Ormai è deceduto da più di 20 anni, ma dal Cielo e per mezzo dell’opera che i suoi genitori hanno realizzato in suo onore, continua ad essere sorgente di speranza e beneficio per tanti. La scultura sulla sua tomba non è icona a un dolore inconsolabile, ma espressione di una certezza: ora tu sei libero!Questa storia, nella sua semplicità, l’avevo già incontrata e la custodivo come un ricordo familiare, sebbene sapessi fosse di dominio pubblico e planetario. Me l’aveva raccontata proprio mio marito, ma non per riferire di dolori altrui, di dettagli commoventi, di prove ancora più dure di quelle che toccano a noi. Era semplicemente per informarmi che aveva affidato il nostro piccolo alla protezione di questo altro bimbo, già approdato nell’altrove che tutti ci attira.
Siamo sicuri di compiere un azzardo che non è per nulla pericoloso se ci immaginiamo questo bambino tra i santi, tra quelli, innumerabili, che la Chiesa nemmeno fa in tempo a passare al vaglio (la dico in maniera iperbolica, volutamente colloquiale. La Chiesa è corpo di Cristo ed è Lui che la guida). Ma a loro che può importare, se sono dove finalmente ogni dolore è consolato, ogni lacrima guardata con venerazione prima di essere asciugata e la gioia più impensabile ripara, supera, giustifica ogni sofferenza passata qua, giuso intra i mortali?
La sofferenza da parto e le gravi disabilità
Così deve essere stata la vita del piccolo Matthew Standford Robison, ferito proprio alla nascita. Il parto è un momento sacro, imponente e intimo, diviso da una soglia sottile tra lo spirituale e il corporeo più sanguigno; e per questo è anche carico di rischi. Siamo in pericolo di vita, certo! e in pericolo di morte o già esposti alla stolida lotteria delle malattie e degli incidenti. Già prima, in verità.
Ricordate di quella bimba operata ancora in utero (e salvata!) per un tumore al collo?
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Ebbene proprio in questi giorni, in cui siamo più o meno volentieri tutti costretti all’essenziale e a fatiche domestiche che di solito inanelliamo di fretta insieme a mille altri impegni, sono tornata ad imbattermi in questa storia, che non è solo del piccolo sofferente, ma di tutta la sua famiglia e via via per cerchi sonori che si allargano, agli altri che lo amavano da vivo e i tanti, come noi, che ne conoscono la storia ora che è più vivo ancora. Benché assente alla vista. E’ un’onda di speranza e nostalgia quella che ci investe, guardando il suo viso, non solo la splendida scultura. Ed è speranza vera, di quella che i limiti li accetta, vi si rassegna ma volitivamente; una rassegnazione attiva e carica di desiderio. Che sa di dover accettare una traversata più dura e anche più dolce (ma questo resta spesso un segreto, custodito per la sua struggente bellezza, difficile da comunicare, nel timore che si disfaccia nell’incomprensione di chi ancora non sa, non prova, non capisce).
Matthew Stanford Robinson è un bambino nato nel 1988 a Salt Lake City, nello Utah, che poiché al momento della nascita ha sofferto di mancanza di ossigeno ed altre complicazioni, ha dovuto convivere con diverse disabilità: era cieco, quasi totalmente paralizzato, diceva solo poche parole ma, nonostante ciò, è riuscito a toccare molte vite, grazie alla sua vitalità e al suo modo di comunicare con i segni. Mentre i medici alla nascita gli avevano dato solo poche ore, Matthew ha vissuto per quasi 11 anni, e questi anni hanno rappresentato per i suoi genitori il più bel regalo che potessero ricevere, date le scarse speranze ricevute. (Universomamma)
La scultura sulla tomba di Matthew
Il padre Ernest e la cugina Susan, nel 2000, per rendere la tomba di Matthew un posto di gioia hanno deciso di costruire una toccante scultura, per ricordare il coraggio del giovane ragazzo. La statua rappresenta il bambino nell’atto di alzarsi dalla sua sedia a rotelle, guarito da tutti i dolori terreni e libero finalmente di andare verso il cielo. (Alicanthe)
Siamo nel cimitero di Salt Lake City e sono tante le persone che portano omaggi sulla sua tomba o che sul web lo ricordano con pagine commemorative, con immagini e preghiere.
Eppure già in questa vita, così carica di angustie e per lui in doppia o tripla porzione, Matthew era lieto e diffondeva amore, gioia e pace. Qual era il suo segreto? Amava soffrire, questo bambino così sfortunato? No, non è questo. La sua forza stava tutta nelle relazioni: con mamma e papà, con i parenti, ma soprattutto con Dio e il Figlio Suo che è nostro unico Salvatore. Per Mattew era l’Amico.
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Dal necrologio scritto dal papà:
Domenica 21 febbraio 1999, pacificamente nel sonno, il nostro amato figlio, fratello e amico, Mattew Stanford Robison, è stato ricevuto in uno stato di felicità, ed ha iniziato il suo riposo dai problemi, dalle preoccupazioni e dai dolori fra le braccia del suo Salvatore e amico Gesù Cristo. Matthew era una gioia e un’ispirazione per tutti coloro che ebbero il privilegio di conoscerlo. Era una testimonianza della divinità suprema dell’anima, l’incarnazione della completezza che il nostro spirito brama. La pietà della sua anima ispirata ha influenzato e benedetto tutti coloro che lo conoscevano. Egli è venuto in questo mondo come un miracolo e ha lasciato questo mondo come un miracolo. (…)
E poi avverrà che gli spiriti di coloro che sono giusti sono accolti in uno stato di felicità, che è chiamato paradiso (…).
Ecco, gli scherzi che fa la vera speranza, quella che spera contro ogni speranza e dà ragioni di sé, al mondo che magari continua lo stesso per la sua strada.
E fa anche questo, il paradosso di morte e resurrezione che in Cristo e nei suoi continuamente si compie: costruisce, genera, fa fiorire croci, dona sollievo a quanti più fratelli riesce a raggiungere.
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Per questo i coniugi Robison, pur piangendo il loro amato bambino, hanno deciso di creare la Ability Found, di cui il papà Ernest è presidente, per aiutare le tante persone disabili lasciate languire per mancanza di ausili e di fondi per procurarseli. Tutta quella ricchezza che avevano sperimentato con il loro Mattew non poteva andare dispersa.
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