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Eroe cattolico: devoto a San Michele Arcangelo riceve la Medaglia al Valore degli Stati Uniti

Edward Byers Jr.
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Columbia magazine - pubblicato il 09/01/20
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Intervista all’ex Navy SEAL Edward C. Byers, Jr., sul ruolo che ha giocato la fede nelle sue missioni in Iraq e AfghanistanQuando era un giovane medico della Marina nell’addestramento SEAL, Edward Byers Jr. ha ricoperto le pareti della sua stanza con dei promemoria sui suoi obiettivi quotidiani: Hai svolto il tuo lavoro oggi? Hai corso? Hai nuotato? E poi, in lettere maiuscole, HAI PREGATO OGGI?

La fede cattolica di Byers lo ha rafforzato mentre perseguiva il suo sogno di diventare uno degli operatori di élite della Marina. È stato assegnato al suo primo team SEAL (Sea, Air and Land – Mare, Aria e Terra) nel 2004, e in seguito ha servito con il Naval Special Warfare Development Group. Nella sua carriera, durata 21 anni, ha svolto 11 missioni all’estero, molte delle quali in Iraq e Afghanistan. In quegli anni di guerra ha continuato a trovare il tempo per la preghiera, cercando la protezione e la pace di Dio.

Ha pregato anche l’8 dicembre 2012, quando lui e il suo team si sono mossi nell’oscurità verso un compound talebano sulle montagne dell’Afghanistan. La loro missione era liberare un medico americano che era stato rapito. Byers ha pregato di nuovo alla fine della missione, per un suo commilitone, il SEAL Petty Officer di 1ma classe Nicolas Checque. Il medico era in salvo, ma Checque era stato ferito mortalmente.

Per le sue azioni eroiche di quella notte, Byers è diventato il primo SEAL vivente dalla Guerra del Vietnam a ricevere la più alta decorazione militare statunitense, la Medaglia d’Onore. Nel febbraio 2016 il Presidente Barack Obama gliel’ha conferita nel corso di una cerimonia alla Casa Bianca a cui hanno assistito la moglie di Byers, Madison, e la figlia Hannah.

Byers si è ritirato dal servizio attivo nel settembre scorso e ora sta conseguendo un master in Business Administration presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania. Come membro del consiglio d’amministrazione della Medal of Honor Foundation, viaggia anche in tutta la Nazione per promuovere le virtù incarnate dalla medaglia. Serve inoltre nel consiglio d’amministrazione onorario della Navy SEAL Foundation e nel consiglio di consulenza della C4 Foundation, ente caritativo che sostiene i SEAL e le loro famiglie. Byers si è unito ai Cavalieri di Colombo in Virginia lo scorso anno, e ha parlato con la rivista Columbia il 29 settembre, festa di San Michele Arcangelo.

Può parlarci un po’ della sua famiglia e del suo background di fede?

Sono cresciuto nel nord dell’Ohio in una piccola fattoria di una cittadina chiamata Grand Rapids. I miei genitori hanno divorziato quando avevo 5 anni. Avevano entrambi figli da precedenti matrimoni, e i miei fratelli sono molto più grandi di me. Vivevo con mio padre, che era cattolico, ma la mia fede deriva soprattutto da mio cognato, Trevor, che ora è diacono permanente. Quando ero ancora alle elementari e lui usciva con mia sorella, mi ha introdotto alla Messa latina e ha avuto un grande impatto su di me, attirandomi alla fede.

Cosa l’ha portata a scegliere una carriera in Marina e a studiare per diventare medico?

Mio padre era in Marina alla fine della II Guerra Mondiale. Non ha mai parlato molto del periodo in cui è stato in servizio, ma siamo una famiglia molto patriottica. La bandiera americana sventolava sempre, e il quattro luglio era probabilmente la festa più celebrata dell’anno.

Quando ero alle medie, all’inizio degli anni Novanta, hanno iniziato a uscire molti libri e film sul Vietnam, e sulla comunità dei Navy SEAL. Sono rimasto affascinato dal concetto di élite, di un gruppo mitico di individui che compivano cose incredibili e pericolose.

