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Ricordiamoci che nessuno può morire da solo

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Paola Belletti - pubblicato il 16/03/20
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Questa è la notizia che sta montando come una seconda onda di piena, dalle regioni investite per prime dal coronavirus. E’ un dolore che si aggiunge agli altri e sembra quasi il più ingiusto. Lo patiscono tutti, medici e infermieri per primi. Pazienti isolati che muoiono senza i propri cari vicini. Si supplisce come si può, ma noi cristiani ricordiamo a tutti che, in fondo, nessuno muore da solo. E preghiamo per le persone spaventate, preghiamo che siano pronte e se non lo saranno intercediamo per loro.La morte come espressione suprema di desolazione, solitudine, come esperienza di isolamento radicale. La morte come l’imperatrice dai pieni poteri che ci tiranneggia sulle lande sterminate della paura; la morte come ingiusta taglia teste, separa famiglie per capriccio, distributrice di pianto.

La morte, ora, anche ora che si muore per tutto il resto e in più, tanti in più, per infezione da coronavirus, infligge se stessa a chi ci è vicino, a chi continueremo ad amare; ci porta via (ma dove?) chi è parte di noi e invita, quasi ci persuade, alla pazzia. Non lo vedrai più coi tuoi occhi, ti è tolto. L’esperienza anche solo immaginata del morire noi, ma quasi di più della morte di chi amiamo, fa spavento, inietta angoscia, storce visceri, chiude gli stomaci, riempie la gola di magoni grossi come sassi.


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Lo dico tremando, per chi amo, per i miei cari più fragili, per i parenti, gli amici, per le facce che voglio rivedere. Ho paura, salto ad ogni telefonata, lo ammetto ma parto già un po’ansiosa. Ogni giorno si sta svelando per quello che è, finalmente: un dono, tutta grazia.

L’emergenza sanitaria in crescita, ancora non sembra raggiunto l’atteso e temuto picco, ora si trasforma in affollamento negli obitori, in processioni di carri funebri, in forni crematori che lavorano h24. Lo scopro dai TG, ma sento anche da casa diverse ambulanze che passano. E mi raggiungono notizie dalla cerchia di amici e conoscenti.

I racconti che ci arrivano da là, da dentro gli ospedali in cui tanti pazienti si sottraggono loro malgrado all’hashtag andrà tutto bene, fotografano con orrore le morti private della consolazione dei propri cari, della vicinanza di figli, nipoti, speriamo non genitori, almeno. Supplita dove si riesce da video chiamate, è una mancanza sofferta dai medici stessi, dagli infermieri che si ingegnano come possono. Fa impressione accostare queste cose tanto smart, cool, high tech all’agonia, al respiro che viene meno, alla durezza della morte, indifferente all’evoluzione dei mezzi di cui disponiamo.

Morire soli, di questo si parla.

Soli si intende senza volti familiari, affetti significativi vicini perché sono solitudini che si affollano in corsie attraversate da passi veloci, in corridoi diventati reparto, in ex lavanderie adattate a degenza. Soli significa senza presenze cariche di senso, senza qualcuno che ci ricordi, in extremis, che siamo qualcuno almeno per qualcuno.

E’ un altro effetto ed è tra i più tragici di questa invasione nemica che ci sta fiaccando, soprattutto al nord, soprattutto qua, nelle province di Bergamo e Brescia, ma non solo. E’ una trista gara, quella a chi soffre di più e non vince nessuno. E poiché il contagio continua a crescere anche se non più in maniera esponenziale – grazie alle misure che ci costano grandi sacrifici- tanti sono i povericristi che muoiono senza arrivare in ospedale, o respinti da ospedali che non possono più accogliere nessuno. Così, almeno, è successo a Fidenza, all’ospedale Fidenza – Vaio. Il sindaco che lo racconta e prima di lui il medico che parla dietro la mascherina, sono attraversati da un dolore e da un’impotenza che non avrebbero voluto sperimentare. Famiglie intere che si ammalano, lutti che si sommano, e nessuno intorno per aiutarci ad attraversare questo dolore. L’ho sentito anche da una dottoressa del San Carlo e da una del San Matteo, Milano e Pavia. E’ una teoria di testimoni, che ci consegnano dai microfoni racconti di guerra.



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Ma alla radice, cosa, come siamo davvero?

Azzarderò ora, solo perché parlo usando parole che Qualcuno ha già pagate.

Siamo proprio soli, ci ritroviamo davvero in una desolazione assoluta in punto di morte?

Nasciamo in relazione, usciamo alla luce lottando, e la battaglia tra separazione e intimità, simbiosi e autonomia si fa sempre più serrata; ma l’altalena non si ferma mai, siamo sempre in volo da una solitudine a una compagnia, dalla separazione all’unione, dalla libertà all’abbraccio.

Siamo questo, e lo siamo nella radice nostra più profonda. Io sono Tu che mi fai: mi torna in mente spesso questa espressione che Don Giussani usava tanto, con un’insistenza sospetta. Le tracce di questo schema ci sono ovunque. Tutta la nostra vita balbetta, suggerisce questo legame profondo, indistruttibile. Tutto ci dice che, in fondo, soli non lo saremo mai. Per questo essere privati delle relazioni fondamentali, restare poveri di affetto, vedersi strappare qualcuno che ci ama o dovrebbe amarci lascia ferite aperte come squarci. Perché sembra negare quello che ci fa sentire noi stessi, quello che nell’intimo ci costituisce, la relazione d’amore.

