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In macchina, a distanza, per telefono o per lettera? La Confessione ai tempi del Covid-19

Fr. Scott, della parrocchia Saint Edward (arcidiocesi di Washington)

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 17/03/20
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Basterà una crittografia? O ci si potrà appellare alla celebrazione collettiva del sacramento? Tra le cose che avevamo date per scontate quando la parola “epidemia” ci rimandava ai libri di storia ci sono i sacramenti. Tra questi, quello della Riconciliazione è uno dei più complessi, proprio perché lo si deve celebrare in forma individuale e con una prossimità che permetta l’aprirsi della coscienza. Il problema, peraltro, non nasce certo con l’avvento dei nuovi media, anzi con la modernità ne fu chiusa la discussione scolastica. Dunque che fare? Proviamo a illustrare qualche pista.

L’emergenza mondiale data dall’epidemia di Coronavirus impone uno stile di vita quasi-monastico (a cui la nostra Paola Belletti ha dato il nome, smart & glam, “Covid-Style”). Le pubblicità che ci capita di guardare ci sembrano per due terzi buoni a dir poco anacronistiche: a chi serve una bella automobile, un vestito da sera, un modellino di aeroplano? Cibo, bevande, detergenti, saponi e poco altro: quelle rare volte che, bardati di tutto punto, usciamo per andare a fare la spesa, ci troviamo a fare considerazioni che riecheggiano quelle dei tempi della guerra, come i nostri nonni ce le raccontarono (- Questo un mese fa non costava così – Non l’ho trovato, dice che non c’è più da giorni – Forse la settimana prossima arriva da non so dove – Ho saputo che ne ha un po’ un amico di tizio © @Svagaia su Twitter).


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Certamente c’è del buono nella presa di coscienza che per vivere non ci occorrono tutte le cose che pensavamo, ma se la costrizione allo “stretto indispensabile” ci porta a scremare il molto superfluo che indolentemente le nostre abitudini avevano canonizzato nel ruolo di “necessità” essa ci porta pure a scoprire che molto ci costa rinunciare a quanto avevamo sempre dato per scontato e che ora ci è precluso, per quanto non rientri nel “superfluo”.

Tra le cose che nel nostro angolo di mondo abbiamo dato per scontato tutta la vita ci sono anche i sacramenti (una rarefazione invece ben nota a tanti fratelli e sorelle cristiani nel mondo): ci siamo appassionatamente interrogati sull’opportunità di sospendere le celebrazioni eucaristiche pubbliche, ma subito dopo ci siamo accorti che pure le norme per la confessione sacramentale (individuale per sua natura) non sono tanto semplici da osservare.

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Se a qualcuno viene naturale volgersi alle nuove tecnologie, altri si ricordano che la Chiesa ha da sempre previsto una forma collettiva straordinaria del sacramento della penitenza: è il caso tipico delle assoluzioni dei cappellani alle truppe prima di una battaglia (o subito dopo ai soli moribondi raccolti insieme); caso più volte assimilato, nei secoli, a quello di appestati e di vittime di altre epidemie.

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Anzitutto il diritto

Proprio perché suscettibile di applicazioni più o meno restrittive, la Chiesa ha sempre tenuto a ribadire che «la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa» (Reconciliatio et pœnitentia 33). La VI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, convocata nel 1983 – anno giubilare della Redenzione – fu volentieri dedicata alla riflessione ecclesiale sulla Penitenza, e raccogliendo le risonanze sinodali nel 1984 Giovanni Paolo II precisò, riguardo alla terza forma del sacramento della confessione:

Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata – lo ha ripetuto il Sinodo – se non «in casi di grave necessità», fermo restando l’obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un’altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell’ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l’uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati – sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte – con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un’autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l’uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all’abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori rimane l’obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell’anima. Per i fedeli l’uso della terza forma di celebrazione comporta l’obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l’esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all’assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell’obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell’assoluzione.

