Alcuni si concentrano solo sul successo professionale, trascurando tutti gli amori, senza rendersi conto che nell’ineludibile destino della pensione dovranno compiere un bilancio umano al di fuori dell’ambito lavorativoL’orgoglio “buono” è umanamente positivo quando ha origine in sentimenti nobili che hanno a che vedere con il bene della persona, come la nascita di un figlio, un successo accademico o la statura morale di un amico o un parente.
Anche il desiderio di competere è positivo quando obbedisce a desideri nobili che mettono in gioco il meglio della natura, senza trascurare alcun valore.
Esiste però una cattiva combinazione del cattivo orgoglio con lo spirito competitivo, in cui il legittimo desiderio di autosuperamento di chi cerca di realizzare il meglio della sua natura personale viene sostituito dall’unico desiderio di essere e avere più degli altri.
E il cattivo orgoglio è insaziabile.
Trascinate da questo sentimento, alcune persone si concentrano solo sul successo professionale, trascurando tutti gli amori, senza rendersi conto che nell’ineludibile destino della pensione dovranno compiere un bilancio umano al di fuori dell’ambito lavorativo.
In quel momento potrebbero arrivare a sentirsi di troppo.
Sono persone “di successo” che arrivando a questa tappa si lamentano nei confronti di chi ritengono debba loro qualcosa, con l’affanno di possedere cose e persone.
È un sentimento che in genere esprimono in frasi come “Non mi riconoscono niente né mi ringraziano”, “Ho lavorato molto, ma è stato per dare il meglio alla mia famiglia”, “Quelli che si dicevano miei amici mi cercavano solo per interesse”.
Ciò che è certo è che hanno fatto tutto per orgoglio e avidità, credendo che con il denaro si ottenga tutto, come l’amore di una famiglia, l’affetto e il riconoscimento da parte di persone care ed estranei.
Questo spiega perché nonostante il loro “successo” non abbiano saputo amare e abbiano aspettato solo di essere amate; non si sono donate, ma esigevano donazione, e sono state persone tiranniche, suscettibili e diffidenti che riconoscevano difficilmente di aver sbagliato.
Come è nato il germe del loro cattivo orgoglio?
È probabile che quando erano studenti non aspirassero al sapere, ma a ottenere il voto più alto del loro gruppo, a essere i migliori in un certo sport o quelli che eccellevano in questo o quello…
Poi nella vita professionale, gli amici, i colleghi e perfino i familiari sono diventati gradini da salire per raggiungere il successo personale.
Successo che significava essere quelli con la casa migliore, le vacanze più belle, le cose migliori da mangiare e bere, orgogliosi di essere più ricchi di altri e di avere più potere.
Bastava che un vicino o un conoscente comprasse una macchina più bella o una casa migliore o ottenesse qualche riconoscimento perché la propria macchina, la propria casa o i propri titoli sembrassero improvvisamente insufficienti, perché il loro orgoglio si basava non sul piacere di ottenere le cose, ma sul fatto di avere più degli altri.
La persona competitiva e orgogliosa ama i confronti da cui esce vincitore, il che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso e di aiutarli con condiscendenza, perché in fondo è contento di vedere gli altri nel bisogno.
Quando non è così diventa preda dell’invidia e dell’insoddisfazione, per cui è difficile che non si rallegri di fronte ai presunti fallimenti e ai difetti di chi è l’oggetto di invidia.
È sul terreno dell’amore umano che nei confronti non esce vincitore.
Il passare del tempo sottolinea allora un essere impoverito, frustrato e intimamente angosciato di fronte alla perdita del senso che aveva dato alla propria vita.
Può comunque dare un colpo di timone e invertire la rotta nel tratto che resta ancora da percorrere, visto che il vero senso della vita si raggiunge alla fine, arrivando in un porto sicuro per aver navigato bene.
La virtù dell’umiltà è come la stella che guida il bravo navigatore nella pulizia del suo cuore.
Bisogna ammettere che il male dell’orgoglio riguarda tutti noi; in misura maggiore o minore, tutti soffriamo di questo male e delle sue conseguenze.
Riconoscerlo è essere già a metà della soluzione, perché emerge un principio di umiltà, ed è proprio questa l’antidoto più efficace.