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Un neonato ha bisogno di contatto fisico e non di “imparare a cavarsela”

MOM,BABY,NEWBORN
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Sei di tutto più uno - pubblicato il 24/12/19
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Riappropriamoci dei tempi e delle esigenze naturali di mamma e bambino: basta imposizioni ideologiche e falsi miti di autonomia. Non a due settimane di vita, almeno!

di Racehele Sagramoso

Checcolens ha dormito tutta la notte.

Non sento applausi.
Né vedo banderine.
Provo a ripeterlo: Checcolens ha dormito tutta la notte!!!!!
Lo so che sarà stata un’occasione. Probabilmente una congiunzione astrale. Forse della droga nella zuppa di fagioli. Comincio a sospettare che il suo Angelo Custode lo abbia tramortito per riposarsi un po’ (questa settimana contiamo: 5 punti al sopracciglio, sbucciatura sulla schiena, bruciatura sulla mano e bronchite: l’Angelo Custode si è iscritto ai Sindacati Alati).
Sì perché oramai lo sappiamo: i bambini prima dei tre anni non hanno pause di sonno profondo come gli adulti (se non mi sono scordata la fisiologia del sonno infantile, i bambini non sono pronti fino ai sette/otto anni), per cui – dopo un po’ di esperienza – lo sappiamo come funziona. Ci vorranno ancora un po’ di mesi perché lui dorma la notte.
Non è sempre stato così: quando arrivò la Figlia G, io ero una bravissima maestra di scuola materna, ma di neonati non ne sapevo nulla. L’unica bimbina che avevo tenuto in braccio, era stata una cuginetta minuscola e bionda che ora è una mamma bravissima di un bambino biondissimo.
La Figlia G era un bambina dolcissima, ma io ero uscita dall’ospedale con gli orari delle poppate (5 al giorno) e con una sola nozione sul sonno: “Deve dormire per tre ore di fila il dì e  per cinque sei ore di fila durante la notte”.
Nessuna informazione sull’allattamento e nessun sostegno pratico. Nel giro della prima settimana mi venne una ragade enorme sul capezzolo (di quelle sanguinolente che fanno sì che la nutrice, piuttosto che attaccare il neonato al seno, si farebbe volentieri amputare organi vitali senza anestesia). Le notti con lei passavano tra l’ingresso dove la ninnavo per ore e il pavimento sul quale mi sdraiavo per darle la mano attraverso le sbarre del lettino (gesto alla quale era costretta mia madre: evidentemente dagli anni ’70 all’inizio del 2000, le indicazioni non erano cambiate). Mia madre non mi aveva mai allattato. Mia suocera non aveva mai allattato. Le zie di mio marito non avevano mai allattato.
Inutile dire che allattare non era semplice. Anche perché allattare con l’indicazione di orari (per quanto tempo e ogni quanto) è l’errore più grossolano che sia stato mai fatto. Lo racconto sempre perché parlarne adesso fa scalpore: dopo neanche un mese di vita, tra il fatto che avevo avuto un cesareo mostruoso (distacco di placenta massivo), i pianti interminabili (la pupa ovviamente aveva bisogno di coccole e di contatto, ma la minaccia era che si viziasse per cui le ore che passava a piangere nella culla erano eterne), l’obbligatorietà del fatto che doveva stare nella carrozzina (rigorosamente a pancia in giù: cosa che fa inorridire oggi come oggi se si pensa alle indicazioni per prevenire la morte in culla), il fatto che io non avessi mai avuto a che fare con dei neonati e la solitudine durante il giorno, me la resero intollerante. L’unica cosa che mi “salvava” era la giovane età. A 21 anni ero sufficientemente energica per poter resistere. E avevo a disposizione un marito che, se non altro, di neonati ne aveva visti e non si spaventava per una cacca straboccante.
