Orgoglio e pregiudizio, certo, ma pure incoerenze e assurdità: lo sapevate che per secoli si sono tenuti regolari “processi agli animali”? Con tanto di giudice e avvocati, e sentenze ed esecuzioni! E sapete in cosa si sbagliano molti ecologisti odierni e altrettanti loro sprezzanti detrattori? Il recupero di una sana antropologia filosofica (e teologica) passa anche dall’“ethos” che impostiamo nel trattare gli altri viventi.
Una cosa che mi dispiace quando origlio le conversazioni di altri con le mie bambine (“origliare” non rende bene: diciamo che “monítoro”) è se capita che sfogliando insieme con loro libri sugli animali qualcuno commenti con “bleah” o con “che schifo!” l’immagine di un lombrico o le sezioni di un ragno: molte cose al mondo fanno schifo, ma di quante mi occorrono in mente (ingiustizie, guerre, stupri, malelingue…) tutte fanno capo a prodotti dell’attività umana e nessuna al creato in sé.
Contro il falso ambientalismo e il cattivo antropocentrismo
Fermi tutti: questo non è un discorso animalista, né ambientalista né (tantomeno – ma col cattivo ambientalismo in circolazione oggidì tocca ribadirlo – misantropico). Esistono certamente aberrazioni della natura – i terremoti, le mutazioni genetiche, le calamità agricole (le cavallette in un campo) e gli incidenti (un orso che uccide un passante) – ma tutto questo è terribile, formidabile, spaventoso, orribile… certo non schifoso: è la natura, e difatti le diciamo “aberrazioni fisiche” (dal greco physis). Quello che ci fa veramente schifo è in realtà sempre riportabile agli atti umani: mentire è una cosa schifosa, imbrogliare con la menzogna a fine di truffa è ancora più schifoso, circuire dolosamente un incapace a scopo di estorsione è ancora peggio – come si vede tutte le aggravanti sono relative ad atti umani.
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Le buone antropologie filosofiche sogliono distinguere tra “atti dell’uomo” e “atti umani”: i primi sono certamente compiuti dall’uomo ma non coinvolgono la libertà e la scelta (ad esempio respirare, urinare, defecare… ma anche pensare); i secondi (a cominciare da “cosa e come pensare”, passando per cosa mangiare, che uso fare delle facoltà psicofisiche e, soprattutto, che rapporto assumere rispetto all’altro e all’Altro) sono moralmente rilevanti. Tante sciocchezze pseudo-ambientaliste (in realtà cripto-misantropiche) in voga al giorno d’oggi si devono all’omissione di codesta distinzione, e quando tutto diventa mero “elemento antropico” si incolpano gli uomini di avere processi respiratori e digestivi e si sta implicitamente (neppure tanto) affermando che l’uomo sarebbe il cancro del mondo (laddove invece il mondo, in quanto mondo, neppure esisterebbe senza l’uomo – lo hanno detto i filosofi esistenzialisti, mica la Bibbia).
Il giudizio degli uomini sugli animali
Si potrebbe aprire una parentesi sulle fandonie normaliste che circolano sull’emergenza ambientale (curioso: negano che il mondo sia in pericolo gli stessi che del grido “la Chiesa brucia!” hanno fatto il loro core business…), ma sarebbe troppo lunga, mentre io vorrei spiegare perché mi dispiace che si instilli nelle mie figlie (le quali come tutte le bambine sono di per sé disposte allo stupore e all’incanto verso ogni cosa) il germe della paura e del disprezzo: non si tratta infatti di contrapporvi un sentimentalistico “ma poveri animali!”, bensì di reagire all’irrazionalismo con cui disprezziamo un verme (noi che dai vermi saremmo mangiati, se non avessimo inventato le casse zincate). Ma l’avete mai visto il sistema digestivo di un lombricus terrestris, che meraviglia? Una minuscola creaturina che neppure vediamo e che umilmente (proprio nell’humus!) occupa un posto importante nella nostra catena alimentare e nel nostro bioma! Viva i vermi, e verme chi disprezza i vermi!
