Intervista al regista italoamericanoQuando il 21 ottobre scorso si sono di nuovo incontrati, Martin Scorsese e Papa Francesco, hanno ripreso un conversazione come possono fare due vecchi amici che si intendono al volo, senza alcuna fatica, eppure l’ultima volta che si erano visti era stata quasi esattamente un anno prima, il 23 ottobre 2018 nell’auditorium dell’Augustinianum in occasione dell’incontro di giovani e anziani con il Santo Padre e della presentazione del libro La saggezza del tempo. Il Papa dopo avergli chiesto notizie della moglie ha voluto sapere qualcosa sul suo nuovo film, The Irishman e il regista italo-americano ha spiegato come si tratti di un film sul tempo e la mortalità, l’amicizia e il tradimento, il rimorso e il rimpianto dei tempi passati.
Tra i due è cominciato un dialogo semplice quanto profondo che presto è approdato al nome di Dostoevskij, comune passione dell’uno e dell’altro, che con i suoi romanzi fa da sfondo all’opera del regista di Meanstreets e di Silence. Ed è proprio dal grande scrittore russo che intendo partire per riprendere quella conversazione, riallacciandomi a The Irishman e al protagonista, Frank Sheeran (interpretato magistralmente da Robert De Niro), che appare come l’unico sopravvissuto che quindi può e deve parlare, l’unico vivo che manda «notizie da una casa di morti». Non a caso per tutti gli altri personaggi, appena compaiono in scena, una scritta ferma l’immagine e ci indica la data e il modo, sempre violento, della morte. Frank è vivo e parla, anzi si confessa, guardando fisso nella telecamera, negli occhi dello spettatore. Questo ultimo è un altro film profondamente spirituale della carriera di Scorsese, del resto nella lunga intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro ai tempi del film precedente, Silence, il regista di New York ha rivelato di essere «ossessionato dalla spiritualità», cioè dalla domanda su cosa siamo noi esseri umani. Questione che secondo lui costringe ognuno di noi a guardarsi in faccia, da vicino, a guardare il bene e il male che è dentro di noi.
«Questa domanda mi ha tenuto impegnato per gran parte della mia vita, ed è presente nella maggior parte dei miei film», ci dice Scorsese precisando che «in The Irishman si uniscono allo stesso tempo sia l’osservazione esterna sia la riflessione interiore; man mano che il film procede l’equilibrio si sposta dall’esteriore all’interiore. La questione è “come si riconcilia il mondo esterno delle circostanze con il mondo interiore della fede?”, un interrogativo che mi accompagna da sempre e che ho affrontato in modo diverso nei differenti momenti della mia esistenza. A questo punto, a 77 anni, suppongo che la riflessione interiore diventi prevalente».
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Proprio un anno fa, dialogando pubblicamente con Papa Francesco, ha raccontato che da ragazzo viveva in un mondo diviso in due parti separate: la strada, piena di male e violenza, e la chiesa, dove c’era Gesù e la sua legge dell’amore e trovava la contraddizione insanabile. Il Papa le rispose dicendo che la sua vicinanza alle persone della strada le ha dato quella saggezza che ha poi messo nei suoi film. Qual è la stata la lezione che ha appreso nella strada e quale la lezione ricevuta dagli uomini di Chiesa?
In strada ho imparato che tutti i giorni la gente fa ogni sorta di compromesso con il male, e che l’umanità ancora esiste — e anche la bontà — e che tutte queste cose possono esistere fianco a fianco, a volte così vicine che all’inizio non si riesce a distinguerle. Nella Chiesa, ho appreso da questi uomini, questi preti di strada diocesani (preti come padre Principe, di cui ho parlato tante volte), che si può essere duri all’esterno e compassionevoli dentro, e che la durezza è un modo per alimentare quella compassione — o, come si dice, il comandamento dell’amore di Gesù — dentro di noi. È uno dei doni più preziosi che io abbia mai ricevuto.
«The Irishman», all’inizio il film appare come un gangster-movie classico, ricorda «Goodfellas», ma poi subentra il tema del rimorso e della misericordia, si potrebbe dire che questo film è il punto di sintesi tra «Goodfellas» e «Silence». Sul tema del rimorso: nel finale di «Crimini e Misfatti» di Woody Allen c’è un personaggio che riesce a non provare rimorso per il delitto commesso. Anche Frank, il protagonista di «The Irishman», è combattuto ma sembra incapace di ammettere la sua colpa. Secondo lei è possibile vivere bene pur facendo il male?
