celebrazione esemplare, anche attraverso un’accurata preparazione dei fedeli e particolari accorgimenti da concordare con gli operatori della comunicazione, evitando alterazioni alla natura dell’atto celebrativo. […]

Conferenza Episcopale Italiana, Comunicazione e Missione 64-65

Il numero 65 proseguiva invitando alla corroborazione di tali “partecipazioni mediatiche” con un efficace ministero di accoliti e ministri straordinari dell’Eucaristia, così che quanti vedono la Messa possano meno impropriamente ritenere di avervi partecipato mediante il servizio pastorale comunitario (si noti che il rituale preposto è quello per la comunione fuori dalla celebrazione eucaristica): se la presente emergenza sanitaria rende inutile riportare il seguito del paragrafo, richiamarne il contenuto giova tuttavia a richiamare l’assunto – vedere la Messa in tv è un utile palliativo all’astinenza eucaristica forzata che viviamo ma non è in alcun modo come partecipare alla Messa.


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Questa è una cosa da ribadire prima di ogni altra quando ci si appresta (come è qui il caso) a offrire qualche risposta alla domanda “come si può partecipare al meglio a una Messa a cui non si è presenti?”: è cioè bene capire anzitutto se effettivamente sia possibile partecipare a una Messa a cui non si è presenti. L’entusiasmo con cui la diffusione radiotelevisiva delle celebrazioni è stato sempre promosso, e la severità con cui al contempo lo stesso è stato sempre severamente condizionato, suggerisce che la risposta sia nel mezzo: è possibile, sì, ma solo in senso analogico. Si tratta di una questione delicata che ha il difetto, tra gli altri, di esprimersi perlopiù in termini teorici pur riguardando questioni esperienziali: il paradossale risultato è che spesso gli stessi strumenti suscitati e offerti dall’autorità ecclesiastica non rispondono alle norme che essa suggerisce.

Un esempio concreto

Ad esempio, l’assai funzionale applicazione Liturgia delle Ore, sviluppata e sostenuta proprio dalla Conferenza Episcopale Italiana, funziona proprio mediante riproduzione informatica on demand di contenuti “storati” e compilati da un programma in base al calendario liturgico: è comodissimo poter cantare lodi e vespri mentre si guida andando al lavoro o se ne torna, ma di fatto mentre noi ascoltiamo quelle belle voci nessuno sta cantando, in nessun punto del mondo, né qualcuno ha cantato da qualche parte del mondo. Sarebbe replica debole quella che sostenesse la bontà di tale pratica perché nella Liturgia delle Ore, a differenza che nella messa, non si celebrerebbe alcun sacramento: il Salterio è infatti la preghiera più antica della storia della Chiesa, nonché quella che per ampli spazi della Tradizione d’Oriente e d’Occidente ha sostenuto monaci e anacoreti proprio nei periodi di digiuno eucaristico (ma ancora nel decreto dello scorso 19 marzo della Congregazione per il Culto Divino si raccomanda di celebrare bene la Liturgia delle Ore, nell’impossibilità di partecipare ai riti della Settimana Santa). Sacramento fontale è Cristo, Sacramento primario è la Chiesa: come si può dire che dove la Chiesa celebra Cristo (il suo Mistero e i suoi misteri) non avvenga un fatto sacramentale? Dunque si vuole dire che l’app citata a titolo di esempio sia esecranda e che sarebbe meglio se non ci fosse? Tutt’altro: come afferma il Direttorio CEI, «occorre operare per il continuo perfezionamento contenutistico e tecnico di queste trasmissioni», e a me sembra che una soluzione (e al contempo molte) sia a portata di mano. Basterebbe infatti stipulare convenzioni con monasteri dove la Liturgia delle Ore sia celebrata in modo esemplare e trasmettere quelle celebrazioni (vere celebrazioni di vere comunità): ove si voglia poi agevolare la fruizione agli ascoltatori, poiché non tutti possono unirsi alle Lodi alle 6 del mattino, la tecnologia del podcast introdurrà comunque nel prodotto meno artificio di quella attualmente in uso. E inoltre si potrebbe “moltiplicare l’offerta”, poiché la CEI non sarebbe obbligata a trasmettere soltanto da una comunità: ciò avrebbe l’effetto di responsabilizzare le comunità e di innestarle più consapevolmente nel vasto tessuto ecclesiale.


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Un esempio simbolico

Ma perché questa avversione alla non-presenza, come comprenderla e come spiegarla? «Per la natura e le esigenze dell’atto sacramentale non è possibile equiparare la partecipazione diretta e reale a quella mediata e virtuale», dice il Direttorio. La nettezza delle espressioni mostra una certa sicurezza, ma il loro ermetismo le rende di fatto oscure a molti. Insomma, quando si “guarda la messa in Tv” ci si deve inginocchiare? Si sta in piedi al Vangelo? Si canta l’acclamazione? Si risponde al sacerdote nell’anafora e nelle altri parti dialogate? Ci si dà il segno della pace?

