Da una laurea a pieni voti in architettura alla clausura. Abbiamo intervistato una giovane donna che ha scommesso tutto sull’appartenenza a Cristo: “Mi libera, posso non ridurmi a quello che il mondo vuole che io sia e sono continuamente strappata da quello che io, da sola, posso immaginare per me”.Chiara Pieri è una giovane forlivese che lo scorso 8 dicembre, proprio nel giorno dell’Immacolata, ha fatto la professione solenne nell’Ordine Cirstercense della Stretta Osservanza (Trappiste) nel Monastero di Valserena (Pisa). Ha detto sì a una vocazione di clausura e preghiera, verificata mentre le si prospettava un percorso di vita molto promettente in ambito professionale. A un giornale locale il padre di Chiara racconta: «Nel 2009 Chiara si laurea in architettura col massimo dei voti al Politecnico di Milano. Per scrivere la tesi era stata 4 mesi a Ramallah, in Palestina, dove ha elaborato un progetto di distribuzione dell’acqua a servizio del monastero trappista esistente in loco» (da Forlì Today). Lì, evidentemente, la sua sete di felicità ha incontrato un’acqua dal sapore eterno.
Nel 2014 Chiara dichiara apertamente di voler verificare la sua vocazione a consacrarsi a una vita monastica contemplativa e dopo 5 anni di discernimento ha preso i voti lo scorso dicembre per il definitivo ingresso nella clausura del Monastero di Valserena. In Toscana, sulle colline sopra Cecina questo luogo di preghiera si fonda sulla proposta originale e geniale dell’ordine cistercense: “Una vita consacrata a Dio, nell’unione fraterna, nella solitudine, nel silenzio, nella preghiera, nel lavoro, in una disciplina di vita” (dalla Regola di San Benedetto). Dalla preghiera e dal nascondimento di queste suore nascono anche prodotti artigianali di grande qualità, tra cui creme e profumi: a testimonianza dell’unità di corpo e spirito e della collaborazione che Dio chiede alla mani dell’uomo per lavorare alla Sua Creazione.
Abbiamo intervistato Chiara, perché ci raccontasse la sua storia e la scelta su cui ha scommesso tutto di se stessa.
Cara Chiara, ti ringraziamo molto di esserti sottratta al silenzio della tua giornata per rispondere a qualche domanda per noi di Aleteia For Her. Chi sei oggi?
Credo di poter dire che sono una giovane donna che vive la sua appartenenza a Cristo nella vita monastica. Detto in altre parole, sono una che scoprendosi amata da sempre, desidera vivere oggi in questo amore.
Forse, però, «chi sei?» è una domanda che deve rimanere aperta in noi fino all’ultimo istante di vita. Allora aggiungo: come è stato il viaggio del tuo «chi sei?» fino ad ora? Su quali desideri hai investito? Cosa ti ha deluso e cosa no lungo la strada?
Sì è vero, questa domanda è in qualche modo inesauribile ed esige una risposta continua e non banale. Allo stesso tempo mi viene da dire che io non posso più pensare la mia identità fuori da questa appartenenza. Ci vorrà tutta la vita per imparare a viverla e c’è anche il rischio che io possa tradirla, però è qualcosa di definitivo, nel senso che comunque definisce la mia persona. Essere cosciente di questo al fondo mi libera e mi rilancia continuamente: posso non ridurmi a quello che il mondo vuole che io sia e sono continuamente strappata da quello che io, da sola, posso immaginare per me.