All’ultimo anno delle superiori sapevo ormai che avrei scelto la vita militare. La scuola non è mai stata una mia priorità. Mio padre era carpentiere e aveva una piccola società appaltatrice, e quindi se non avessi fatto il militare sarei entrato nel campo delle costruzioni.

L’idea di diventare medico è stata di mia madre. Se non mi fosse piaciuta la vita militare, mi ha detto, avrei avuto una soluzione di backup nel mondo civile.

Dopo essere entrato come paramedico all’ospedale della Marina, ho capito che la comunità SEAL era in esubero e stava spostando gli infermieri. Ero entrato per essere un SEAL, e la cosa più vicina erano i Marines. È così che è iniziato tutto.

Alla fine è diventato un SEAL. Com’è andata?

Mentre ero nei Marines, ho dovuto compilare una richiesta speciale per il BUD/S – addestramento per il Basic Underwater Demolition/SEAL. Ero da quasi tre anni nei Marines, e poi c’è stato l’11 settembre. Quattro mesi dopo la mia richiesta per l’addestramento BUD/S è stata approvata e sono andato a San Diego.

L’addestramento SEAL è stato la cosa più dura che abbia fato in vita mia. Ricordo distintamente le volte in cui, sull’orlo del voler mollare tutto, recitavo piccole preghiere come “Se questo è qualcosa che vuoi che faccia, non so quanto altro potrò reggere. Se riuscissi ad avere una pausa di appena 30 secondi, penso che sarebbe sufficiente ad andare avanti”. E proprio in quel momento gli istruttori ci facevano prendere una pausa in un momento critico. Non lo dimenticherò mai.

Che ruolo ha giocato la fede nel suo servizio militare?

Quando sono entrato nella vita militare stavo approfondendo l’apologetica cattolica. È stato il momento in cui autori come Scott Hahn stavano scrivendo libri tipo Rome Sweet Home. Volevo capire davvero la fede e riuscire a spiegarla agli altri. Il periodo in cui sono stato nei Marines è stato caratterizzato da una profonda religiosità.

Nella nostra unità quelli che erano cattolici andavano a Messa insieme. Il mio primo incarico con loro, la prima volta in cui ero lontano da casa, è stato nel 2000. Non tutte le navi hanno un sacerdote, e ho iniziato a guidare dei gruppi di preghiera quando i sacerdoti non potevano venire per celebrare la Messa. Creavo opuscoli che poi distribuivo. Abbiamo iniziato ad avere un buon seguito.

Credo molto nel fatto di trovarsi al posto giusto al momento giusto. Ricordo ad esempio di essere sbarcato a Dubrovnik, in Croazia, dove dovevamo svolgere delle esercitazioni per un mese con l’esercito croato e stavamo in vecchie caserme. Ho scelto una cuccetta a caso, e quando mi sono steso ho visto un dipinto della Beata Vergine Maria che mi guardava dalla cuccetta di sopra. L’ho preso e ho ancora quell’immagine, incorniciata a casa mia.

Lei nutre una devozione particolare per San Michele Arcangelo. Può dirci qualcosa al riguardo?

La guerra non è bella e non è giusta. Accadono molte cose tremende, che influiscono su di te a livello psicologico ed emotivo.

E allora mi sono rivolto a San Michele Arcangelo perché è il santo patrono della polizia e dei militari. La Preghiera a San Michele – “difendici in battaglia, sii la nostra difesa” – mi ha risuonato davvero.

Nel mio primo incarico in Iraq, nel 2005, stavamo andando da un gruppo di Navy SEAL che se ne stavano andando. Ho visto un tizio indossare una spilla colorata di San Michele che diceva in latino “Sancte Michael Ora Pro Nobis”.

Non so cosa mi abbia spinto a farlo, ma sono andato direttamente da lui e gli ho detto: “È davvero una spilla bellissima. Posso averla?” Non so ancora oggi chi fosse quel tizio, ma me l’ha data senza esitazione e mi ha detto: “Mi ha protetto mentre ero qui, e spero che farà lo stesso con te”. L’ho indossata sulla mia uniforme in ogni operazione a cui ho partecipato.