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Detta così sembra un po’ eccessiva, ma la verità è che l’animale uomo non ha mai avuto una relazione univoca con gli altri membri del proprio regno: non si tratta della noiosa diatriba tra specisti e antispecisti, perché se gli antispecisti sono assurdi nei loro paralogismi una buona dose di irrazionalità si trova anche negli annali storici (ben prima che l’involuzione del genere umano ci proponesse gli antispecisti). Che dire dell’idea di processare un animale? A me sembra un’assurdità che una mente umana non dovrebbe poter concepire, e anche Tommaso d’Aquino la pensava così, ma il problema si pose (a lui come a me) perché invece la storia pullulava di processi agli animali.
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La povera Topsy…
Rimasi sorpreso e un filino scandalizzato quando venni a conoscere la storia di Topsy, l’elefante indiano giustiziato da Thomas Edison a Coney Island il 4 gennaio 1903: era una domenica pomeriggio durante le vacanze di Natale e la brava gente di New York (più di 1.500, stando alle cronache dell’epoca) pagò 25 centesimi di dollaro per assistere all’esecuzione capitale della bestia, rea di aver ucciso un guardiano ubriaco il quale (poverino) le aveva solo spento una sigaretta sulla proboscide (!).
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A Topsy avevano insegnato diversi numeri da circo, come andare in monopattino, eseguire capriole, alzarsi sulle zampe posteriori e ballare con un gonnellino. Ci sarebbero riusciti con una formica? Certo che no, perché (e qui sta la grande differenza tra “animali inferiori” e “animali superiori”) al di sotto del “salto ontologico” che c’è tra tutto il regno animale e l’homo sapiens – il quale solo «crea e informa il mondo» (Heidegger) – esiste una vasta gradazione di presenza di spirito per la quale il nudo istinto è progressivamente affiancato da un’anima sensitiva via via più forte… e perfino da un’anima “parzialmente intellettiva”. Anche in questo trovo conforto nel giudizio di sant’Alberto Magno e di san Tommaso d’Aquino: per il primo, infatti, gli animali superiori sarebbero talvolta capaci anche di deduzione, ma il limite del loro intelletto resterebbe che ogni segno (ad esempio il bastone o la carota) resterebbero dei meri segnali, e non dei simboli. Topsy insomma potè imparare a ballare, a forza di bastone e carota, ma non potè mai emozionarsi e commuoversi al pensiero della carota. L’Aquinate, che non a caso del Coloniense fu discepolo, affermò da parte sua che il limite degli animali superiori sarebbe nella non percezione degli elementi spirituali, cioè immateriali, come ad esempio quelli necessariamente implicati nel processo di astrazione sensibile: Topsy potè amare la carota e desiderarla, ogni volta che la vide, e simultaneamente temere e fuggire il bastone ogni volta che lo vide… ma non potè mai pensare in astratto al bastone e alla carota.
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Topsy fu definita “elefante cattivo” e – se pure non ebbe luogo un regolare processo – per coinvolgere emotivamente l’opinione pubblica a favore della soppressione che il circo Sea Lion Park aveva stabilito vennero messe in giro storie su una dozzina di vittime dell’elefante. Una decina di quelle storie risultarono pure fandonie già all’epoca, mentre in un’indagine condotta sul caso centodieci anni dopo da Michael Daly si appurò che Topsy uccise unicamente il guardiano ubriaco che la seviziava (e potè farlo non solo in quanto fisicamente più forte forte, ma perché etologicamente capace di imitare alcuni comportamenti a cui era esposta – anche quelli violenti).
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Edison approfittò della sorte segnata della bestia per proporre una prova alla sua teoria sui vantaggi della corrente elettrica continua (mentre Westinghouse proponeva che le linee venissero alimentate a corrente alternata): su Focus hanno titolato “Edison frigge un elefante per provare le sue tesi”, ma la verità è che (pur nell’ambiguità del caso) l’inventore propose un sistema d’uccisione che (in teoria) doveva risultare istantaneo, pratico e – si supponeva – indolore (o quasi). Fatto sta che quella domenica pomeriggio Topsy fu avvelenata e nel suo corpo fu passata per dieci minuti una scarica da 6.600 Volt, che la uccise sul colpo (dicono).
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…e i processi agli animali
In tutte le civiltà gli uomini hanno punito con la soppressione le bestie ree di omicidio, e la società mosaica non faceva certo eccezione. Leggiamo ancora nell’Esodo:
Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la morte, il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente.