Provo a spiegare la questione in termini teorici, prima, e poi adducendo un esempio:

I sacramenti sono segni efficaci della grazia, istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa, attraverso i quali ci viene elargita la vita divina. I riti visibili con i quali i sacramenti sono celebrati significano e realizzano le grazie proprie di ciascun sacramento. Essi portano frutto in coloro che li ricevono con le disposizioni richieste.

Così il Catechismo (1131), sintetizzando. Il concetto di “segno” si colloca “per sua natura” sul piano semantico: ciò significa che esso esprime realtà distinte da quelle percettibili (composte di «gesti e parole intrinsecamente connessi fra loro» [Dei Verbum 2]). Tale è la natura di ogni linguaggio, e in particolare di quelli compositi: si potrebbero fare molti esempi concreti, ma per brevità ne faremo uno solo accessibile a tutti. Il cinema. Prendiamo un bel film, qualcosa che ci abbia scossi e commossi, o spaventati e indignati: esso è un prodotto sapientemente confezionato che compone sceneggiature, musiche, luci, fotografia e mille altre cose che – de-costruite – non possono rendere la bellezza e la forza dell’insieme. Tale è anche la celebrazione liturgica (ogni singola celebrazione).


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Ora, immaginate che esca al cinema quel film che volevate tanto vedere ma che (Covid-19 a parte) proprio non potete andare a godervi: vi è appena nato un figlio o vi è venuto il morbillo… insomma dovete stare a casa. Un vostro amico va e vi propone: «Se vuoi, sistemo il cellulare sul sedile davanti al mio e ti faccio uno streaming». Voi ringrazierete ma ovviamente direte di no. Per non incomodare l’amico? Pure, ma soprattutto perché non è lo stesso, e anzi temete di sciuparvi la visione del film. Dite che effettivamente direste così, ma per la sola ragione che la ripresa sarebbe poco nitida e l’audio sfocato, con possibili ritardi di buffer? No, non è così e ve ne rendete conto quando riportano sul grande schermo qualche gran film d’essai e voi correte a vederlo in sala malgrado ne abbiate il dvd restaurato in soggiorno: è in occasioni come quella che ci rendiamo conto di come – davanti all’esperienza globale del cinematografo – anche il migliore degli home theatre non è che un surrogato. «Ah, sembra di essere al cinema!», direte finalmente accomodandovi davanti al grande-piccolo schermo. «Sembra! – chioserebbe la mia figlia duenne –: ma non è!».

Limiti e opportunità del mezzo

Certamente l’analogia (come ogni analogia) ha dei limiti, ma pure in presenza di quelli i punti di contatto restano notevoli: quando andiamo al cinema veniamo coinvolti in una narrazione che sospenda la nostra incredulità e ci comunichi un’impressione; quando andiamo in chiesa noi partecipiamo alla più grande storia mai raccontata e alimentiamo la sospensione dell’incredulità grazie a un’esperienza. Essere tutti un corpo unico, in Cristo, con quei precisi fratelli e quelle precise sorelle che ci apprezzano e tollerano come noi li tolleriamo e apprezziamo, per amore di Dio: nulla di tutto questo capita al cinema, eppure la fenomenologia semantica è assai simile.



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Trasmettere in Tv la messa significa, sul piano filosofico-linguistico, costruire un piano “metasimbolico” nel quale un elemento simbolico forte (il sacramento) viene duplicato mediante uno strumento simbolico debole (l’apparecchio): se a messa ci troviamo di fronte alle Sacre Specie (davanti alle quali c’inginocchiamo per la loro mutata sostanza), a casa abbiamo solo le specie delle Sacre Specie, poco più impressionanti di una fotografia in quanto esprimono un atto liturgico che avviene in quel momento. Né conta quanto sia raffinata la tecnologia di riferimento: il punto è che (altra enorme differenza rispetto all’analogia predetta) il fedele nella/della assemblea liturgica non è affatto assimilabile a un mero spettatore, e la sua “partecipazione attiva” dipende meno da quali e quante cose faccia che dal suo semplice essere lì. “Esserci” è fondamentale tanto per il fedele quanto per lo spettatore, ma mentre la modalità d’esserci del secondo è quasi esclusivamente passiva quella del primo è condizione necessaria (ma non sufficiente) dello stesso atto liturgico: ne è prova il fatto che il sacerdote, da solo, può celebrare senza la presenza della comunità, ma non senza almeno un fedele che gli rappresenti il Popolo di Dio (nel quale, col quale e per il quale egli solo può celebrare); al contrario, nessun cinematografo proietterà alcunché per una sala vuota, ma la condizione ideale di chi va al cinema è proprio quella di ritrovarsi solo in sala.



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Si potrebbe stressare ulteriormente il parallelo, anche per introdurre qualche precisazione, ma non è questo il fine che ci siamo proposti nella presente sede. Qui volevamo essenzialmente rispondere alle domande che ci giungono in redazione su come si possa “partecipare” al meglio a una celebrazione eucaristica radiotelevisiva. Ora, dopo aver illustrato (in modo ancora perfettibile ma, pensiamo, già esauriente) perché tale “partecipazione” sia possibile solo “in un certo senso”, offriamo qualche consiglio pratico per sfruttare al meglio quello che ci viene offerto come strumento di grazia.

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