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Condannati e poi esaltati: piccola storia spirituale del gioco degli scacchi

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Camille Dalmas - pubblicato il 24/01/20
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Condannato da san Luigi ma difeso da Francesco di Sales e additato ad esempio spirituale da santa Teresa d’Avila, il gioco degli scacchi è una metafora ludica del gioco dell’anima… dove è Dio che vuole fare scacco matto.

Al museo del Louvre, nel Corridor de Valence, si trova un pezzo da collezione piuttosto unico nel suo genere: la scacchiera di san Luigi. Intagliata in cristallo di rocca e quarzo fumé, ed incastonata in un fine opus argenteum, dicono che questa piccola meraviglia di oreficeria appartenne al re capetingio… ma non credeteci!



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Se gli indizi storici mostrano che il pezzo risale probabilmente al XV secolo, il fatto di collegare questa scacchiera a san Luigi è quasi una provocazione, perché il piissimo re di Francia del XIII secolo aveva in devoto orrore il gioco degli scacchi. Nel 1254 giunse a proibirne l’uso con una Grande Ordonnance, stigmatizzando questo «gioco di cattiva reputazione reo di turbare la pubblica moralità». Tale divieto giungeva di fatto a completare un’altra condanna, quella pronunciata dal Concilio di Parigi nel 1212. San Luigi si accaniva col gioco principalmente perché alla sua epoca era molto in voga il gioco dei dadi, il quale in quanto gioco d’azzardo causava (ieri come oggi) la rovina dei ludopati, nei quali si ravvisava anche la disfida alla Provvidenza divina.


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Nella sua Vita, il Sire di Joinville racconta che sulla via per Tunisi (dove si compì il funesto destino) il santo re Luigi fu preso da furore vedendo il fratello, Carlo d’Angiò, giocare a scacchi sul ponte della sua nave. Prese la scacchiera e la gettò fuori bordo. Moda venuta dall’Oriente – si colloca spesso la nascita degli scacchi nell’antica Persia – essa irritava fortemente il temperamento austero del re giustiziere. Giocare con dei re fino allo scacco di uno di costoro non era già di per sé rimettere in discussione l’autorità di cui era depositario? E poi Luigi IX aveva un’altra legittima ragione di aborrire il gioco: alla sua epoca le partite di scacchi provocavano spesso vere e proprie risse, visto che i perdenti avevano la sgradevole abitudine di spaccare la scacchiera in testa all’avversario.


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Difensori del gioco degli scacchi, san Francesco di Sales e santa Teresa d’Avila

Nel 1608, nella sua Introduzione alla vita devota, al capitolo Passatempi e ricreazioni (soprattutto quelle lecite e lodevoli), san Francesco di Sales menziona gli scacchi, di cui loda la capacità di servire «l’abilità e l’industria dello spirito»; ma mette in guardia contro le partite troppo lunghe:

Dopo aver giocato a scacchi per cinque o sei ore, se ne esce aridi e stanchi nello spirito.

L’uomo onesto – spiega il santo savojardo – non deve investire troppi affetti in tale attività, ma neppure deve avere imbarazzo per il fatto che si diverte a giocarci. Sorprendentemente, questo giudizio fu confermato un anno più tardi, ovvero nel 1609, dall’abrogazione della condanna parigina del gioco degli scacchi (Papa Paolo V).



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Se il vescovo di Ginevra rende lecito un gioco altrimenti condannato, forse però ciò è avvenuto per l’odore di santità promanante dal gioco a partire da quando Teresa d’Avila (invocata anche come patrona dei giocatori di scacchi!) ne fece un gioco altamente spirituale. Nel capitolo XVI del suo Cammino di perfezione (1583), la mistica castigliana riconosce davanti alle monache di cui è madre badessa di essersi data al gioco dei cavalieri e dei vescovi. Anche se sa che un tale gioco non dovrebbe stare in un monastero o in un convento, ella gli apre le porte del suo e giunge anzi a comparare la preghiera a una partita a scacchi… contro Dio. Il principio è nel riuscire a condurre un’anima a Dio mediante la preghiera: il pezzo più potente di cui dispone il giocatore di una siffatta partita è la Regina, vale a dire la Vergine. E per fare scacco matto a Dio bisogna ingaggiare una partita serrata, «perché il Re non si consegna se non a chi si consegna interamente a Lui».

Luci dal medioevo: la “morale degli innocenti”

Una lettera firmata Jean de Galles e inviata a Papa Innocenzo III (1198-1216) mostrava già che il gioco degli scacchi era una fonte di ispirazioni almeno quanto lo era di preoccupazioni. Intitolata “la morale del giocatore di scacchi”, essa è talvolta anche chiamata “la morale degli innocenti”: un riferimento alla passione del Papa regnante per il gioco degli scacchi. Le armi pontificie di quest’ultimo erano addirittura ornate da una scacchiera sulla quale campeggiava un’aquila – segno d’un interesse quasi eccessivo per questo passatempo. «Lo scopo del gioco – scrive l’autore medievale – è che un pezzo catturi l’altro». Alla fine del gioco, «i pezzi vengono rimessi nel sacchetto donde erano stati sortiti», e nel sacchetto dove essi sono raccolti «non c’è differenza tra il re e il povero pedone: i ricchi e i poveri, lì, sono sempre insieme». Di fatto capita spesso «che il re finisca in basso mentre i pedoni restano in alto». Così ricordando la parola evangelica sugli ultimi che talvolta diventano primi (cf. Mt 20,1-16) l’autore conclude il suo insegnamento morale sottolineando in modo molto esplicito la correlazione evidente tra il destino dei pezzi nel sacco e quello

di quasi tutti i più grandi di questo mondo, che dopo il loro transito terreno vengono posti più in basso, mentre i poveri possono finalmente godere della luce di Dio.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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