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Coronavirus: c’è rischio di trasmissione al bambino in gravidanza?

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Paola Belletti - pubblicato il 24/02/20
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Un primo studio, effettuato su nove donne affette dalla sindrome respiratoria acuta dovuta al Covid-19 e nella fase finale della gravidanza, ha mostrato che la trasmissione intrauterina non è avvenuta. Si tratta di un’indagine con dei limiti oggettivi per numero di casi e uniformità dell’età gestazionale delle donne, ma fa comunque ben sperare.Su The Lancet, rivista scientifica inglese con pubblicazione settimanale, è comparso uno studio cinese effettuato su un campione ridotto di donne incinte e affette dal virus COVIC-19. Lo scopo della ricerca era valutare la trasmissibilità dell’infezione in linea verticale, da madre a feto in gestazione.

 

Come è stata svolta l’indagine

Leggiamo direttamente dal sito della rivista medica:

Abbiamo effettuato una revisione retrospettiva delle cartelle cliniche di nove donne in gravidanza con polmonite COVID-19 ricoverate all’ospedale Zhongnan dell’Università di Wuhan dal 20 al 31 gennaio 2020. (…)
Le nove donne, tutte nell’ultimo trimestre di gravidanza, anzi ormai prossime al termine, tra la trentaseiesima e la trentanovesima settimana di gestazione, avevano contratto l’infezione in esame. Sottoposte a test previsti sono risultate positive alla sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2. Qualcuna per essere entrata in contatto con altri pazienti infetti, altre per aver frequentato ambienti a rischio, ovvero la vasta area urbana di Hankou, luogo in cui è stata rilevata per la prima volta l’epidemia.
Tutte e nove le donne in gravidanza con polmonite COVID-19 sono risultate positive alla sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2 (SARS-CoV-2) mediante RT-PCR quantitativa (qRT-PCR) su campioni del tratto respiratorio.
Questo studio è stato rivisto e approvato dal Comitato Etico Medico dell’Ospedale Zhongnan dell’Università di Wuhan (numero di approvazione 2020004). (The Lancet)
I ricercatori impegnati nell’indagine hanno esaminato le cartelle cliniche delle donne, i risultati degli esami di laboratorio e le scansioni toraciche. Per ogni donna è stato preso il tampone faringeo:
I campioni di tampone della gola materna sono stati raccolti e testati per SARS-CoV-2 con il kit raccomandato dal Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) (BioGerm, Shanghai, Cina), seguendo le linee guida dell’OMS per qRT-PCR.
Altri campioni biologici presi in esame sono stati il liquido amniotico, estratto per aspirazione al momento del parto (tutte le donne hanno subito taglio cesareo); campioni di sangue dal cordone ombelicale, tamponi dalla gola dei neonati e campioni di latte materno.
Le prove della trasmissione verticale sono state valutate testando la presenza di SARS-CoV-2 in questi campioni clinici. La raccolta dei campioni ha avuto esito positivo in sei casi (pazienti 2, 4–6, 8 e 9). Tra i tre pazienti da cui la raccolta del campione non ha avuto esito positivo, il paziente 1 è stato diagnosticato dopo taglio cesareo, quindi non è stato ottenuto alcun campione. (Ibidem)
Il gruppo di pazienti osservato è davvero esiguo, quindi. Cionondimeno i risultati ottenuti sono incoraggianti.
Perché solo tagli cesarei? Tra le pazienti c’era un caso di pre-eclampsia, in uno storia di cesarei già subiti e in un terzo sofferenza fetale, ma per tutte le donne l’opzione del parto chirurgico è stata motivata dall’intenzione di non esporre il bambino al passaggio per il canale del parto, poiché avrebbe potuto esporlo a maggiori rischi di contrarre l’infezione.
È importante sottolineare che l’incertezza sul rischio di trasmissione da madre a figlio intrapartum da parto vaginale era un altro motivo per eseguire il taglio cesareo. (…)

I nostri risultati mostrano che SARS-CoV-2 era negativo in tutti i campioni sopra, suggerendo che non si sono verificate infezioni fetali intrauterine a seguito di infezione da COVID-19 durante una fase avanzata della gravidanza. (Ibidem)

I limiti dell’indagine

Oltre all‘esiguità del campione e all’indagine retrospettiva c’è la circoscrizione dei campioni a donne che hanno contratto il virus nel terzo trimestre avanzato della gestazione.
La possibilità di trasmissione nel primo o nel secondo trimestre non può quindi affatto essere esclusa.
Sappiamo che questa diversità di comportamento degli agenti patogeni avviene già per infezioni come la rosolia, che nel primo trimestre è molto aggressiva arrivando ad infettare fino a oltre il 50% dei feti mentre nel secondo e terzo trimestre l’incidenza si riduce alla metà.

Il caso del neonato che ha contratto l’infezione

Il 6 febbraio 2020, un neonato nato da una donna incinta con polmonite COVID-19 è risultato positivo all’infezione da SARS-CoV-2 36 ore dopo la nascita. (Ibidem)
E’ senza dubbio un fatto da tenere in gran conto sebbene i campioni raccolti dalla mamma e dal neonato siano imprecisi o mancanti.
Secondo quanto riferito, la donna incinta aveva sviluppato la febbre per 8 ore ed era sospettata di avere una polmonite COVID-19 sulla base della sua tipica immagine TC del torace prima del ricovero; è stato successivamente eseguito un taglio cesareo di emergenza, seguito dalla conferma della polmonite COVID-19. Inoltre, il campione di tampone alla gola del neonato è stato raccolto circa 30 ore dopo la nascita, quindi non ha fornito prove dirette di infezione intrauterina. Inoltre, non sono stati condotti test diretti su campioni di tessuto intrauterino come liquido amniotico, sangue cordonale o placenta per confermare che l’infezione da COVID-19 nel neonato era dovuta alla trasmissione intrauterina. Perciò, non possiamo concludere se l’infezione COVID-19 intrauterina si sia verificata in questo caso particolare. (Ibidem)
Resta da chiarire quindi la diversa incidenza dell’infezione se contratta in altre fasi della gravidanza e se il parto vaginale possa aumentare sensibilmente il rischio di trasmissione al momento della nascita.
L’allerta deve restare alta e la ricerca proseguire su un campione più vasto e completo per poter acquisire una conoscenza più adeguata dei rischi di trasmissione verticale del virus da madre a figlio.
I risultati ottenuti da questa ristretta indagine sono comunque incoraggianti.
Per quanto riguarda l’incidenza della malattia in fascia pediatrica possiamo affermare con certezza che è l’età meno colpita.
 (…)i dati provenienti dalla Cina affermano che nessuna vittima tra le migliaia aveva sotto i 9 anni e che i bambini contagiati da 0 a 9 anni in Cina rappresentano solo lo 0,9% di tutti i malati. Per quanto riguarda la fascia 10-19 anni, la percentuale raggiunge l′1,2%. (vedi anche su HuffingtonPost)
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