Ritiene significativo che la missione di salvataggio per la quale ha ricevuto la Medaglia d’Onore abbia coinciso con la festa dell’Immacolata Concezione?

Se ci penso mi vengono i brividi. Nel 2012 ero in guerra già da sette anni. Ero fuori in media tra i 280 e i 300 giorni all’anno, e ogni anno c’è una missione in una zona di guerra.

Eravamo in una regione piuttosto remota dell’Afghanistan, e non era facile andare in chiesa e quindi rispettare la festa. È stato solo nei giorni successivi che ho cominciato a riflettere.

C’è stato anche il tempo per processare il fatto che avevamo appena perso un incredibile guerriero e compagno di squadra, Nic Checque. Era proprio davanti a me quando è accaduto, avrei potuto benissimo essere io. Solo Dio sa perché lui è stato colpito e io no. E allora ci pensi e ti rende quantomeno umile.

Chiedo a Dio: “Cosa vuoi fare di me? Perché sono ancora qui?” Ci penso molto. Non credo alle coincidenze.

Ha descritto la Medaglia d’Onore sia come un onore che come un “peso”. Può spiegarcelo?

Nessuno pensa mai che riceverà una Medaglia d’Onore. In genere è conferita postuma, a eroi le cui imprese non sono neanche immaginabili.

E allora ti fa veramente fare un passo indietro e chiedere “Qual è il mio obiettivo? Cosa dovrei fare con questo riconoscimento?”

Lo considero una possibilità di testimoniare la mia fede e rendere gloria a Dio. Menziono Dio e San Michele in ogni discorso che faccio. Ho il dovere di farlo per via delle grazie che ho ricevuto. Con qualsiasi grande onore arriva anche la responsabilità, e con la responsabilità viene un peso. Ricevere la Medaglia d’Onore è un impegno per la vita.

Ci sono solo 71 persone viventi ad averla ricevuta, e la più anziana è della II Guerra Mondiale – Woody Williams ha 96 anni e ancora viaggia in tutto il Paese promuovendo i valori della Medaglia d’Onore, ovvero sacrificio, integrità, patriottismo, coraggio, impegno e cittadinanza.

Non avrei mai pensato di ritirarmi a quarant’anni. Pensavo che sarei rimasto un SEAL per 30, ma è diventato fondamentalmente troppo difficile onorare i doveri di una persona che ha ricevuto la Medaglia d’Onore ed essere un SEAL in azione – c’è una regola non scritta per la quale una volta che la si è ricevuta non si può più partecipare ai combattimenti. Ricevere la medaglia mi ha quindi impedito di svolgere il lavoro che amavo.

E insieme agli impegni del fatto di averla ricevuta c’è anche il promemoria costante di chi si è sacrificato – Nic Checque e molti altri fratelli e compagni.

Ho la responsabilità di riconoscere il sacrificio di tutti coloro che hanno avuto un ruolo nel fatto che mi venisse conferita. Mi sono solo trovato al posto giusto al momento giusto, facendo la cosa giusta. Avrebbe potuto essere benissimo qualcun altro, ma è toccato a me.

Nic Checque è colui che ha compiuto il sacrificio ultimo, e lo ha fatto in modo eroico. Ci sono molte emozioni relative al fatto di aver ricevuto la medaglia e di dover rivivere quei ricordi tutto il tempo.

Ci può dire qualcosa della sua vita come marito e padre, e delle sfide di equilibrare gli impegni militari e familiari?

Mia moglie è una donna incredibile. È estremamente forte. Doveva esserlo, come moglie di un militare e soprattutto di un SEAL. La cosa splendida è che siamo insieme da quando ero un infermiere dei Marines, e quindi è stata testimone di tutto il processo. Penso che ci abbia davvero tenuti insieme. Non conosco i dati esatti, ma i tassi di divorzio nella comunità che si occupa di operazioni speciali è significativamente superiore alla media nazionale.

I rapporti non sono perfetti, e la perfezione non è reale. Il matrimonio richiede lavoro, e noi siamo riusciti a gestire gli alti e i bassi. Penso che sia una prova per entrambi del fatto che “nella buona e nella cattiva sorte” si è insieme e si cercano dei modi per risolvere le cose.