Al momento della morte sono certa che nessuno, nessuno sarà mai davvero solo, forse non lo sa e ci si avvicina spaventato fino al panico, si dispera fino a che può dare voce all’angoscia. Ma quando la coscienza si sposta altrove, dietro le quinte del mondo visibile e il microfono ci è tolto, sono certa che saremo tutti sorpresi da una presenza, da una compagnia inaudita.

Presenza di noi a noi stessi e finalmente rivelati nel nostro tessuto più intimo e strutturale, svelamento della relazione con l’Essere, della prossimità con l’Amore.

Le maiuscole servono per dire che è qualcosa di alto e di altro, che trascende e lo fa d’imperio, lo farà per tutti, anche per gli atei. Ognuno in quel momento scoprirà di che pasta è fatto: relazione, con chi ama in terra e magari non gli è concesso salutare ( questa mutilazione offende tutti), ma soprattutto con Dio che lo vuole da sempre, e col proprio Angelo che lo ha seguito per condurlo proprio lì, proprio in punto morte, proprio forse all’ultimo istante in cui ci sarà possibile rispondere, “sì, anch’io ti amo!” E anche “perdonami”! E “grazie”. Fino all’ultimo respiro che per tanti ora fa male come un’ustione, che brucia e non sazia la fame d’aria. Ho visto mio zio agonizzare così, era uno degli ultimi giorni. La pena che si prova è grande da togliere il fiato anche a chi può respirare; ma quello che accade ora è peggio, perché manca proprio quella corda tesa di sguardi tra chi sta per morire e chi resta.

Non è un tana libera tutti, nessuno sconto comitiva, non si tratta di un flaccido lieto fine. E’ rispetto per la libertà della creatura umana e per la fantasia di Dio che ci perseguita fino all’ultimo istante con la Sua Misericordia. Saremo liberi davvero, anche di resisterGli.

Ecco forse, tra le tante cose che questa emergenza diffusa comporta, c’è anche quella di essere un macroscopico avvertimento, un grande memento mori, un invito a prepararsi per tutti.

E abbatte in un solo colpo quella moda tanto diffusa quanto insensata di non avvisare il morente, di non informarlo che si sta avviando al traguardo finale, per non spaventarlo. Dobbiamo, invece, essere pronti, o provare ad esserlo. Non va più tanto di moda immedesimarsi con il momento del trapasso, impazza il gusto dell’horror che è proprio di chi di fronte alla morte non sa starci da uomo o non ha nemmeno il sospetto che si possa vincerla con il Risorto.


CRUCIFIXED
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Ma ora, più che in altri momenti, non c’è scappatoia. Il promemoria è troppo insistente. E anche per chi non trovasse il tempo e la lucidità per prepararsi, per chiedere la confessione, per ricordarsi che cosa sia un atto di contrizione perfetto e provare ad agirlo, anche tutti gli impreparati, gli sconsiderati, gli increduli, tutti, sono sicura avranno un’ultima occasione e sarà proprio perché si scopriranno non abbandonati, non lasciati soli.

Nessuno, ne sono sicura, muore davvero solo. Maria, la Vergine potente, si prepara da secoli all’appuntamento decisivo, il presente e quell’ora. Avrà almeno un’Ave Maria detta all’asilo da impugnare a nostro favore; la troveremo pronta, non c’è da temere. L’avranno trovata sollecita i tanti che sono già spirati. Non lo avranno fatto in faccia al nulla, ma nell’incavo del Suo braccio.

San Giuseppe è il primo eroe della morte come si deve, quella buona, perché è il primo da quando i tempi sono pieni: è potuto morire con Gesù e Maria vicini, è il capofila di un esercito di moribondi felici, sofferenti e non disperati. E anche Lui ci sarà, ci sarà stato. Lui, terrore dei demoni.

E chissà quali santi verranno a garantirci il corridoio di sicurezza per la traversata da questa zona di guerra alla nostra patria, alla casa che ci aspetta pure se non eravamo tanto sicuri che ci fosse. Qualcuno che ci ha inseguito furtivo per la vita intera, santi sconosciuti o santi blasonati, santi grandissimi che in terra ignoriamo, santi assassini, convertiti alla fine, santi che ci assomigliano, ce ne accorgeremo.

Preghiamo per tutti gli agonizzanti, per i morti, per gli anziani, i giovani, gli adulti come noi, per quelli che due giorni prima nemmeno se lo aspettavano e si sono trovati al passo decisivo vestiti male, spettinati, disordinati ma che alla fine, davvero, non saranno soli.

Preghiamo più che possiamo per queste persone, per tutti quelli che li amano, per chi subirà strappi così brutali che gli servirà la vita restante per rimettersi in sesto. Preghiamo per i tanti sacerdoti che vorrebbero consolare, che vorrebbero celebrare i funerali e sanno di non poterlo fare e ne capiscono i motivi. Preghiamo per i tanti sacerdoti deceduti, per le loro anime così benefiche per le nostre. Adottiamo con i nostri requiem le anime più abbandonate, offriamo la prima messa alla quale potremo partecipare per loro, inanelliamo Rosari con tutta la pietà di cui siamo capaci.

Nessuno muore da solo.

 

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