Penso che la domanda sia: come riusciamo a comprendere chi va avanti e magari fa qualcosa di buono dopo avere ucciso? Come ci proiettiamo nella sua mente? Come facciamo a conoscere la sua esperienza? La sua anima? Ammiro il film di Woody Allen per il modo in cui prende in considerazione la possibilità che qualcuno possa soffrire in privato per un certo tempo e poi fare come se nulla fosse. Ci dice in maniera molto semplice e diretta: «Sì, può accadere anche questo». Ma c’è una differenza. In quel film il personaggio di Martin Landau è benestante, dell’alta borghesia, e paga qualcuno, tramite suo fratello, per uccidere Anjelica Huston perché minaccia di rendergli la vita difficile. È un segreto che nessuno conosce, tranne loro due e l’uomo che la uccide. The Irishman parla di una realtà del tutto diversa, di un mondo operaio, costituito da persone che hanno vissuto la depressione e, per quanto riguarda Frank Sheeran, 411 giorni di fila di combattimenti nella seconda guerra mondiale. È un uomo che cerca di portare il cibo in tavola, è questo il mondo in cui sta vivendo, e lavorare per la mafia e commettere atti di violenza e omicidi è stata una scelta disponibile e potenzialmente lucrativa. Le persone come Russell Buffalino, il personaggio di Joe Pesci, ci sono nate dentro e portano persone come Frank all’ovile. Persone che sono soldati, che si considerano parte di una gerarchia e sanno come eseguire gli ordini. L’orrore di tutto ciò è molto reale, ma ho sempre considerato importante mostrare come funziona quel mondo e quali regole segue, per quanto perverse e dannose esse siano. Esistono diversi livelli di orrore: la violenza stessa, la sua concretezza, l’impatto sulle vittime e le loro famiglie e i testimoni; e poi c’è la corrosione dell’anima. Il fatto è che c’è una coscienza e c’è il rimorso, che li si riconosca e se ne parli o meno. E c’è sempre una resa dei conti. E poi, più avanti, un’altra resa dei conti. Ma mentre tutto va in scena, e razionalizzi e trovi la tua strada per andare avanti, giorno dopo giorno, puoi fare del bene? Forse. Ma forse c’è qualcun altro che sta osservando. Magari a volte quella persona la immagini soltanto. E a volte sono reali, come il personaggio di Peggy, interpretato da Anna Paquin. Non è come la sua matrigna o la moglie di Russell, non si esercita a guardare dall’altra parte. Osserva sempre, ed è per questo che riesce a vedere attraverso la dolcezza di Russell. L’umanità non scompare facilmente, secondo me. Forse lo fa per alcuni assassini seriali, la cui mente non funziona allo stesso modo di quella delle altre persone. Ma per gente come Frank, o Russell, o Jimmy Hoffa, è diverso. Sono quelle le regole secondo cui vivono. Di recente ho letto un articolo su un tizio arruolato da uno dei cartelli della droga. Ha detto: «Hanno sradicato tutto quello che di umano c’era in me e hanno lasciato un mostro». Ma il punto è che, di fatto, è riuscito a dire questa cosa, a pronunciare tali parole. Il che significa che quel piccolo angolo di umanità era ancora presente.
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Il personaggio di Peggy, la figlia di Frank che nel film è quasi muto in effetti svolge un ruolo cruciale: cosa rappresenta? la coscienza? La giustizia?
Giustizia? Non penso — è più un’astrazione. Rappresenta appunto il fatto che la coscienza c’è. E il fatto che lei non guardi dall’altra parte significa qualcosa, che Peggy è come il segno dell’esistenza della coscienza per Frank. Il suo personaggio pone qualche interrogativo: perché detesta tanto Russell mentre ama Jimmy? La risposta, secondo me, è che vede come Russell cerchi di ingraziarsela per dare sollievo alla propria coscienza con l’amore di un bambino, mentre l’affetto che Jimmy prova per lei è spontaneo e sincero. Non cerca di comprare il suo amore.