ReP 33

Nel 1996 il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi tornò sull’argomento con una nota, nella quale si precisava:

Il can. 961, § 1 nn. 1º–2º, presentando il modo straordinario dell’assoluzione collettiva, fissa due condizioni tassative che indicano i soli casi in cui tale assoluzione è lecita:

1º che vi sia un pericolo di morte (« immineat periculum mortis ») e per il sacerdote o i sacerdoti non vi sia tempo sufficiente per l’ascolto della confessione individuale. (Riferimento questo, al motivo originario della concessione dell’assoluzione generale nel periodo bellico delle due guerre mondiali).

2º che vi sia una grave necessità (« adsit gravis necessitas »). Lo stato di necessità, spiega il canone, si verifica quando il numero di penitenti e la scarsezza di sacerdoti fa sì che i fedeli, senza loro colpa, rimangono privi, durante un tempo notevole, della grazia sacramentale o della santa comunione.

Perché si verifichi tale stato di « grave necessità » devono concorrere congiuntamente due elementi: primo, che vi sia scarsezza di sacerdoti e gran numero di penitenti; secondo, che i fedeli non abbiano avuto o non abbiano la possibilità di confessarsi prima o subito dopo. In pratica, che essi non siano responsabili, con la loro trascuratezza, dell’attuale privazione dello stato di grazia o dell’impossibilità di ricevere la santa comunione (« sine propria culpa ») e che questo stato di cose si protrarrà prevedibilmente a lungo (« diu »).

La riunione però di grandi masse di fedeli non giustifica per se l’assoluzione collettiva. Perciò è precisato nella stessa norma canonica: « non è considerata necessità sufficiente, quando i confessori non possono essere disponibili, a motivo del solo grande concorso di penitenti, quale si può avere in qualche grande festività o pellegrinaggio ».

I criterî sono chiari, ed è chiaro anche che solo l’Ordinario (cioè il Vescovo, nella massima parte dei casi) è chiamato a discernere se tali criterî trovino riscontro nel proprio territorio e possano dunque invocare l’applicazione della terza forma. Quel che però l’Ordinario deve valutare non è lampante: queste norme si addicono all’epidemia da Covid-19 con cui ci stiamo attualmente confrontando? I sacerdoti in Italia non sono a tal punto rarefatti da essere considerati “troppo pochi” per ascoltare le confessioni di persone, le quali non sono tutte in uguale pericolo: eppure è certamente senza loro colpa che i fedeli non hanno modo di accedere al sacramento. Quel che fa problema, nella fattispecie, è proprio la condizione in cui ordinariamente si adempie la confessione sacramentale, ossia un incontro abbastanza ravvicinato e intimo tra due persone: tale incontro potrebbe configurare una facile occasione di contagio, e la dinamica per cui molte persone vanno sistematicamente a incontrare un’unica persona aumenta drammaticamente l’eventualità che l’unica persona venga contagiata e diventi a sua volta un veicolo di contagio (perfino più potente degli altri). Di più: la stessa condizione per cui si possa dare l’assoluzione generale – ossia un forte assembramento di persone – è attualmente (e giustamente) impossibile a tenersi secondo la legge, in quanto costituirebbe con altissima probabilità l’avvio di un pericoloso focolaio epidemico.



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Un poco di storia

Dunque ha ragione chi chiedeva di valutare speciali crittografie che permettano la confessione telematica? Non sembra questa la soluzione possibile al problema, perché se la segretezza è una caratteristica della confessione, il suo difetto tuttavia non la invalida (chi ascoltasse per caso una confessione sarebbe tenuto al segreto come il confessore, e chiunque violi tale sigillo è istantaneamente colpito da scomunica maggiore)… mentre invece la invalida il difetto della presenza.



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Per capire la questione è utile tornare al suo primo apparire, che – contrariamente a quanto si potrà immaginare – non è legato alla comparsa del telefono o del telegrafo, bensì costituiva un addentellato della celebre disputa de auxiliis.