Es 21,28
Certo il testo biblico non considera l’eventualità che il padrone del bue spenga una sigaretta nel naso del bue, così da provocarne una reazione potenzialmente omicida: quel che fa è piuttosto esorcizzare col massimo contrappasso possibile (il divieto di mangiare le carni indica che quell’uccisione avviene per pura giustizia, perciò non se ne può trarre altro utile) l’anomalia dell’animale domestico che uccide l’uomo. Per quanto possa suonare tribale, è un provvedimento comunque più umano di quello riservato a Topsy, perché è proprio per riguardo alla dignità umana e alla comune dignità animale che l’uomo biblico si proibisce di beneficiare in qualsiasi modo di un caso così oscuro.
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Certamente la storia è ricca di mille episodi in cui è avvenuto piuttosto il contrario: ci sono autori che riportano i casi-limite delle pecore condannate per aver sedotto i loro pecorari, i quali da parte loro mai e poi mai avrebbe pensato di unirsi carnalmente con le ovine (!); Michel Pastoreau ha raccolto una carrellata di exempla giuridici che vale la pena tenere in considerazione.
Una leggenda tarda, forse inventata da un autore protestante mirante a screditarlo, vuole che Barthélemy de Chasseneuz (1480-1541), magistrato borgognone più noto come Chassenée, nel 1517, si sia trovato coinvolto per ufficio nella difesa, di fronte al tribunale vescovile di Autun, dei topi che avevano invaso la città e i dintorni. L’arringa gli avrebbe meritato | «la fama di avvocato virtuoso ed abile». Nella sua opera, Chassenée non parla di questo caso ma, dopo averne ricordato qualche altro simile, reduce la lista dei principali “animali perniciosi” che nuocciono ai raccolti: ratti, topi, arvicole, punteruoli del grano, lumache, maggiolini, bruchi ed altri “parassiti”. Poi pone una serie di domande alle quali tenta di rispondere basandosi al tempo stesso sull’opinione delle autorità, sul costume e sulle decisioni già prese da alcuni tribunali. Alla questione se questi piccoli animali debbano essere citati in giudizio, risponde senza esitazione in senso affermativo. Occorre convocarli materialmente? Sì. In caso di non comparizione, li si può citare nella persona di un procuratore (avvocato) nominato d’ufficio? Sì. Qual è la giurisdizione competente? Il tribunale del vescovo. Si ha il diritto di ordinare a questi roditori ed insetti di lasciare il territorio dove esercitano i loro misfatti? Sì (nondimeno Chassenée riconosce che, per la maggior parte di essi, mangiare i prodotti dei raccolti è una attività “naturale”). Come procedere per venirne a capo? Attraverso l’esorcismo, l’anatema, la maledizione e persino la scomunica!
Michael Pastoreau, Medioevo simbolico, Roma-Bari 2007, 29-30
È incredibile quanto l’umanità che perde il contatto con la realtà e col buonsenso possa discettare di cose ridicole senza avvertire lo stimolo della risata (la quale lo distinguerebbe invece dai grandi primati!). E la rassegna prosegue:
Nel 1516, ad esempio, il vescovo di Troyes Jacques Raguier ordina agli hurebet (specie di cavallette) che hanno invaso le vigne della regione di Villenauxe, di lasciare la sua diocesi nel giro di sei giorni, sotto pena, se non lo faranno, di scomunica. Ne approfitta per ricordare al suo gregge di «astenersi da qualunque crimine e di pagare senza frode le decime abituali». Stessa minaccia nella diocesi di Valence nel 1543 contro le lumache, ed in quella di Grenoble nel 1585 contro i bruchi. In quest’ultimo caso, il giudice, prima di pronunciare la sentenza di scomunica, offre graziosamente ai bruchi di ritirarsi su un terreno incolto che verrebbe loro appositamente concesso. Fatica sprecata. Tuttavia, offerte simili verranno ancora fatte a certi insetti nel XVII e persino nel | XVIII secolo (ultimi esempi scoperti: a Pont-du-Château, in Alvernia, nel 1718, e nella regione di Besançon verso il 1735).
Ivi, 30-31
E sì che grandi dottori come Alberto e Tommaso si erano (ragionevolmente) detti contrari ai processi agli animali: nel momento in cui istituti nobili e gravi del genere umano citano in giudizio entità incapaci di dimensione morale non sono gli animali a ledere la dignità umana, ma gli stessi uomini.
