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Sei nella prova? Prima di dirti “è una grazia” vengo a pulirti la casa

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Paola Belletti - pubblicato il 13/01/20
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Con tanta pietà per noi stessi, perché davvero è difficile avvicinarsi con la delicatezza e la forza necessarie a chi soffre, tentiamo di capire cosa è davvero utile, cosa sarebbe meglio evitare e come si declina l’amore fraterno per il quale il Signore disse che saremmo stati riconosciuti.

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Ci risiamo. Ecco che imbastisco “un pezzo” prendendo spunto da una cosa che ho già scritto altrove, ma, sia messo agli atti, lo faccio in obbedienza al responsabile editoriale, uomo saggio e poco incline a perdersi in inutili dettagli. Quando intuisce che forse stiamo toccando un punto vitale per i nostri lettori ci chiede di parlarne, rendendo fruibile da più persone possibile una considerazione, una piccola testimonianza che nel più ristretto confine dei propri “amici” social ha già sortito un qualche benefico effetto.


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Così è nato, sta nascendo questo articolo. Senza pretesa di catechizzare alcuno, né di estendere alla nostra urbe dai confini incerti una bonaria reprimenda circa il contegno da tenere di fronte a chi soffre.

E’ una piccola storia vera

poiché davvero conosco e sono legata insieme a mio marito da profonda amicizia ad un marito e papà di quattro figli (o una moglie?) a sua volta legato da vincolo quasi fraterno ad un’altra famiglia, ancora più numerosa della sua. Ce ne ha parlato già di frequente in passato; perché come noi costoro hanno a che fare con la malattia di uno dei loro figli, diversa ma omologa nella sua inguaribilità a quella che affligge nostro figlio Ludovico.

Al carico che grava su questa casa, che vive normalmente – non stanno tendenzialmente quasi mai ad affliggersi! – si è aggiunto un altro peso: quello per cui ad essere ferito nella salute è uno dei due genitori; ometto dettagli per non renderli riconoscibili. Hanno non solo il diritto ma soprattutto un reale bisogno di essere custoditi dalla discrezione e di non essere offerti ad un pubblico che non si sono scelti.

La malattia oncologica è seria e richiede cure impegnative; le prospettive di guarigione sono buone, ma la strada che porta al traguardo, si sa, piuttosto lunga e impervia. Nel frattempo la vita prosegue, grazie a Dio e i figli continuano a reclamare attenzione, ancora di più ora che loro stessi sono scossi nelle loro certezze più naturali e istintive.

Cosa ci serve quando soffriamo?

Che la causa di tanto dolore sia il prima possibile rimossa, non giriamoci intorno. Ma, come ognuno di noi può facilmente testimoniare con la propria vita e le proprie relazioni, non è raro che le situazioni di sofferenza si protraggano a lungo. E anche quando il problema è facilmente risolvibile se non veniamo guardati, ascoltati e sollevati da qualcuno che sentiamo amico, davvero immedesimato con la nostra umanità colpita, ci resta un senso di desolazione, quasi di tradimento. Il dolore è del tutto insopportabile solo se resta senza senso.

Sul versante del sofferente si corre facilmente il rischio di diventare inavvicinabili. La malattia, le angustie hanno tra i più probabili effetti collaterali pochissimo desiderabili di renderci spinosi, suscettibili, rabbiosi persino. Ma, come osserva qualcuno nei commenti al post che ho riportato, a volte si tratta solo di un sincero urlo di disperazione: non ce la faccio proprio più! E siamo tanto più sinceri, quanto più risultiamo scomposti. Magari vergognandocene un attimo dopo.

E quando siamo noi quelli intorno, non sempre sappiamo come comportarci. Non sempre abbiamo lo slancio naturale che ci spinge avvicinarci a chi soffre; spesso lo spettacolo ci ripugna, la sofferenza vogliamo rifuggirla anche solo rammentata dalla vita di qualcun altro.

Oppure diciamo quello che in quasi perfetta buona fede ci sembra giusto dire. Siamo cristiani, la faccenda della croce giganteggia nel nostro credo. Intuiamo, chi più chi meno, che davvero la sofferenza può essere scrigno di preziosi tesori. Vogliamo dare qualcosa di importante all’altro, siamo tentati di offrirgli la cosa più eclatante, vogliamo essere risolutivi, almeno sul fronte spirituale. E allora non è raro che venga calato l’asso: quello che ti è successo è una grande grazia.