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Non è qui il caso di scendere in dettagli eruditi, ma basti ricordare che per tutto il Medioevo e ancora fino al Concilio di Trento ci si era lungamente interrogati sulla possibilità di ricevere validamente un’assoluzione dopo aver confessato a un sacerdote assente i propri peccati (a mezzo di lettera o di altro tramite): generalmente non si obiettava, contro questa ipotesi, che i peccati del penitente dovessero restare segreti (e chi può impedire a un peccatore di confessare in pubblico i proprî peccati?), né faceva problema l’affidabilità del mezzo in ordine alla trasmissione integra e completa della confessione (la lettera, anzi, sembrava offrire un mezzo anche più adatto della sola esposizione vocale all’accuratezza dell’accusa dei peccati). Se dunque in generale il Medioevo lasciò che i dottori dibattessero la questione (anche Tommaso non sbarra la porta), furono i gesuiti, ormai nell’Evo Moderno, a farsene alfieri: memorabile è la difesa che all’ipotesi teologico-canonistica dedicò Roberto Bellarmino.


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Nel 1602, tuttavia, sotto il pontificato di Clemente VIII, un decreto del Sant’Uffizio (20 giugno) dichiarò che il Romano Pontefice aveva

condannato e proibito [la proposizione in oggetto] come falsa, temeraria e scandalosa, e ha ordinato che d’ora in avanti questa proposizione non sia insegnata nelle lezioni pubbliche e private, nelle assemblee e nei congressi, e che non sia mai difesa, stampata o in un qualsiasi modo tradotta in pratica, come se fosse in qualche modo probabile.

(DH 1994)

Per capire quanto questa ipotesi fosse quotata si tenga presente che fino al 1586 la Ratio Studiorum della Compagnia di Gesù sostenne esplicitamente la libertà d’insegnamento su questo punto, in particolare rivendicandola per i proprî membri. Della generazione successiva a quella del Bellarmino, lo spagnolo Francisco Suárez (che nella Compagnia entrò nel 1564 e che dunque per vent’anni buoni fu educato a difendere la tesi) tentò allora un’ultima strenua apologia introducendo una distinzione nella proposizione condannata dal Sant’Uffizio sotto Clemente VIII in modo da lasciare uno spiraglio alla pratica: secondo la sua ardita interpretazione (che comunque richiamava un passo dell’epistolario di Leone Magno al vescovo Teodoro di Frejus), sarebbe stata condannata solo quell’amministrazione del sacramento in cui sia l’esposizione dei peccati sia l’assoluzione fossero avvenute senza la compresenza del penitente e del ministro del sacramento. Quasi un anno dopo quel primo decreto (e precisamente il 7 giugno 1603), il Sant’Uffizio procedette con un’ancora più ferma reprimenda ai danni della distinzione di Suárez; reprimenda confermata ancora il 24 gennaio del 1622 quando fu il Grande Inquisitore del Portogallo a inoltrare al Sant’Uffizio un’interrogazione che cercava – un’ultima volta – di salvare almeno la distinzione del gesuita spagnolo.


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Niente da fare: sembra che a Roma il cavillo gesuitico di Suárez non sia mai piaciuto, e per quanto gli stessi decreti del Sant’Uffizio non costituiscano certo materia irriformabile, non basta certo la circostanza eccezionale che per la prima volta ha portato un gesuita sulla Cattedra Romana per rendere probabile la revisione della materia.



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Fermo restando il “grave dovere” dei sacri pastori di facilitare quanto più possibile la praticabilità della Confessione auricolare (e il previo accesso ad essa) nella prima e fondamentale delle sue forme, mi sembra che (come ho visto proporsi da qualcuno) si potrebbe al limite progettare un confessionale a comparti ermeticamente sigillati, munito di apposito vetro all’interno e dove anche la conversazione avvenga mediante citofono. La sola riproduzione elettronica della voce dei due mi sembrerebbe allora un ostacolo relativamente debole all’approvazione del mezzo, ma tutto ciò varrebbe ancora in linea puramente teorica: ove anche si escludesse il contatto fisico col sacerdote (e dunque il suo potenziale virale erga alios), resterebbe il problema della contaminazione della cabina del penitente, che andrebbe disinfettata con cloro e/o alcool dopo ogni uso e comunque tra un uso e l’altro. La progettazione e la produzione di un simile dispositivo – ammesso e non concesso che se ne ottenesse l’approvazione dalla Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti – comporterebbe se non altro costi difficilmente sostenibili per molte comunità.