Una notte mi alzai per ventidue volte (22): alla ventiduesima presi a pugni un mobiletto del bagno. Ritengo una fortuna il fatto che il mio autocontrollo mi abbia impedito di rifarmela con la bambina che, ovviamente, piangeva disperata.
A quel punto il mio dolcissimo marito si arrabbiò tantissimo. Non con me, ovviamente. Ma con tutte le indicazioni idiote che c’erano state date. Prese la bambina e la mise in mezzo a noi nel lettone. Disse: “Adesso decido io”. E io (trasalimento di ogni femminista che legge) obbedii. Non feci rimostranze. Ero distrutta. Se mi avessero detto che per dormire avrei dovuto saltare a testa in giù cantando una canzone idiota, l’avrei fatto.
La bambina smise di urlare e si attaccò al mio seno. Dormimmo circa – lo ricordo benissimo – tre ore di fila. Il giorno seguente il mio sposo mi recuperò un marsupio (di quelli agghiaccianti che lasciano le gambe penzolare e non hanno supporti per la schiena, non esistevano né le fasce, né quelli ergonomici) da amici e mi ci infilò la bimba. Lei smise di piangere (ovvero di avere coliche) e io cominciai ad amarla. Ad adattarmi a lei. Ad apprezzare il fatto di avere un figlio.
La normalità, ho poi scoperto dopo, è che un bambino abbia bisogno di contatto fisico anche notturno (soprattutto se di giorno non sta con mamma e papà) per lo meno fino ai tre anni. Tuttavia le bugie che ci vengono dette sono moltissime e derivano da una sorta di “pedagogia” il cui obiettivo è, molto semplicemente, staccare il bambino dalla madre e della quale fanno parte l’ossessiva campagna per la promozione degli asili nido che viene scambiata per promozione alla maternità, e le tristi leggi per la tutela della maternità che obbligano la donna lavoratrice a separarsi dal proprio bambino quando questo è ben lungi dall’aver concluso il suo periodo di sviluppo fuori dall’utero materno (definito “esogestazione” e avente una durata di 12 mesi di vita).
Per il resto troviamo:
 i figli devono essere ‘desiderati’: prolungamento pre-parto della pedagogia a zero-contatto che impone il fatto che i bambini stiano lontani dalla mamma (vedi: pedagogia a zero-contatto). Il maternage-programmato è un inganno perché la vita è, di per se stessa, improgrammabile. Affermare che un figlio deve essere desiderato, implica il fatto che, se non desiderato, il figlio può essere eliminato senza rimpianti. Il che è per lo meno falso. E il fatto che poi le donne che danno alla luce bambini senza averli programmati (come per me e il Mari fu avere la Figlia G dopo un anno esatto da quando ci siamo conosciuti) si affezionino tantissimo ai propri figli, ne è la prova concreta.
– i figli devono nascere quando hanno un’età gestazionale compresa tra le 38 e le 41 settimane: altrimenti detta ‘Sindrome dello Yogurt’ è una patologia che affligge molte donne che si trovano poi a subire induzioni al parto inutili (che finiscono talvolta in cesareo). Nasce nell’ignoranza del lavoro che fa l’ossitocina (altrimenti detta ‘ormone dell’amore’) che viene secreta quando un utero è pronto per partorire (e quando una mamma allatta bene). Certo – lo dico a scanso di ricevere racconti pulp di quelle donne che dicono che se non fossero state indotte da quel santo del ginecologo, loro e i loro bambini sarebbero morti sicuramente – l’induzione è una parte importante della medicina che in casi eccezionali è necessaria. Tuttavia sappiamo che si può controllare lo stato di salute dei bambini per farli nascere fino a quando è il loro momento.