Io l’ho fatto di sicuro, anche se non mi ricordo quando o con chi. E l’ho subito, e mi ricordo quando. Lo so perché quando ero destinataria di così alto monito ho sentito uno stridore fortissimo con la realtà che stavamo vivendo e la voglia, morta quasi sempre in gola, di buttare fuori la mia rivolta, un no grande e puntuto. Era il rifiuto prepotente di una pietanza amara e disgustosa che qualcuno, non costretto ad assaggiarla, era certo dovessi mangiare a quattro palmenti.

Si tratta del normale rifiuto della croce in quanto ostile al nostro naturale desiderio di felicità e benessere. E si tratta anche del fatto che siamo piccoli e bisognosi di compagnia e sostegno.


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“Pregherò per te!”

La preghiera, anche non dichiarata, cioè senza il sollievo psicologico di sapere che qualcuno sta pregando per noi, è una forza davvero dirompente. Chi ha attraversato momenti difficili spesso lo testimonia: si ha come la percezione di essere portati, sospinti avanti da una forza che, ne siamo più che certi, non possiamo aver attinto in noi stessi. Il nostro intimo ci sembra deserto, saccheggiato, depredato di ogni energia.

Ma quando essa viene mandata avanti, unica rappresentanza dell’amore dei fratelli, seguita dal silenzio, manchevole di gesti concreti; quando quasi diventa il pretesto per non fare nient’altro, allora persino sentire parlare di preghiera può fare male.

Ed è altrettanto vero anche l’opposto: affaccendarsi in tanti modi attorno a chi soffre, pulendogli la casa, facendo per lui la spesa, togliendogli ogni fatica non strettamente necessaria, ma senza una condivisione spirituale del senso di questa prova, può addirittura aumentare il senso di solitudine e sconforto. Siamo creature complesse, ci serve tutto, il basso e l’alto, il concreto e l’invisibile (ancor più vero). E ci serve anche in un certo ordine o con precise dosi. Per questo dobbiamo tra noi essere inclini alla compassione, al perdono, alla sincera pietà per quanto siamo goffi a volte nel muoverci tra i cristalli di un cuore provato dalla sofferenza.

Una cosa che assomiglia alla perfetta letizia

Sì, da malati, sofferenti, da depressi o oppressi da qualche condizione avversa possiamo tutti diventare una pessima compagnia. Chi si avvicina per fare del bene, dovrebbe ricordarsi in anticipo che non deve aspettarsi riconoscimenti! Anzi, quanto più siamo in affanno e qualcuno ci vede in quello stato, tanto più saremo tentati, una volta “fuori dal tunnel”, di tenerci lontani da quella persona. Ci ha visti al nostro peggio, ci ha visti deboli e bisognosi come non vogliamo più essere. Lui non solo lo sa, ma ce lo ricorda anche tacendo.

Davvero con Cristo ogni croce è benedetta, ma va detto da vicino

Allora, come ha fatto il mio amico/a, giustissimo invitare alla preghiera, ricordare il senso di ciò che capita, ricondurre a Cristo ogni vicenda, ma prima di tutto affrettiamoci a sollevare le persone dai carichi troppo pesanti, a togliere incombenze, ad offrire vicinanza fattiva e concreta. Come dev’essere tornare a casa dopo una sessione di chemio che ci ha prostrati e trovarla pulita e in ordine per mano di un amico?


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Nessuno toglie le croci a nessuno, non per tutta la salita né una volta in cima, ma persino quella di nostro Signore è passata per un tratto su altre spalle e di quell’uomo ricordiamo tutti il nome: Simone, il Cirenaico.

Ci riconosceranno da come ci amiamo tra noi e il modello è Cristo. Lui è morto per toglierci il male più devastante, il peccato, la Sua è davvero croce di Salvezza. Le nostre possiamo unirle, inchiodarle alla sua e confidare nel fatto che nessuna lacrima andrà perduta, nessuna promessa di gioia resterà incompiuta.

Ecco, a ben pensarci ai nostri tempi le croci si possono “smistare” anche per mezzo di un gruppo WhatsApp e non c’è miglior uso che si possa immaginare di uno strumento che, diciamocelo, sa essere tanto molesto!

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