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Ora, se il giudizio estetico (che si compie nel kantiano Tribunale della Ragione) ci vede più indulgenti nei confronti degli animali superiori che di quelli inferiori ciò si deve alla loro maggiore prossimità ontologica all’uomo, per il quale la bellezza è una sintesi di proporzioni ordinate e di affinità spirituali: il cane, il gatto, il cavallo, il delfino, ma anche la mucca, il toro, la gallina e i pulcini… li diciamo “belli” perché ravvisiamo in essi una personalità. Sulla cicala e sulla formica – malgrado i favolisti si siano adoperati per proiettarvi degli attributi personali – le nostre attenzioni non cadono spontaneamente, e se farfalle e coccinelle ci fanno simpatia ciò si deve ai loro colori brillanti e ancora di più all’aura benaugurale sbocciata attorno ad esse (e non attorno a falene e scarabei). E simili strane ambiguità le teniamo anche con gli animali appena superiori: possiamo prodigare mille cure a un criceto ma un banale topolino di campagna ci provoca ripulsa, e il piccione non desta neppure un centesimo dell’ammirato trasporto causato (sempre per ragioni letterarie e simboliche) dalla colomba, sua cugina, né ho ancora incontrato qualcuno che sia in pensiero per il destino eterno delle cimici (ma del proprio coniglio da compagnia sì). La ragione per cui gli animali debbono essere trattati con umanità non è che essi sarebbero equivalenti agli uomini (ci mancherebbe!), ma semmai che gli uomini adempiono il loro mandato arbitrale nell’ecosistema proprio (e solo) quando sono umani (il che non è dato dal semplice essere uomini).
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La bellezza degli insetti
«Guarda, tesoro, che bello scarafaggio! Che elegante millepiedi!»: chi di noi lo direbbe al proprio figlio? «Ma che c’entra?», mi si obietterà: «È perché non voglio vedere insetti e animaletti in casa, ché sono sintomo di sporcizia e latori di infezioni». Sta bene, igienizzare il proprio ambiente vitale primario è un utile costume sociale di quasi tutti gli animali: ma allora perché quando li trovi fuori casa o addirittura per strada li scacci o li schiacci? E se non arrivi a tanto, perché non ti chini a osservarne la compiuta perfezione, perfino accresciuta dalle minute proporzioni? Perché non ti emozioni attirando l’attenzione di tuo figlio su tanti piccoli capolavori che ci ronzano attorno (perfino le zanzare, fastidiose e anche pericolose, sono dei prodigi!)? Era il 386 e stava ormai superando le insidie date dalle false certezze del Manicheismo, e il giovane Agostino scriveva così principiando uno dei suoi scritti letterariamente più ambiziosi:
Ma chi è tanto cieco di mente da dubitare d’attribuire alla potenza e provvidenza divina la legge razionale che si verifica nel succedersi dei fenomeni indipendentemente dall’intenzione e dall’esecuzione umana? A meno delle seguenti ipotesi: o le membra di animali anche piccolissimi sono strutturate dal caso in dimensioni tanto proporzionate ed esatte; ovvero si ammette che deriva da un principio razionale ciò che non può esser prodotto dal caso; o infine noi oseremmo, per pregiudizi di vana filosofia, non attribuire all’occulta legge del divino potere l’ordine che ammiriamo in ogni essere nella successione di tutti i fenomeni naturali e indipendentemente dalla razionale produttività dell’uomo. Ma l’aporia sta appunto nel fatto che le membra della pulce sono disposte con mirabile distribuzione e frattanto la vita umana è travagliata e sconvolta dal succedersi d’innumerevoli crisi. Ma a questo proposito supponiamo che un tale abbia la vista tanto limitata che in un pavimento a mosaico il suo sguardo possa percepire soltanto le dimensioni di un quadratino per volta. Egli rimprovererebbe all’artista l’imperizia nell’opera d’ordinamento e composizione nella convinzione che le diverse pietruzze sono state maldisposte. Invece è proprio lui che non può cogliere e rappresentarsi in una visione d’insieme i pezzettini armonizzati in una riproduzione d’unitaria bellezza. La medesima condizione si verifica per le persone incolte. Incapaci di comprendere e riflettere sull’universale e armonico ordinamento delle cose, se qualche aspetto, che per la loro immaginazione è grande, li urta, pensano che nell’universo esiste una grande irrazionalità.