– i neonati devono stare nella culla: ovvero la pedagogia a zero-contatto. I neonati devono stare con la mamma. E la mamma deve poter stare con il suo neonato. Attenzione però: non da soli. La mamma non deve essere abbandonata a se stessa, ma deve essere sostenuta. Impariamo dalle nostre nonne: le puerpere erano sempre circondate da altre donne che si davano da fare. E le rassicuravano. E le sostenevano. Anche per questo trovo che dimettere una neo-mamma dall’ospedale prima dell’arrivo della montata lattea e prima che la produzione di latte si sia stabilizzata, è sbagliato. Bisognerebbe – dato che non ci sono più le famiglie di una volta che dicevo prima – rendere autonoma la donna. Oggi come oggi l’allattamento materno è più in voga, ma non basta dire alle donne di allattare: il primo allattamento è sempre  un po’ problematico. Ci sono sempre piccoli dubbi. C’è sempre un ‘qualcosa’ che rende la donna insicura. Allora piuttosto che stiano tranquille in ospedale. Certo: ci vorrebbero ospedali dove il personale è adeguatamente formato…
– i bambini devono imparare a dormire: il sonno è un bisogno fisiologico come mangiare, ricevere contatto fisico, fare pipì e fare la cacca. I bambini acquisiscono con calma e col tempo dei ritmi di sonno regolari. Nel contempo – e con le dovute accortezze – se i genitori sentono che per loro è un compromesso adeguato, il bambino può stare con loro. Ovviamente il sonno e l’allattamento sono parte di una relazione che intercorre tra i genitori e il bambino: una volta che gli adulti conoscono la fisiologia di entrambe, la famiglia deve rispettare la propria cultura e abitudini, questo è ovvio.
– i figli si possono fare sempre, a qualsiasi età: mi spiace ma questa informazione non è vera. Lo vedo tutti i giorni: a quarant’anni (ancora da compiere, per favore) non ho la se pur minima energia di star dietro con calma a un bambino. Sono ansiosa. Più stanca. Mi salvo solo perché ho altri figli che mi hanno insegnato come devo fare (il Piccinaccolo non ha un lettino ma farà il salto lettone-letto singolo direttamente e so che ciò non comporterà l’acquisizione di vizi, ma lo so perché sono a quota 6) e che mi aiutano. Ma quando lui avrà 15 anni (età al top per la scassaminchiaggine adolescenziale) io ne avrò 55: l’unica cosa che posso sperare è che i fratelli più grandi mi sostituiscano un po’. Ecco perché le mamme che hanno il primo neonato dopo i 35 anni devono poter essere aiutate sia in ospedale, sia a casa: dovrebbero stare più tempo in ospedale (per lo meno sino a che la montata lattea e tutto l’equilibrio non si è stabilizzato) e devono poter ricevere aiuto pratico a casa (l’ideale è un parentame adeguato, altrimenti vanno bene un’ostetrica o una consulente per l’allattamento e/o una doula – un’assistente per la mamma e il papà -).
Nella mia esperienza ho potuto verificare che i genitori messi in grado di conoscere bene i bisogni dei bambini, trovano il modo di creare una relazione che rispetti i bisogni di tutti (i bisogni degli adulti sono importanti, ma duttili e modellabili) e sono più sereni. La genitorialità abbisogna di attenzione e cura, com’era in passato. La solitudine materna dopo il parto è uno scandaloso risultato di una cultura nella quale le donne vengono indotte a rimandare il più possibile la genitorialità, valgono solo se lavorano e di una cultura in cui il maternage(l’arte di essere mamma, potremo definirla “mammitudine”) è da evitare il più possibile (la pubblicità degli anticoncezionali vince su quella che promuove la genitorialità), di una cultura dove stimolare a fare figli significa dare più asili nido (ossia persone che educhino i figli di altri), di una cultura che separa i bambini dalla famiglia e dove le giovani donne, indottrinate al fatto che fare figli sia un finire in gabbia, preferiscono i cani ai bambini.
Essere genitori significa educare i figli a essere i genitori del domani: amorevoli, presenti e capaci di educare. E per educare i figli bisogna starci. Anche la notte.
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