Enorme successo al cinema per la pellicola di Luca Medici, alias Checco, su un tema non proprio di nicchia: l’immigrazione. Si legge sull’Ansa:
il nuovo film di Checco Zalone, prodotto da Taodue e distribuito da Medusa, sfiora i 30 milioni in cinque giorni di programmazione sugli schermi (ben 1286 quelli monitorati da Cinetel) e trascina il botteghino a 30,6 milioni, centrando un +22% su una settimana fa e un +74% rispetto al 2019 (quando l’incasso totale era stato di 17,5 milioni).
Sì, Tolo Tolo, con un soggetto di Paolo Virzì e la regia di Luca Medici (alias Checco Zalone) è uscito e io l’ho visto.
Non vedevo l’ora di andare al cinema, sicura di godermi un’ora e mezza di risate oneste; e con noi, mio marito ed io, fremevano anche le nostre tre figlie ormai sufficientemente grandi per resistere, senza millantare necessità fisiologiche, all’intera visione di un film non di animazione. E così ci siamo trovati tutti e cinque in terza fila, lato sinistro, il primo giorno di programmazione nella multisala vicina al nostro paesello.
La storia ha come protagonista, non assoluto, proprio Checco, l’italiano che sogna a vanvera e investe peggio (un Sushi a Spinazzola? Con gli anziani che all’inaugurazione procedono a passo incerto seguendo invano i piatti sul nastro…). Parte, cerca nuova fortuna in Africa, dove si ricicla come cameriere in un resort di lusso. Nel cast anche Barbara Bouchet, l’anziana milionaria con il toy boy d’ordinanza che naturalmente Checco scambia per il nipote di nonnina. Mentre è alla ricerca della crema antirughe Gold (esiste anche la Platinum, scoprirà) che si ostina ad applicarsi ogni sera, Cecco, come lo chiama il compagno di sventura autoctono, si trova coinvolto in un attentato. Niente, per come la vede lui, rispetto alle telefonate che malauguratamente iniziano a fioccargli dall’Italia da ex mogli inferocite, fisco dalla memoria indelebile, investitori gabbati. Rende benissimo l’idea di tante cose: dell’individualismo occidentale, dell’effetto oppressivo del sistema paese su giovani e imprese, della superficialità di un certo tipo di maschio, vanitoso ed egocentrico.
Metto subito le mani avanti. Mi farò fare delle analisi specifiche per vedere di cosa sia carente, ma di sicuro il sintomo è che la mia memoria è a macchia di leopardo (di un esemplare con una forma aggressiva di alopecia). Meglio così, il rischio spoiler inescusabili si riduce in modo drastico e naturale.
Non so quanti di voi però siano ancora a rischio anticipazioni non richieste visto che allo stato attuale, con una sola settimana di programmazione all’attivo, hanno pagato il biglietto più di quattro milioni di italiani, per la gioia degli operatori del settore. Checco Zalone deve essere atteso come la manna nel deserto se è riuscito a battere il se stesso dell’ultima uscita sul grande schermo. Con Quo Vado nel 2016 ha quasi eguagliato l’allora imbattutto Avatar. Con Tolo Tolo dove non è “solo” attore protagonista ma regista alla sua prima prova sta superando ogni attesa.
Dietro e ad una significativa distanza si piazzano Jumanji, Pinocchio, Star Wars.
La mia impressione personale, che mi sono fatta prima di sapere che lui fosse il regista, (sempre sul pezzo, pronta ad azzannare la notizia appena sfornata insomma) è che la storia e il messaggio che si voleva veicolare con la pellicola fosse troppo studiato. Non è leggero e risulta quasi macchinoso in certi passaggi, come a voler far stare un’epopea in un racconto breve. Persino stucchevole in certi passaggi.
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Però, come già con Quo Vado, ho pianto. Allora e in questa pellicola mi è bastata una singola battuta. Tolo Tolo: mi stringe la gola Dou Dou che dice, ripetendo una frase dell’improbabile vanitoso, inconcludente, irresponsabile sognatore a spese altrui Checco, emigrante sub sahariano per caso.
Tolo Tolo. Ok, basta non lo scrivo più che poi con le lacrime agli occhi non leggo bene lo schermo.