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Sono stata innanzitutto figlia di una famiglia che viveva la fede, forse in modo semplice, ma comunque deciso. Non che mio padre e mia madre facessero cose eccezionali, però era chiaro che la vita andava spesa per qualcosa di grande e che non bisognasse accontentarsi troppo facilmente. Fin da piccola ero convinta che Dio pensasse per ciascuno qualcosa di bellissimo. Mi risuonava nel cuore la domanda: Tu cosa vuoi da me? Pian piano quello che avevo ricevuto gratuitamente è diventato cosciente in me, specialmente negli ultimi anni del liceo e all’università la fede vissuta come rapporto con Cristo presente ha iniziato a incidere sulle scelte da fare, sulle amicizie che vivevo. Sono accadute tante cose… Volevo essere felice, volevo un amore vero e per sempre, volevo andare incontro agli altri, volevo essere me stessa. Poi a un certo punto, pur seguendo questi desideri e facendo ciò che mi sembrava che il Signore mi chiedesse, quello che vivevo non mi bastava più, c’era qualcosa che non tornava, come una ferita aperta che non riesce a guarire. Lì per me è accaduto l’incontro con Valserena e ho iniziato seriamente ad aprirmi alla possibilità che Dio volesse per me qualcosa che io non avevo mai preso in considerazione. Non che è avessi il desiderio di farmi suora, non conoscevo cosa fosse la vita monastica. Ho intuito che qui potevo vivere sotto lo sguardo di Qualcuno che mi amava, e questo coinvolgeva tutto di me nel desiderio di piacerGli. Le uniche vere delusioni ci sono state quando ho vissuto per meno di quello che il cuore cercava, quando in qualche modo ho tradito (o ho visto tradire) la verità che avevo sperimentato. Anche queste esperienze però mi hanno fatto fare un passo, mi hanno in qualche modo costretto a rinnovare il desiderio, a rimettere in moto la libertà.
Eri architetto, sei suora. Sarebbe scontato dire che hai cambiato radicalmente vita. Tu come lo vivi? Come un cambiamento, o come il sentiero di una chiamata che si approfondisce, oppure…
Lo vivo come una continuità. La fedeltà di Dio rimane salda pur nel mutare delle circostanze e io sono ancora io. Guardando indietro riconosco che il Signore si è servito degli avvenimenti e degli incontri per portarmi qua, si è servito di tutto: di ciò che mi attirava ma anche dei miei limiti. Allo stesso modo continua a tessere i fili di questa storia che non è ancora finita. È ingiusto sottolineare solo quello che ho lasciato, perché se non avessi intuito che il Signore voleva darmi di più, non avrei mai potuto chiedere di entrare in monastero.
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La tua famiglia, i tuoi amici. Che tipo di compagnia sono stati dentro il tuo percorso umano?
La mia famiglia direi che per me che è stata una casa. Uno si lancia nell’avventura della vita se ha un luogo a cui poter sempre ritornare. Non intendo tanto uno spazio fisico, quanto piuttosto un legame che ti dà fiducia e a cui tu sai di dover rispondere, rendere conto. È un luogo di libertà e insieme di responsabilità. L’amicizia è stato l’alveo della mia crescita nella fede, vivere veramente l’amicizia ha coinciso con l’essere parte della Chiesa. L’amico per me è qualcuno a cui guardare, qualcuno la cui vita mi richiama la bellezza per cui sono fatta, qualcuno che sostiene il mio desiderio e porta con me le fatiche, qualcuno che mi fa scoprire me stessa, errori e difetti compresi. Accettare di seguire Cristo è stata come la conseguenza ragionevole della verità che questa amicizia mi aveva fatto gustare.
Anche la solitudine è nostra compagna? Oggi si tende a demonizzarla, sovrapponendola senza distinzioni al vuoto che è l’isolamento. Abbiamo invece bisogno di momenti di intimità con noi stessi? Come anche il silenzio può essere un’occasione per il nostro io?
La solitudine per me è positiva se la si vive come lo spazio in cui recuperare il rapporto che sostiene e riempie di significato tutta la vita. In questo senso è bene, anche in mezzo alla folla, scoprirsi soli, e accorgersi che in noi c’è un anelito profondissimo alla comunione. Per chi non conosce Dio è forse più difficile sperimentare una solitudine “buona”, libera cioè dall’ansia di dover riempire quello che sembra un vuoto. Spesso ci si attacca a tutto in modo egoistico, si usano le cose e le persone senza lasciare loro lo spazio necessario per essere contemplate nella loro vera bellezza. La solitudine non è un ripiegamento su di sé, non è una pretesa di autonomia, ma la possibilità di scoprirsi dipendenti da Dio, fatti continuamente da Lui e, a partire da questo rapporto fondamentale, desiderare di vivere la verità dell’essere insieme ad altri, cioè la carità. Appena si comincia a fare silenzio, ci si scopre pieni di rumore. Nel silenzio si è molto più presenti a se stessi, quello che ci colpisce si amplifica. Il lavoro da fare è mettere sotto lo sguardo di Dio tutto quello che ci abita. Benedetto nella sua Regola parla di taciturnitas, fare silenzio allora è lasciar parlare l’Altro, è mettersi in ascolto. Il silenzio custodisce la memoria di Dio, e così ogni gesto nella giornata più facilmente diventa preghiera e offerta. Avere cura del silenzio concretamente è anche evitare di lasciarsi prendere dalle reazioni istintive e dai lamenti inutili, dal silenzio può nascere una parola che unisce e non divide. Nel silenzio ti accorgi che l’altro che ti è accanto sta rispondendo a Dio e vive del rapporto con Lui.
