Penso avrò avuto massimo 6-7 anni e già “sapevo” che un giorno sarei diventata moglie e mamma. Ho sempre avuto un debole per i bambini (tutt’ora, alla vista di un neonato, mi commuovo…) e sognavo un marito amorevole da amare e riempire di premure. Nata in una famiglia cattolicissima, immaginavo, ancora adolescente, il mio futuro matrimonio in Chiesa. Ero una ragazza molto timida, estremamente romantica, fragile ed ingenua.
Ai miei 15 anni mi innamorai per la prima volta e pensavo fosse lui il mio principe. Ma T. non piacque a mio padre, uomo ottuso e autoritario che non esitò a cacciarlo. A 16 anni conobbi R. accettai la sua corte semplicemente perchè ero l’unica, fra le mie compagne di classe, che non aveva un “moroso”. Ben presto mi resi conto che fra me e lui correva un abisso, mentre a mio padre entrò subito in simpatia. Il primo anno trascorse fra tensioni, litigi frequenti e rari momenti di intesa. Dunque decisi di lasciarlo, ma dovevo superare il difficile scoglio costituito da mio padre. Comunicai in famiglia la mia intenzione. Mio padre però ebbe una reazione talmente aggressiva ed umiliante nei miei confronti che ebbe il potere di annientare la mia volontà. La paura aveva vinto.
Avevo 17 anni quando uscii da me stessa per diventare ciò che altri desideravano io fossi. Iniziò così il mio calvario di giovane donna obbediente, insicura, nevrotica, afflitta da ossessivi sensi di colpa. Cercai aiuto presso sacerdoti, ma nessuno comprese il mio tormento. A 21 anni mi sposai, nella speranza che col matrimonio la situazione di coppia sarebbe senz’altro migliorata. Invece fu uno sfracello: lui insoddisfatto e sostanzialmente depresso (si era sposato per “paura di rimanere zitello”…), io nevrotizzata e costantemente infelice. L’unico nostro collante era il sesso, forse l’unica cosa che “funzionava”, se pur facendo ampio uso di metodi contraccettivi, pillola compresa, e lasciando tutto all’istinto. Sinceramente parlando, per me quella costituiva purtroppo l’unica valvola di sfogo.
Col tempo, comunque, fra me e R. si era stabilizzata una certa ‘affezione’, una quasi abitudine alla nostra reciproca presenza, pur mantenendoci sostanzialmente agli antipodi quasi su tutto. E vennero ben quattro figli (e qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi…). Già fin dal primo figlio lasciai il lavoro per dedicarmi anima e corpo al mio nuovo, eccitante ruolo di mamma e alla famiglia nella quale volevo disperatamente credere. Ho perso il conto di quante volte mi innamorai platonicamente di questo o di quello. Comunque non ho mai tradito R., anche se in me urgeva amore e nonostante la mia consapevolezza di quanto fossi attraente. Insomma, mi tenevo ben stretta quel po’ di dignità che mi era rimasta, inoltre volevo essere una madre esemplare per i miei figli, gli unici che mi davano motivo di vivere.
Eppure si andava a Messa ogni Domenica, io continuavo a fare la catechista in parrocchia, ci si avvicinava abbastanza di frequente al confessionale e, per tutti, si era “una bella famiglia”. Dietro questa parvenza di normalità, però, si nascondevano gravi solitudini, litigi, rancori, abitudini disordinate, malesseri profondi. Fino al 2009 quando il nostro primogenito entrò nel girone delle videodipendenze, la seconda figlia iniziava caoticamente le sue prime relazioni sentimentali, la terza diventava ermetica e la più piccola piangeva ed urlava senza apparente motivo. Fu l’anno della svolta. Con R. il mio tentativo di dialogo non si era mai interrotto, ma ad un certo punto lui spuntò definitivamente la sua arma prediletta: l’indifferenza. Quell’estate entrai in una crisi senza precedenti. Per la prima volta presi una pausa per me stessa e mi rifugiai qualche giorno a La Verna. Lì incontrai un frate sacerdote che mi ascoltò con grande affetto e competenza e da lì cominciai ad aprire gli occhi sulla realtà.
Passando attraverso grandi fuochi di sofferenza, nel 2017 ho ottenuto la separazione e nel 2018 il mio matrimonio è stato dichiarato nullo. Dal 2010 R. vive felicemente solo, mentre tutti i figli hanno seguito me, in altra provincia. Nel 2017 il primogenito si è sposato. Il mio cammino di guarigione non è ancora concluso e la lotta è stata molto aspra, specie riguardo il tema del perdono. Da quando ho optato per la verità, la solitudine non mi è più stata compagna. Ho fatto nuove, bellissime amicizie e splendidi incontri con altrettanto splendidi uomini di Dio che mi hanno aiutata a riprendere me stessa nel modo più sano possibile. Il confessionale resta il mio luogo di conforto per eccellenza. Ora non temo più i confronti, né di mostrarmi per quella che realmente sono.
Da un paio di anni a questa parte ho faticosamente acquistato rispetto anche da parte dei miei genitori. Molte volte ho avuto la rabbiosa tentazione di chiudere definitivamente con loro, ma il mio cuore si ribellava a quest’idea ed ora sto raccogliendo i primi frutti del perdono. R. continua a scrollarsi di dosso ogni responsabilità e ha scelto l’immobilismo. Pur nella sua assenza genitoriale, ho sempre invitato i figli a portare rispetto verso il loro padre, così che fra loro e lui la relazione non si è mai interrotta. Solo di recente i miei genitori hanno ammesso che avevano visto in R. un buon partito per me perché di famiglia benestante. R., invece, ha ammesso di avere commesso un errore sposandomi. Due bei pugni nello stomaco, tuttavia indispensabili per “chiudere il cerchio”.
Prima stavo finanziariamente bene e abitavo in una bella casa, ma ero triste e sola. Ora non ho un soldo, abito in due stanze accanto a mio figlio e arrivo a sera come posso, ma finalmente gusto gli effetti benefici di una libertà che mi spinge a cercare con cuore sincero ciò che Dio ha in serbo per me.
Ognuno dei miei figli sta mettendo radici sane: vado molto fiera di loro. D’altra parte, penso che più perdiamo di vista noi stessi, più perdiamo di vista i nostri figli e la realtà circostante. Ed è questo un racconto di come Dio scrive diritto in mezzo le righe storte della nostra vita.
Elisabetta