Una cosa che giudico proprio non riuscita, perché troppo in scia al politically correct da cui Zalone è rimasto smarcato, la gag del “mi sale il fascismo”; stufa anche solo ad accennarne per iscritto.
Bellissimo invece il fatto che le persone che incontra in Africa non sono appiattite nel ruolo dei buoni, secondo la classica filantropia che idealizza i lontani ma trova molesto anche solo il contatto con il gomito del vicino in treno. Le donne e gli uomini che hanno avuto la malasorte di nascere in Africa (colpa di una cicogna adusa al turismo sessuale!), portano ben in vista le loro bassezze mescolate ad inattesi eroismi. Sono più vivi, meno imbolsiti dell’italiano in fuga da ex mogli, creditori, commercialista e avvocato, ma sono della stessa pasta. Contano i legami, le promesse, un’amicizia, l’ideale. Ci sono anche le resistenze e i pregiudizi al contrario: la bella nera che conquista il cuore del pugliese in fuga, mai ricambiato, lo guarda con diffidenza, si aspetta poco o nulla da lui mentre la sola cosa che porterà a termine sarà proprio la salvezza di quel bambino affidato a lei. Tolo tolo. Bravo DouDou!
Come al solito Zalone scocca almeno una freccia che va a segno e ha con sé un messaggio, uno dei più rassicuranti: facciamo quasi schifo (è un’iperbole!) ma non mai del tutto. Basta un gesto, un atto nemmeno del tutto gratuito, basta un amore frainteso, il tentativo goffo di sedurre una donna, insomma ci basta restare vivi per un bene possibile, persino senza un soldo in tasca e tutto può ripartire. “Ci sta la crisi, ha detto. Ma quale crisi!”, diceva in Sole a catinelle.
Lo spot che lancia il film e che ha suscitato vuotissime ma rimbombanti polemiche sfoggia invece (almeno così a me pare) una comicità sincera, la sua solita: sfrontata e buona.
Delle reazioni e delle accuse che gli sono piovute addosso ancora prima dell’uscita parla in una intervista per Vanity Fair. Ma che razzista? Fino a ieri ero io l’immigrato che non voleva nessuno, spiega.
Dalla stessa chiacchierata una critica che non si può non sposare – e non a scopo cittadinanza:
«Ho affrontato un tema che era nell’aria», dice Zalone, «e a cui tra un proclama di Salvini e uno sbarco a Lampedusa pensavo da anni. Le reazioni «mi hanno annoiato se non imbarazzato. Siamo messi male. Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente. Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertententissimo. Hanno parlato di geniale operazione di marketing. Di strategia. Di calcolo. Ma dove? Ma quando? Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti. Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire “questo si può o questo non si può dire”. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime. La soglia della correttezza pretesa e della scorrettezza denunciata dal tribunale degli opinionisti si è vertiginosamente abbassata e in pochissimo tempo. Se si guarda al cinema degli anni ’70 lo si capisce immediatamente. Viviamo nell’assurdo. Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto». (Vanity Fair)
La similitudine tra la sua storia di ragazzo del sud senza opportunità e ad un certo punto anche senza speranza con il popolo di emigranti in rotta verso l’Europa è credibile, ma con le dovute, necessarie distinzioni. Mai quella per cui le persone hanno diversa dignità. Ecco, questo retaggio nel novello regista sembra ben radicato e pochissimo teorico. Chi meglio di uno che ha imparato il pugliese a Spinazzola “anche se pure l’italiano si parla un poco”, può sapere quanto contino i luoghi, le facce, le storie che ci hanno costituito? Tutti uguali davvero, in questo. Io sono delle persone che mi amano (o mi vogliono morto in atto terroristico per incassare il risarcimento di Stato), delle vie dove ho imparato a correre e a sognare il mio primo posto fisso; della ragazza, Mariangela, con la quale parlavo ore e ore e ore prima, molto prima di diventare il Re del botteghino.
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Se, come regista, imparerà a nuotare bene da solo sono certa che tenterà altre traversate e forse con ancora maggiore fortuna, al di là degli incassi. Bravo Checco. Tolo Tolo, adesso.