Il rapporto tra padre e figlia fa pensare alla tragedia greca: se «Goodfellas» era un dramma, anche pieno di ironia, «The Irishman» assomiglia di più a una tragedia. Mi viene in mente il personaggio di Jake La Motta in «Raging Bull» che grida «Non sono un animale!», a indicare la dignità dell’uomo che risiede nella sua libertà, nella capacità di non essere schiacciati da un destino già segnato. C’è un destino secondo lei che gli uomini non possono evitare?
È una domanda molto, molto antica che potrebbe non trovare mai una risposta. Se muovo il braccio, lo faccio io o sto mettendo in scena il corso di un’azione che è stata decisa a un livello di cui non so assolutamente niente? Ma non avrò mai quella risposta, probabilmente rimarrà sempre un mistero per tutti noi. Non sono però sicuro che il destino sia uno dei temi dei miei film. Presumo che lo sia, nel senso che voglio semplicemente guardare alle persone che vivono questo particolare tipo di vita, in cui accadono cose che sono molto distanti dall’esperienza della maggior parte degli spettatori, e che questi spettatori sentano la loro comune umanità.
Per fortuna c’è quella frase, rivolta al sacerdote: «Lascia la porta un po’ aperta» che apre la speranza alla misericordia. Nel lungo racconto-confessione che Frank rivolge allo spettatore, c’è anche lo spazio per la scena della confessione al sacerdote. Quale importanza ha per lei questo sacramento e più in generale la presenza nel mondo del cristianesimo?
Gli insegnamenti di Cristo hanno suscitato in me una profonda impressione sin dalla più giovane età. Sono parte di ciò che mi ha formato, il che significa che sono parte di quel che io sono oggi. Conosco molte persone che hanno preso un’altra direzione — in particolare quella del buddismo, o direttamente dell’ateismo — ma per me non è mai stata davvero una scelta. Penso che non sia tanto semplice abbandonare ciò che è stato formativo dal punto di vista spirituale nella propria vita, e cambiare fede come se ci si cambiasse d’abito.
Ritengo che la via di Cristo sia l’unica cosa che rende possibile la nostra sopravvivenza. È l’unico cammino che scorgo perché l’umanità — l’intero grande organismo dell’umanità — possa effettivamente cambiare ed evolvere, allontanandosi dall’annientamento. Intendo questo non in senso culturale, bensì spirituale. Il fatto è che c’è l’andare in chiesa e c’è la via di Cristo. Non si tratta necessariamente della stessa cosa, come tutti sappiamo. E credo che la confessione sia uno degli strumenti spirituali più potenti di cui dispone la Chiesa. È un esame autentico di chi sei, di tutti i tuoi dubbi, le tue paure e le tue trasgressioni, e l’atto stesso della confessione apre la porta al riprovarci, all’avere un’altra possibilità. Anche se non ricevi l’assoluzione, hai comunque aperto la porta.
Per tornare al film, la domanda per uno come Frank è: può cambiare? È una domanda immensa. Può lasciare quella vita, una vita basata sul peccato, sulla trasgressione cronica di tutti i dieci comandamenti? Per poter vivere così, devi essere piuttosto allenato a togliere lo sguardo da te stesso. In tal senso, penso che respingendolo, Peggy, la figlia di Frank, gli fa un dono prezioso che gli permette di aprire la porta e, alla fine, di lasciarla aperta, anche se si tratta solo di uno spiraglio. E la domanda rimane: davvero uno come Frank può redimersi?
Il tema della misericordia mi fa pensare a un libro, «Il Diario di un curato di campagna» di Georges Bernanos la cui lettura per lei è stata la rivelazione del volto del misericordioso del Dio cristiano. E ovviamente mi fa pensare a Papa Francesco…
Anche a me. Quando penso a Papa Francesco devo dire che la prima parola che mi viene in mente è compassione. Leggi le parole del Santo Padre, ti ritrovi con lui faccia a faccia, e ti rendi conto che è un uomo che vede il fondamento spirituale della Chiesa.
La Chiesa cattolica è una istituzione vasta, è una tradizione, è un’impresa, un’organizzazione enorme. Ma nella sua essenza non è una questione di affari umani o mondani, bensì una questione dello spirito. È questa la pietra, il fondamento: la pratica e la sequela vivente dell’esempio di Cristo. Papa Francesco lo sta ripetendo, e chiede che lo riconosciamo. Ritengo straordinario che quest’uomo sia il nostro Papa. È una benedizione. E considero una benedizione averlo incontrato.