Agostino, L’Ordine I,1.2.
E nel secondo libro dell’opera, tornando ad affrontare la componente irrazionale della vita degli uomini, osservava:
Non avviene che se consideri a parte certi organi nel corpo degli animali, ti rifiuti quasi di guardarli? Tuttavia la legge naturale ha disposto che non manchino perché sono necessari, ma non ha permesso che apparissero di troppo perché non sono belli a vedersi. E queste parti deformi, occupando il posto competente, hanno lasciato il migliore alle parti più degne. Quale fenomeno più bello, quale spettacolo più conveniente alla vita in campagna fu per noi di quello della zuffa e della lotta dei galli? Ne abbiamo parlato nel primo libro. E che cosa abbiamo osservato di più avvilito della difformità del vinto? Ma per suo mezzo s’era ottenuta la perfetta armonia della zuffa stessa.
Ivi, II,4.12
Così il giovane pensatore che aveva appena sostituito le ambizioni sociali con quelle letterarie e che, pur disponendosi alla vita monastica, non aveva ancora vasta esperienza delle strambe anomalie degli umani. Quasi cinque lustri più tardi, invece (nel 408 o nel 409), predicando al suo popolo nella cattedrale di Ippona, la settimana dopo Pasqua, così l’ormai maturo pastore avrebbe raccolto il senso comune degli uomini a cui fanno “schifo” gli insetti e altre cose utilissime:
Gli organi interni, che Dio ha disposto fossero nascosti perché non venissimo disgustati dalla loro vista, quegli organi che chiamiamo interiora o intestini, a che cosa servono lo sanno molti fra la gente comune e molto meglio i medici. Orbene, ci sono certuni che, basandosi su argomentazioni filosofiche, ci dicono: Se avremo gli orecchi che ci serviranno per udire, gli occhi per vedere, la lingua per parlare, per qual motivo dovremo avere i denti se lassù non si mangia, la gola, lo stomaco, i polmoni, gli intestini per dove passa il cibo e si cambia adeguandosi alle esigenze del nostro fisico?
Id., S. 243, 3.3
E alla domanda proposta segue un’articolata risposta sul corpo risorto, nei cui meandri però non possiamo seguire Agostino – mentre c’interessa molto l’aspetto dedicato alle “cose schifose”:
È vero che adesso, se vediamo i nostri organi interni, proviamo un senso di ripulsa e non un trasporto affettivo; ma ciò dipende dal fatto che siamo degli incompetenti e non conosciamo le ragioni delle cose. Chi infatti conosce come le membra siano tra loro interdipendenti e secondo quali norme siano ordinate? A motivo di tutto questo si suole parlare – con un vocabolo preso dalla musica – di una armonia. Si parla così partendo dall’osservare una cetra, dove notiamo che le corde sono più o meno tirate. Se tutte le corde suonassero allo stesso modo non ci sarebbe alcuna melodia; ma, siccome le corde sono tirate in maniera diversa l’una dall’altra, ecco venir fuori note diverse, e queste note diverse fra loro, se le si unisce a regola d’arte, producono non una cosa bella per chi le vede ma una gustosa armonia in chi le ascolta. Ora, chi è in grado di comprendere la ragione secondo la quale sono disposte le membra dell’uomo rimane così stupito, così incantato, che una simile disposizione – in chi la comprende – la si preferisce ad ogni altra bellezza visibile. Ora non la conosciamo, ma lassù la conosceremo: non perché gli organi nascosti verranno scoperti ma perché, anche se coperti, non potranno rimanere celati.
Ivi, 243,4.4.
Può anche sembrare “normale”, ma rifuggire con disprezzo l’accurata disposizione degli otto occhi di uno scorpione non ha alcunché di “razionale” ed è anzi foriero di un’ignoranza (come conoscere ciò che si teme e disprezza?) e di comportamenti che di umano hanno ben poco. Al contrario, invitarci, incoraggiarci ed educarci alla contemplazione dell’ordine e dello scopo corale di ciascun elemento della creazione è un alto esercizio spirituale, senza il quale nessuno saprà intendere «il gemito della creazione» (cf. Rom 8,22) e tantomeno vivere da quel “pastore dell’Essere” (Heidegger) che da principio il Creatore l’aveva chiamato ad essere (cf. Gen 1,28).