Che rapporto quotidiano hai con la preghiera?
Qui tutta la giornata è ritmata della preghiera. A partire dalle Vigilie quando è ancora buio, fino a Compieta prima di andare a letto, suona la campana e si va in chiesa. Obbedire a questo richiamo continuo per me significa lasciarmi rimettere nella giusta posizione di fronte a Dio, alle persone che ho accanto, al lavoro che mi è chiesto. Direi che è come un raddrizzamento dello sguardo. La nostra preghiera è prima di tutto intessuta delle parole dei salmi. Le parole con cui pregare è Dio stesso che ce le dà, non c’è bisogno di inventarsi niente. Nel tempo queste parole per me acquistano sempre più spessore, si riempiono di significato. Fa impressione pensare che quelle stesse parole le pronunciava Gesù, e che in Gesù quelle parole si sono compiute, si sono per così dire “illuminate”. Prima non pregavo molto ed ero un po’ spaventata che Dio mi chiamasse a una vita così, poi ho intravisto che la preghiera è entrare nel mistero di questo rapporto che Cristo aveva con il Padre, è come il luogo per apprendere la nostra dipendenza di creature. I salmi racchiudono tutta l’esperienza dell’uomo, quindi per me sono anche un modo per imparare a conoscermi, per dare un nome a quello che mi passa nel cuore. La preghiera è anche la nostra modalità di compagnia e vicinanza a tutto il mondo, ringraziamo e domandiamo per tutti, lasciando fare a Dio. Quando sono stanca o senza voglia, mi aiuta offrire quel gesto e quelle parole per qualcuno.
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Ti pongo l’obiezione classica. Non senti ti perdere molto, restando «chiusa» in monastero?
La cosa che più mi è costato “perdere” sono stati i rapporti. Si lascia il livello immediato, quotidiano dell’essere insieme a quelli con cui si è condiviso tanto, ma si sperimenta che nulla va perduto, tutto è ridonato ad un livello più profondo. Anzi, si scopre di più il valore di quello che si è vissuto e tutto questo in me continua a vivere. Ci si accorge anche che certe cose che ritenevamo fondamentali, non sono poi così indispensabili. Per esempio, non essere bombardati minuto per minuto da quello che sta succedendo nel mondo aiuta a guadagnare una profondità di giudizio sulla realtà. Rimanere attaccati al presente nella clausura monastica, cercando di non evadere altrove o di non rimandare a tempi migliori, costringe ad accorgersi di quanto già ci è donato e a ricominciare sempre, godendo della gioia di essere continuamente perdonati.
E a chi è «fuori» e ha apparentemente aperte tutte le strade della libertà, ma si sente escluso da una felicità autentica a cosa suggerisci di guardare, o cosa inviteresti ad ascoltare?
Suggerisco di guardare all’amicizia che è la Chiesa. Lì si può ascoltare la promessa di una felicità autentica e si può percorrere la via che Cristo ci ha aperto per raggiungerla. Suggerisco di guardare alla bellezza dei santi, quelli in cielo e a quelli ancora qui sulla terra, guardare a loro come testimonianza sicura che questa felicità è possibile. “Beati” in fondo vuol dire “felici”.
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Di cosa sei grata quotidianamente? Cosa ti costa fatica?
C’è molto per cui essere grata e io credo di non esserlo abbastanza. A fine giornata mi viene da ringraziare per le cose semplici che sono successe: per avere accanto queste sorelle, per aver fatto pace con qualcuno, per aver ascoltato una parola che mi ha colpito, per aver potuto scoprire qualcosa in più di me (specialmente dentro il mio peccato), per essere stata corretta, per essere stata aiutata nel lavoro, per aver potuto partecipare alla liturgia con il cuore meno distratto del solito… mi viene anche da ringraziare perché stanno nascendo i semi sparsi nell’orto, perché ho visto uno scoiattolo nel bosco o perché il mare era particolarmente blu. In fondo tutto c’entra con l’amore di Dio per me. Però la maggior parte delle volte do tutto per scontato, oppure pretendo di fare le cose di testa mia, qui allora comincia la fatica.