Penitenziágite

Come spesso accade, quando ci si addentra nelle questioni canonistiche e teologiche invocate da certa casuistica si perdono di vista non solo la praticità e la praticabilità delle ipotetiche soluzioni, ma pure lo stesso senso del sacramento. In tutt’altra – e dunque assai meno sterile – direzione va la bella lettera che mons. Pierantonio Tremolada, Vescovo di Brescia, ha rivolto in data 13 marzo u.s. al popolo affidato alle sue cure pastorali. Vi si legge, fra l’altro (oltre all’invito a mantenere aperte le porte delle chiese):

Il mio pensiero va anzitutto ai nostri fratelli e sorelle che a causa del contagio versano in gravi condizioni nei nostri ospedali, che non possono essere accompagnati dai loro cari negli ultimi istanti della loro vita e che non possono ricevere i conforti religiosi. Vorrei tanto che non si sentissero soli, che potessero avere un segno della amorevole presenza del Signore, della sua potenza di salvezza e della sua misericordia. Mi rivolgo allora a voi cari medici e infermieri che credete nel Signore: siate voi ministri di consolazione per questi nostri fratelli e sorelle, nel rispetto della libertà loro e dei loro parenti. Aggiungete all’ammirevole cura che state dimostrando anche questo gesto: quando li vedete in particolare difficoltà o ormai alla fine della loro vita terrena, affidateli al Signore con una semplice preghiera silenziosa e se i loro cari vi esprimeranno il desiderio di saperli accompagnati dai conforti cristiani, tracciate voi sulla loro fronte una piccola croce. Fatelo a nome loro e a anche a nome mio, a nome dell’intera nostra Chiesa. Avete piena dignità di farlo in forza del vostro sacerdozio battesimale. Ai cappellani dei presidi ospedalieri e ai loro collaboratori pastorali – la cui presenza in questo momento è ancora più preziosa – ho raccomandato di sostenervi in questo vostro ministero. Noi ricorderemo tutti i nostri malati e tutti i nostri defunti la sera di ogni giorno nel santo rosario delle ore 20:30.

A tutti vorrei poi ricordare che in momenti di particolare gravità, quando non vi siano le condizioni per accostarsi al Sacramento della Penitenza nella forma consueta della confessione personale, la Chiesa stessa prevede la possibilità di ricevere il perdono del Signore nella forma del Votum Sacramenti, cioè esprimendo il desiderio di ricevere il Sacramento della Riconciliazione e proponendosi di celebrarlo successivamente. L’attuale situazione impedisce a tanti di noi fedeli e ministri di ricevere l’assoluzione sacramentale, stante le indicazioni dell’ultimo decreto ministeriale circa il contatto tra le persone, indicazioni che raccomando di osservare con assoluto rigore. Pertanto la forma ordinaria della confessione individuale in questo tempo di emergenza viene sostituita per tutti da quella del Votum Sacramenti. Tutti abbiamo bisogno del perdono del Signore. Domandiamolo dunque con fede, con un atto di sincera contrizione, esprimendo questo desiderio del perdono attraverso una supplica confidente, o con una formula di preghiera liturgica o tradizionale (Confesso a Dio Onnipotente, “O Gesù d’amore acceso”, Atto di dolore) o con parole nostre, e compiendo se possibile un gesto penitenziale (digiuno, veglia di preghiera o elemosina). Nel tempo che abbiamo davanti – il Signore solo ne conosce la durata – rinnoviamo questo Votum Sacramenti ogni volta che in coscienza riteniamo di averne bisogno, fino alla futura celebrazione del Sacramento nella sua forma consueta. Riscopriamo anche il valore delle diverse pratiche penitenziali, che la Chiesa da sempre ha raccomandato.

