Nella buona e nella cattiva sorte: ci sarò, fosse anche solo come un’impronta che sbiadisce sul vetro della finestra che ci separa. Anziani, vulnerabili, ma guidati dalla stessa forza che li accompagna da 60 anni di matrimonio: l’amore l’uno per l’altra.Un vetro. Quante volte siamo noi a chiuderlo, quel vetro. Come fosse il finestrino automatico della macchina o quello di una finestra del cuore. Quante volte lo alziamo per rabbia, per paura di darla vinta, di chiedere scusa, di perdere la nostra forza o solo perché non abbiamo voglia, la giornata è stata piena, siamo stanchi, vogliamo silenziare un po’ l’altro, i problemi, le richieste. Semplicemente non ci va. Tanto, lui o lei è sempre lì e quel finestrino possiamo abbassarlo quando vogliamo. Quel vetro che ogni tanto si appanna, ovatta i suoni, ci impedisce di vedere bene chi c’è dall’altra parte. Quante volte nella vita di coppia, sbattiamo egoisticamente le finestre dell’anima. E se per una volta quella finestra fosse sigillata davvero? Se volessimo tanto alzarlo, il finestrino, ma proprio ora non potessimo farlo e ci trovassimo a rimpiangere tutte quelle volte che avevamo la finestra aperta e non ce la siamo goduta? Che abbiamo fatto entrare pioggia invece che sole? A questo ho pensato, quando ho visto lo sguardo riflesso di Gene e Dorothy, sul vetro dell’infisso della Reuters Life Care Center di Kirkland, negli Stati Uniti.
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Uno scatto commovente e denso, che sta facendo il giro del web e ci porta, ancora una volta in questi giorni, alla nostalgia per la normalità: quella che abbiamo tutti sentito di aver sottovalutato, quella che manca davvero, ma adesso non possiamo aprire quella finestra con un semplice “scusa”, “hai ragione”, con un bacio, una carezza, una mano stretta. Perché il calore umano, quello che solo la vicinanza fisica può trasmettere, risolve tutto molto più in fretta: tanti non detti, le parole che non riesci a mettere insieme, il conforto che solo il contatto può dare.
Un vetro a separare sessanta anni di amore
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L’isolamento da Coronavirus che impedisce il contatto: lui, ottantanove anni, in quarantena, indossa un camice, seduto sulla sedia, lei, la moglie di ottantotto, non rinuncia ad andare a trovarlo, pur sorreggendosi a fatica col bastone, dall’altro lato della finestra.
La casa di cura di Kirkland è diventata, suo malgrado, epicentro del Covid-19,
si legge sull’Huffinghton Post.
Qui sono state registrate sei delle dodici morti statunitensi. I pazienti sono stati per questo motivo messi in quarantena all’interno della struttura. Ai parenti non viene permesso di visitare i loro cari.
Ma l’amore si accontenta di esserci. E a Dorothy e Gene restano gli sguardi e le parole che si fanno ovattate e lontane, ma non per questo, meno piene di un amore che buca lo schermo e i nostri cuori lasciati un po’ più asettici da barattoli di Amuchina, paura e diffidenza verso chi ci circonda. Poggia le mani sulla finestra, Dorothy e posso solo immaginare quanto vorrebbe sentire il calore di quelle di suo marito, invece che il freddo sterile di quel vetro. Poggia le mani per lasciare un’impronta, che ricordi a Gene che non è solo, che lei gli resta accanto, in quella cattiva sorte che arriva per tutti i matrimoni. Oggi, che il Coronavirus con le doverose prassi di sicurezza e il dilagare del sospetto ha fatto saltare l’amore da consumo, facile e senza troppi pensieri, da dating online (leggevo proprio su La Stampa, della preoccupazione dei portali di appuntamenti, di cui l’Italia, secondo il Center for Economics and Business Research è utilizzatore leader con 8,9 milioni di utenti), trionfa l’amore vero.
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Questi due anziani, i deboli, che le previsioni di questo contagio vogliono più vulnerabili, mostrano una grandissima forza e ci ricordano quale sia il segreto di sessanta anni insieme nonostante la vita ti divida spesso nel peggiore dei modi: quanti vetri li avranno allontanati in un matrimonio così lungo? Battibecchi, litigi, incomprensioni, anniversari dimenticati, ritardi, figli non presi a scuola. Eppure, davanti a quei vetri, il segreto è restare, provare a non vedere solo il proprio riflesso, ma guardare all’altro che chiede aiuto, comprensione, ascolto e l’impronta di una mano che gli ricordi di non essere solo.