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Se morissi domani sarebbe una pena per i miei cari sistemare tutto ciò che lascio?

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Annalisa Teggi - pubblicato il 27/01/20
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Dalla Svezia arriva la pratica delle «pulizie di morte»: un metodo per cominciare a lasciare la casa in ordine nell’ottica della propria morte, per non provocare disagio ai parenti in lutto. E se invece fosse un dono permettere a chi resta di mettere ordine?Non vado fiera di molti angoli di casa mia, ci passo davanti con pesanti sospiri pensando che non riuscirò mai a metterli in ordine. Ce n’è uno che è proprio un disastro, quello dove accumulo piccoli ricordi dei miei figli e che mi riprometto di organizzare, insieme a tutte le loro foto, anch’esse stampate e messe in attesa di un album. Quando mi redarguisco  perché rinvio sempre quest’attività di riordino, mi fermo anche a ricordare a me stessa che il presente mi chiama all’appello incessantemente ed è lì che devo stare, innanzitutto. È stato anche il primo pensiero che mi è sorto leggendo che esiste una pratica chiamata «dostadning», l’arte di lasciare ordinata la casa prima di morire.


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Gentili fino alla fine

Neanche a dirlo, questa idea viene dalla Svezia. Passeggiando tra gli allestimenti dell’Ikea abbiamo appreso tante belle soluzioni per avere una casa in ordine e organizzata; qualcosa ho imparato pure io, eppure la mia casa resta lontana da quegli ambienti perfetti. La sensibilità svedese è lontana dalla mia, evidentemente, ma provo a immedesimarmi. La Marie Kondo delle pulizie di morte è l’85enne Margareta Magnusson, autrice di un best seller nato da questa domanda: “Se io morissi domani e i miei cari dovessero sistemare tutti gli oggetti che ho accumulato nel corso della vita; per loro sarebbe un compito facile, difficile o pressoché impossibile?”.

Capisco la premura: secondo la Magnusson il decluttering (liberarsi dell’inutile) estremo, cioè in vista della morte, è un gesto di grande rispetto nei confronti di chi resta, per non mettere i parenti nella condizione di dover fare scelte difficili e magari fare i conti con un passato doloroso. E allora ha progettato un sistema per lasciare la casa in ordine, come ultimo atto di gentilezza a chi ci sopravvive:

Per iniziare 65 anni è l’età giusta. Guai a partire dalle foto, perché ci lasceremmo trascinare dai ricordi e non combineremmo nulla. Dar via le cose belle, come le porcellane o le tovaglie di lino, fare un quaderno con le proprie password. È concesso tenere un peluche, in una scatola di effetti personali cui applicheremo un’etichetta con l’istruzione di gettarla dopo che ce ne saremo andati. «Il dostadning finisce solo quando muori». Ed è tutto efficiente, semplificato, organizzato, solo lievemente lugubre. (da Corriere)

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Non lasciate centinaia di schifezze ai parenti in lutto, questa la sintesi desunta da alcuni giornali che hanno approfondito il tema. L’aspetto giudicato prevalente è la nostra debolezza per gli acquisti compulsivi che riducono le nostre case a stanze stipate di oggetti inutili. Vero, senza dubbio. Ma «casa» è anche molto altro, e ci sono ricordi importantissimi che possono essere racchiusi in piccolissime inezie insignificanti agli occhi di un estraneo. Sono persuasa che nelle intenzioni della signora Magnusson ci sia una forma di affetto sincero che l’ha spinta a escogitare questa forma di organizzazione prima del congedo finale. Sono anche profondamente convinta che il pensiero della morte non sia lugubre e sia anzi un compagno di vita corroborante, che aiuta a mettere a fuoco il valore della nostra presenza.


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Eppure, ci ricorda il Vangelo, la morte può arrivare come un ladro di notte, all’improvviso. In questo, la morte è l’estrema messaggera di Dio: il controllo del destino non è in mano nostra. Sarebbe bello congedarsi dal mondo con le proprie cose in ordine come fa la brava casalinga prima di partire per le vacanze. Ma sono convinta che ci sia qualcosa di umile e sincero nel lasciare delle stanze tutt’altro che immacolate: è come lasciare un testimone a chi resta, sul bisogno sempre attuale di portare avanti l’opera di un mondo che non sarà mai perfettamente ordinato solo grazie alle nostre capacità.

Può essere che la nostra chiamata al Cielo arrivi in un momento in cui casa nostra sarà completamente sotto sopra. Cosa accade quando un ospite inatteso bussa alla porta ed entrando vede i panni da stirare impilati e la polvere sul pavimento? Pensa che sei un padrone di casa maleducato o che sei semplicemente una persona indaffarata nel presente? Ecco, se mi trovassi a riordinare la casa di un mio caro dopo la sua morte e la trovassi piena di cimeli e cassetti stipati, non penserei che è stato trasandato per forza; penserei che ha privilegiato il suo presente e tutto ciò che lo interpellava in una quotidianità di eventi e rapporti vivi.

Pensaci tu

È stato il giornalista Antonio Polito a sollecitare la mia curiosità su questo tema. Condividendo la sua personale esperienza di figlio alle prese con un lutto e con la necessità di riordinare la casa dei genitori, ha riflettuto sulla pratica del «dostadning» dalle colonne del Corriere:

In quella casa si sono accumulate non solo le cose, ma anche gli odori, i sapori e le speranze di una intera esistenza. Credo fosse per questo che mia madre non riusciva a disfarsi mai di niente; perché ogni cosa, fosse anche il più insulso dei soprammobili, era stata desiderata come il simbolo di una riuscita, del successo di un sogno di serenità domestica; mentre mio padre riservava la stessa ossessione da collezionista a libri scolastici, diplomi e attestati, onorificenze e memorie dei suoi e dei nostri corsi di studio e poi di lavoro. Mentre mi aggiro tra questi mobili coperti da lenzuoli bianchi, tra questi scatoloni destinati al rigattiere, selezionando le poche cose che terrò con me, rivedo perciò anche le mie idee. Forse farò così anch’io, niente pulizie della morte prima del tempo. Forse bisogna lasciare ai figli questo compito, quasi un rito di passaggio: si diventa davvero adulti solo quando si chiude la casa del padre. (da Corriere)


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Ha ragione, il lutto vissuto in pienezza di dolore è l’ultimo dono vertiginoso dell’essere legati a qualcuno. Penso anche a un figlio che si trova a dover sistemare la casa di un genitore con cui ha avuto un rapporto conflittuale e irrisolto fino alla fine. Tuffarsi nei ricordi può essere come aprire una ferita che ricomincia a sanguinare; non sono certa che ricevere delle scatole perfettamente impilate e sigillate o degli armadi spolverati e semivuoti equivalga a lasciarsi con affetto e in buoni rapporti. Quanto a me, sono certa che lascerò in dote un sacco di disordine a chi resta. Magari l’unica cosa che posso preparare fin da adesso è un biglietto con su scritto qualcosa che suona così: “Pensaci tu, per piacere: io non ho sbrogliato fino in fondo la matassa della mia vita. Non saprei scrivere una trama precisa dei miei giorni, e quel che accaduto spesso mi ha investito e colto di sorpresa. Guarda e cerca tu, se c’è un disegno dentro questa trama di ricordi fatti di appunti sparsi, vestiti graziosi che volevo conservare anche se fuori moda e libri pieni di pieghe e sottolineature. Se c’è qualcosa che possa esserti compagno, tienilo. Sono stata disordinata, sì; spero che inconsapevolmente fosse come dare piena fiducia a Chi solo può mettere ordine nel mio cuore”.

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