Tracciare una croce sulla fronte di un moribondo non è un’assoluzione, non fa parte di un sacramento, ma come talvolta le cure di un’ostetrica sono decisive per l’esito felice di un parto – senza che l’ostetrica possa per ciò essere assimilata alla madre – così nessuno di noi ha modo di sapere se nel momento del proprio trapasso avrà la consolazione di una qualche compagnia, e in caso quale sia tale compagnia: che un cristiano in punto di morte possa incrociare in quel momento lo sguardo di un fratello o di una sorella che lo sostenga nel criticissimo momento è tutto fuorché un abuso e tutt’altro che una formalità. Significa essere e dimostrarsi Chiesa gli uni per gli altri, prodigarsi mutuamente l’abbraccio della Madre e raccomandarsi reciprocamente alla misericordia del Padre.


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Commentando in privata sede questo scritto, poi, il prof. Andrea Grillo è tornato su un tema che già su queste pagine aveva avuto modo di accennare anni fa:

La lettura del documento mi convince del fatto che abbiamo un modo di affrontare le questioni che è davvero molto precario. Capisco bene l’imbarazzo del Vescovo e capisco anche che ha scelto anche coraggiosamente una via classica. Ma il “votum sacramenti” è appunto un desiderio autentico che, di fronte alla impossibilità, viene adempiuto. Dio perdona ogni cristiano che sia davvero pentito di ciò che ha compiuto. Ma questo, si badi, vale sempre.

Ora, data la impossibilità del contatto diretto con il ministro, possiamo dire in modo più forte quello che sempre è stato valido. Altra cosa è il “fare penitenza” di cui la Chiesa vive. Qui però c’è un altro punto delicato. Il “fare penitenza” va al di là del votum sacramenti. Fare penitenza è già di per sé “perdono del peccato”.

Se non ho compiuto un fatto che sia “colpa grave” il mio cammino di penitenza, in rapporto alla parola o al prossimo, copre tutte le mie debolezze. È ovvio che, per chi viva una dinamica di colpa grave, sarà importante che il “desiderio del sacramento”, che già come tale lo ricolloca nella comunione della Chiesa, sia poi seguito da incontri, atti formali e percorsi penitenziali, che potranno aversi sono dopo la fine di questa “clausura civile”.

Per annunciare il perdono direi che ogni singolo fedele assuma il cammino quaresimale, la sequenza feriale e festiva della celebrazioni – come Parola annunciata e preghiera comune delle Ore – come il luogo primario del suo “fare penitenza”.

Ripeto: è una buona occasione perché, anziché inseguire il “votum sacramenti”, ci si ponga direttamente nel percorso penitenziale, al quale è chiamato il semplice battezzato. La grande verità che possiamo riscoprire, paradossalmente grazie al virus, è che la via ordinaria del perdono non è il sacramento della penitenza, ma il fare penitenza dei battezzati.

Ed è vero: molte volte è stato ribadito dal Magistero come i peccati gravi siano materia necessaria di confessione sacramentale, mentre non lo sono i peccati veniali, i quali pure possono essere utilmente accusati in confessione per invocare maggiore grazia, ma che vengono ordinariamente cancellati con «i sacramentali, le opere di carità o di mortificazione». Insomma, con la penitenza. Come Grillo non intende correggere Tremolada o aggiungervi qualcosa, così (tanto meno) io ardirei fare con entrambi, che anzi mi pare utile giustapporre a conclusione di questa digressione. Sottolineerei semmai l’utilità della Liturgia delle Ore, evocata dal teologo: se c’è una cosa che nelle nostre giornate frenetiche lamentiamo – la difficoltà di scandire spiritualmente le nostre vorticose tabelle di marcia – la Liturgia delle Ore è precisamente quanto di meglio si possa trovare per disciplinare il proprio tempo e lasciare che la Parola ci trasformi. La clausura coatta in cui volenti o nolenti ci troviamo a stare potrà rivelarsi in questo una preziosa alleata.

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