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Erika De Nardo si è sposata. Può costruirsi una famiglia chi ha dilaniato la propria?

ERIKA DE NARDO, NOVI LIGURE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 10/12/19
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Un po’ sbanda il nostro equilibrio nel contemplare un’anima segnata dal male che continua a vivere. Accanto a Erika, suo padre: ha fissato senza censure la colpa di sua figlia, ma non l’ha guardata solo per il male compiuto. A 18 anni dalla brutale uccisione di sua madre Susi e del fratellino Gianluca, Erika De Nardo si è sposata. Nel febbraio del 2001 insieme al fidanzato Omar inferse 96 coltellate alla madre e 57 al fratello; ferale e brutale sono aggettivi che non bastano a dire l’orrore. Sullo sfondo un consumo occasionale di droga e nessun motivo grave di conflitto con la famiglia. Oggi quella ragazza ha scontato dieci anni di carcere e si è laureata a pieni voti in Filosofia con una tesi su Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici. Emblematico.


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Su questi scarni e asciutti fatti si discute in questi giorni: possibile che un’assassina si costruisca una famiglia? A margine della vicenda, ma sotto una luce intensa, il padre di lei, Francesco De Nardo: quello che mentre seppelliva una moglie e un figlio trucidati portava anche il cambio di vestiti in carcere alla figlia; quello che è sempre stato lontano da interviste e riflettori, ma di domande scomode e indicibili se ne sarà fatte molte. Ha tenuto insieme l’incompatibile, il pianto per le vittime e la mano tesa all’assassina. L’opinione pubblica, noi, impazzisce in questi chiaroscuri spinti. Il rosso della mano delittuosa non dovrebbe contaminare il candore delle vittime. L’ingegner De Nardo ha camminato per tutti questi anni su un sentiero scosceso, gliene si dà atto ma poi ci scostiamo alla svelta con un: “Io non ce l’avrei mai fatta”. A fare cosa poi? A dire ad alta voce che il male si è ficcato dentro tua figlia ma tua figlia non è solo il male che ha fatto?

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Continuare a vivere

A informare del matrimonio della De Nardo è stato Don Antonio Mazzi, che l’ha ospitata nella sua comunità Exodus dopo la pena carceraria:

«Ha una nuova vita, si è sposata. Ha maturato la giusta consapevolezza sulla tragedia, quella che permette di continuare a vivere». (da Corriere)

Sempre Don Mazzi riconosce la figura del padre come centrale nel percorso di crescita della ragazza. Non si è sottratto al più arduo dei compiti, amare chi gli ha ucciso gli amati. Quella figlia poteva essere condannata e ripudiata; ma – evidentemente – ancora di più doveva essere abbracciata e accompagnata fuori dall’inferno del male. Da quest’uomo e sua figlia noi ci teniamo a debita distanza, anzi lo siamo per forza: leggere nel cuore dell’uno e dell’altra ci è impossibile. Eppure sentiamo quella vocina che sale da dentro: ma sarà davvero cambiata? E se non si è pentita fino in fondo? Ma poi, dopo quello che ha fatto, non sarebbe più giusto che le fosse impedito di farsi una famiglia? Che esempio potrà mai essere per i suoi figli?


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Mi viene in mente Chesterton. Il giorno del suo Battesimo compose una poesia bellissima e nei versi centrali parlava dell’inutilità di certi sforzi umani che vogliono capire tutto: li paragonava a chi si mette a usare mille setacci per passare al vaglio tutta la sabbia esistente. Un’impresa che fa perdere tempo e senza senso. Non ho bisogno di vedere al microscopio ogni microscopica scaglia del mio male, ho bisogno di un’acqua che mi faccia creatura nuova – questo il senso di Chesterton. Eppure è il setaccio il nostro strumento preferito. Quanti tribunali siamo capaci di mettere in piedi? (che sia solo un caso che in TV il genere legal funzioni tantissimo?) La ragione usata come lente d’ingrandimento per squadrare le anime altrui avvizzisce, se va bene; se va male, diventa furibonda e violenta. La vera natura della ragione non è quella di fare il setaccio, ma di essere una finestra e stare alla finestra può anche far venire le vertigini.

Un po’ sbanda il nostro equilibrio nel contemplare un’anima segnata dal male che continua a vivere. La vocina sale di nuovo su dallo stomaco: però lei, Erika, ha impedito a sua madre e a suo fratello di continuare a vivere. Sì, e questo però significa che la ferita mortale inferta ai suoi cari la porta anche su se stessa. Il veleno del delitto che apparentemente rende «forte» l’assassino, lo corrode e lacera come un acido intimamente.

Perciò non dobbiamo credere che il quinto comandamento miri solo a tutelare le vittime, mira anche a salvare il carnefice. Fa tremare la misura misericordiosa di Dio, indaffarato fin dal principio ad avere premura di tutti scrivendo nel cuore la legge del «non uccidere»; invece noi ci accaniamo a voler sapere se il cattivo ha scontato tutti gli anni di prigione, se finge nel dirsi pentito, se, nel dubbio, non sia meglio bandirlo per sempre dal consorzio umano. Un po’ sbanda il nostro equilibrio al pensiero che Erika De Nardo potrà persino essere madre. Ma che ne sappiamo di cosa accadrà a lei nel guardare dritto negli occhi un figlio? Non potrà infilarsi anche lì la luce accecante della misericordia di Dio, quella che illumina anche grazie a una contrizione dolorosissima? L’anima di ogni persona è un campo di battaglia in cui la pena e il dolore sincero si scontano non solo dietro le sbarre.

Nomi e luoghi

Ricordo bene quel febbraio del 2001 quando su tutti i telegiornali non si parlava d’altro che di Novi Ligure. L’anno dopo sarebbe arrivato il delitto di Cogne e poi molti altri. Cominciò un’ondata di cronaca nera che disegnava il profilo di un pugnale conficcato in seno alla famiglia, quella della porta accanto e così simile alla nostra. Il male non è lontano, è qui nel volto del familiare che ho accanto. Anziché stare dentro questa ferita aperta, da allora si è generato un macabro olimpo di vittime che conosciamo per nome – Sara, Chiara, Yara – e una mappa tematica di luoghi dell’orrore – Erba, Garlasco, Avetrana. Da allora esistono i tour per visitare questi paesi diventati celebri a onor di delitto ed esistono decine di trasmissioni che scrutano, e sputano sentenze su ogni millimetro quadrato di vita privata di vittime e carnefici. Parole d’ordine: voglio sapere la verità e la verità è nei dettagli delle impronte digitale, delle registrazioni video, delle perizie psichiatriche. No, è il diavolo che sta nei dettagli. A lui piace vivisezionare le faccende per distogliere l’attenzione da ogni senso compiuto. I dettagli danno all’uomo l’illusione, davvero diabolica, di poter arrivare al vero spremendo fino all’osso ogni frammento di vita.


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Ci rode stare di fronte a una persona senza poter emettere un verdetto finale sul mistero che è. Ma è l’inquietudine più sana che possiamo avere. E tu sei buono per sempre o cattivo per sempre? C’è modo di redimersi da 96 coltellate più altre 57? Inutile, ci tocca stare alla finestra con le vertigini. Non è detto che dia solo fastidio, si può anche respirare a pieni polmoni a tu per tu con l’idea che Dio abbia un progetto di bene per ciascuno (proprio tutti tutti) e lo persegua fino all’ultimo respiro; e se lo gioca istante per istante con quel portento intoccabile chiamato libero arbitrio.

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