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I “sentimenti di Cristo” ammorbidiscono i nostri cuori di pietra

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 27/11/19
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La sclerocardia è la terza delle malattie spirituali diagnosticate da Papa Francesco alla Curia pochi giorni prima del Natale 2014. Il cristianesimo è una cura risolutiva per quel tipo di sclerosi, ma la terapia comporta la costanza nel discepolato sui passi di Gesù.

«Nella vita interiore – mi hanno sempre insegnato i maestri dello spirito – non si dà stasi: o si progredisce o si retrocede». Proprio come quando con la bici si va in salita: se si smette di pedalare, immediatamente – e a dispetto del fatto che per qualche metro si avanza ancora – comincia la decelerazione, e riprendere a pedalare sarà tanto più duro e tanto meno produttivo.



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Certo, l’anima non è soggetta a una banale meccanica, ma è pur sempre in forza di un’intrinseca logica delle cose che Battiato cantò di “meccaniche divine”. Lo ricordano bene queste celebri parole di san Carlo Borromeo nell’ultimo sinodo milanese da lui presieduto, nel 1599:

Facciamo il caso di un sacerdote che riconosca bensì di dover essere temperante, di dover dar esempio di costumi severi e santi, ma che poi rifiuti ogni mortificazione, non digiuni, non preghi, ami conversazioni e familiarità poco edificanti; come potrà costui essere all’altezza del suo ufficio?

Ci sarà magari chi si lamenta che, quando entra in coro per salmodiare, o quando va a celebrare la Messa, la sua mente si popoli di mille distrazioni. Ma prima di accedere al coro o di iniziare la Messa, come si è comportato in sacrestia, come si è preparato, quali mezzi ha predisposto e usato per conservare il raccoglimento?

Se del resto non si mettesse a fuoco l’essenza di tale “raccoglimento” ci sfuggirebbe del tutto il significato di tanti sforzi ascetici, che si ritroverebbero assimilabili a una qualsivoglia meditazione trascendentale: mortificarsi, digiunare, pregare, custodirsi da cattive compagnie… tutto questo è utile e buono, ma non definisce essenzialmente il cristiano (come san Carlo stesso mille volte ha insegnato).


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Mi è però tornato in mente quel suo famoso intervento riflettendo sulla “terza malattia spirituale” della Curia Romana (facilmente estendibile a tutti noi):

C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e la “testa dura” (cfrAt7,51); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfrEb3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfrFil2,5) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfrMt 22, 34-40). Essere cristiano, infatti, significa “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil2,5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità[9].

La “dura cervice” e il “cuore di pietra”: due rimproveri biblici distinti e che facilmente vanno a braccetto. Il primo riguarda le cose che si sanno (o che si crede di sapere) e il modo di pensare, il secondo invece le cose che si vogliono (o che si crede di volere) e il modo di vivere. Avrei pensato al rimprovero di Gesù ai discepoli di Emmaus, anche se a quelli il Risorto biasima piuttosto la lentezza che la durezza del cuore (Lc 24,25). Papa Francesco indica invece At 7,51 («O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi»), cioè il fulmen in clausula dell’arringa di Stefano, e si capisce bene la differenza, anche perché l’agiografo è sempre il medesimo Luca. Mentre infatti i discepoli di Emmaus «si sentivano ardere il cuore nel petto» mentre il Maestro scioglieva davanti a loro i veli delle Scritture (Lc 24,32), i cuori di questi «fremevano» e facevano «digrignare i denti» (At 7,54). Così accade sempre quando crediamo di sapere cose su Dio e sull’uomo perché abbiamo a mente molti testi… e poiché non lasciamo che lo Spirito ci parli, ogni giorno, quelle stesse verità si sclerotizzano ed assumono fattezze irreali, grottesche caricature delle verità che erano in origine. Più o meno come cantava De André dei profili dei sacerdoti nelle rappresentazioni oniriche della giovanissima Vergine:

E i volti severi divennero pietra:
le loro braccia profili di rami,
nei gesti immobili d’un’altra vita…
Foglie le mani, spine le dita.

Gian Pietro Reverberi, Fabrizio De André, Il sogno di Maria

“Gesti immobili d’un’altra vita”: con questo suggestivo ossimoro le Muse hanno ispirato la descrizione plastica di chi perde la serenità interiore, la vivacità e l’audacia, e si nasconde tra carte e pratiche. “Dio” può diventare «un lavoro come un altro (per carità, rispettabilissimo e tutto quanto…)» (così la Susan di Alan Bennett, Un letto di lenticchie) o – per quanti non lavorano nella Curia Romana e neppure in una curia… – un argomento di conversazione, anzi, di discussione.

Mentre invece il cristianesimo è anzitutto un’altra cosa. “Credere in Gesù”, certo, ma il fatto che crediamo in Gesù ha la cartina al tornasole non nelle conoscenze teologiche (ove ci siano) né nelle attività caritative (ove se ne facciano), bensì anzitutto nello sviluppare e nel coltivare “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5).


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Quella di “sentimento” è categoria ancipite, diciamo pure ambigua: normalmente con essa intendiamo lo strato più lieve e superficiale della nostra esperienza emotiva, ma c’è pure un senso forte del “sentire” – interiore e profondo – da cui trae vigore un’accezione intensa e ricca di “sentimento”. Raccogliendo nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate le ricorrenze del termine mi si è palesato un breve testo che può fungere da utile memorandum in merito. Esiste infatti

«una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti».

Gaudete et exsultate 36

Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli».[41] In realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile».[42]

Gaudete et exsultate 45

Un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti. Non erano così gli Apostoli di Cristo. Il libro degli Atti racconta insistentemente che essi godevano della simpatia «di tutto il popolo» (2,47; cfr 4,21.33; 5,13), mentre alcune autorità li ricercavano e li perseguitavano (cfr 4,1-3; 5,17-18).

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Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi».[79] Il testo di Matteo 25,35-36 «non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo».[80] In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi.

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Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi.

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I “sentimenti di Gesù”, invece, ci tutelano e ci rinnovano quando li rinnoviamo giorno per giorno in un atteggiamento semplicemente discepolare – rimettersi sempre a camminare dieto al Nazareno, anche se si fosse Papi, Vescovi, preti o (perfino) catechisti in parrocchia –, senza smanie “magisteriali”. Preferire anzi il ministero, l’azione del lievito nella pasta, che magari subisce il male e in questo coglie l’occasione per stringersi un poco di più a Gesù. Soli con Cristo solo. E ogni volta il Signore ci sorprenderà riconsegnandoci a «una moltitudine di fratelli» (cf. Rom 8,29): non che siano nascosti o lontani da noi, ma la sclerocardia c’impedisce di vederli. Per questo Cristo adempie in noi il prodigio promesso già secoli prima della sua incarnazione:

Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi.

Ez 36,26-27

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