È particolarmente difficile per una persona stare a casa e non sapere mai cosa stai facendo. Nella nostra comunità non si parla di ciò che si sta facendo, e si possono non avere contatti per mesi. Un rapporto di questo tipo richiede molta fede, molto coraggio e impegno.

E siamo stati benedetti per il fatto di avere una figlia splendida, nata proprio prima del mio primo incarico in Iraq. Ora frequenta le scuole superiori. È una pattinatrice e ha un grande talento. Per la maggior parte della sua vita sono stato in guerra, e lei non sapeva se il suo papà sarebbe tornato a casa.

Ora sto a casa molto di più, ma viaggio ancora spesso perché la Medaglia ti fa spostare molto. Cerchiamo quindi di concentrarci sul fatto di avere del tempo di qualità insieme e di approfittare al massimo di quando stiamo insieme. Come marito e padre, faccio del mio meglio per onorare i miei impegni e riconoscere quanto siano resilienti e forti mia moglie e mia figlia.

Come ha saputo dei Cavalieri di Colombo, e cosa l’ha portata a unirsi all’ordine l’anno scorso?

Conosco da molto tempo i Cavalieri di Colombo. Ho sempre avuto l’inclinazione a unirmi a loro, ma il tempo era davvero poco, e quindi ho rimandato.

Alla fine mi sono reso conto che se non mi fossi unito a loro avrei continuato a dire che non avevo tempo. Se mi univo a loro, il tempo lo avrei cercato.

Mi sono unito a loro perché i Cavalieri di Colombo sono come l’estensione religiosa di come vivo la mia vita nella comunità SEAL.

I militari svolgono operazioni umanitarie in tutto il mondo a seguito di disastri naturali, e attraverso il programma di sviluppo della Medal of Honor Society lavoriamo per instillare le virtù che ho menzionato in precedenza. I Cavalieri di Colombo hanno la stessa concezione – si concentrano su virtù come la famiglia e la carità nei confronti degli altri in patria e all’estero, facendo la propria parte per costruire una società migliore.

Ci sono anche unità e fraternità, che sono come la nostra confraternita – un gruppo di individui che la pensano allo stesso modo che si riuniscono e il potere di unirsi come squadra, combinando la buona volontà, la natura, l’intelligenza e le risorse di ciascuno. Ci sono infine il patriottismo e l’orgoglio per il proprio Paese.

Questi principi sono in linea con quello che sono.

Ha qualche consiglio da condividere con i suoi confratelli Cavalieri?

In primo luogo, se si è un uomo cattolico che pensa di unirsi ai Cavalieri di Colombo, non c’è momento migliore di questo per farlo. Le cose accadranno naturalmente, e si finirà per trovare il tempo.

Per chi è già membro, ricorderei di curare i fratelli e le sorelle che ci stanno accanto. Una causa importante per me è il suicidio dei veterani. Un altissimo numero di veterani si suicida, perché ha perso la speranza e non ha più la rete di sostegno di cui godeva in passato.

Nel mondo c’è tanta depressione, e credo che derivi dalla mancanza di speranza. Non dimenticate mai le persone ai margini. Concentrate le vostre energie su chi ha più bisogno di aiuto. Aiutatelo a sentirsi importante, e aiutate a instillare le virtù che Dio vuole che abbiamo – fede, speranza e amore. Potete dare speranza attraverso la vostra buona natura e le azioni che potete svolgere per qualcuno.

Quando stavo diventando medico un formatore ha detto: “Nessuno si cura molto di quanto sapete finché non sa quanto curate”. La gente deve sapere che ci curiamo di lei, e mentre affrontiamo tutto quello che la vita ci presenta, la Chiesa ci invita a tornare alla comunione con Cristo. Anche quando cadiamo, c’è la speranza di risollevarsi.

Questo articolo è apparso nel numero sul novembre 2019 della rivista Columbia ed è riprodotto con il permesso dei Cavalieri di Colombo, New Haven, Connecticut (Stati Uniti).

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