Sarà capitato a tutti noi di osservare il cielo in una giornata di foschia o di nebbia; quando viene a mancare la limpidezza della luce, i contorni risultano sfumati e la bellezza del firmamento ci sfugge. Nella predicazione e nella tradizione cristiana succede spesso così: la bellezza del Vangelo viene ricoperta da una polvere che ne impedisce di coglierne i contorni. Ciò succede soprattutto ad alcune parole e dimensioni cristiane che, nel tempo, sono state soggette a interpretazioni non solo parziali ma anche per coì dire “estreme”. È questo il caso del “sacrificio”, parola tanto cara alle religioni e alla fede cristiana, ma anche tanto male interpretata e tanto strumentalizzata fino a generare un’immagine di Dio negativa e perfino tremenda.
La parola “sacrificio” è comune a tutte le religioni. È proprio dell’esperienza religiosa, infatti, avvicinarsi alla divinità e presentare l’offerta di un sacrificio per essere graditi e accolti con benevolenza. Ora, se il sacrificio rimane un importante elemento dell’esperienza religiosa, tuttavia bisogna dire con il cristianesimo le cose…sono radicalmente cambiate!
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Nella mentalità della religione si pensa più o meno così: sacrificio significa compiere un atto gradito a Dio, cioè un’azione per “ingraziarselo”, per “tenerselo buono”, per “ottenere il suo favore”. Ora, poniamoci una semplice domanda: è questo il senso del sacrificio cristiano? Quale significato ha dato Gesù al sacrificio?
Vorrei farmi portavoce di un annuncio straordinario e diffonderlo ovunque, in ogni comunità dove i credenti si riuniscono per adorare il Signore e invocare il Suo nome: il cristianesimo è la fine dei sacrifici. In Gesù, Dio mette la parola fine al sacrificio, perché è Lui a sacrificarsi per noi sulla Croce! Lui è l’Agnello di Dio!
Tuttavia, una buona parte della spiritualità cristiana è ancorata a una mentalità che esalta il sacrificio fuori misura, insieme a un’eccessiva enfasi sul tema del peccato. Essendo peccatori, per essere accolti e graditi a Dio, dobbiamo offrirgli i nostri sacrifici, che ci aiutano a scontare il male commesso perché provocano in noi la meritata sofferenza. L’immagine di Dio che tiranneggia dietro una religiosità così sacrificale è quella di un Dio arrabbiato e severo, quasi assetato di sangue che, dopo aver mandato a morte Suo Figlio (altro grave errore teologico), esige anche da noi dolore e sacrificio, e così ci fa scontare il peccato.
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In questa mentalità, il sacrificio diventa assolutamente necessario e, anzi, spesso è Dio stesso a richiederlo e a “mandarci la croce” che meritiamo!
Questa immagine di Dio è perversa e pericolosa. Anche nella mentalità religiosa, come quella del popolo di Israele, che offre capri e agnelli a Javhè, Dio cerca di purificare il significato del sacrificio attraverso la voce dei profeti; essi contestano le forme dei sacrifici religiosi, perché spesso sono diventati una semplice formalità esteriore per assolvere un precetto, ma non trasformano il cuore e non lo aprono all’amore di Dio e del prossimo. I Profeti ci ricordano che il cuore del sacrificio non è la nostra offerta a Dio, ma la relazione con Lui che deve cambiare il cuore e renderlo simile al Suo, aperto all’amore verso i fratelli e specialmente verso i più poveri: “Misericordia e amore voglio, e non sacrifici” (Os, 6,1-6).
Nella Sua predicazione, Gesù ripete spesso questa parole per trasformare la logica di una mentalità religiosa sacrificale ed esteriore e presentare il comandamento nuovo che riassume tutti gli altri: l’amore. Offrendosi per amore all’umanità intera, ci mostra non un Dio arrabbiato che, per placare la sua collera esige la morte del Figlio, ma un Dio che per amore lotta, soffre e muore per noi. La Croce di Gesù, perciò, è la fine della religione e di tutti i suoi sacrifici: non è più l’uomo a dover dare qualcosa a Dio, ma Dio che dona se stesso all’uomo. L’Eucaristia, che riattualizza il sacrificio di Cristo, è allora l’unico sacrificio vivente, puro e senza macchia e per il cristiano.
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Tutte le volte che abbiamo cercato il sacrificio, che abbiamo pensato che Dio si diverte a “mandarci la croce” che meritiamo, che abbiamo preferito lo stile sacrificale e quaresimale invece che la gioia della Pasqua, abbiamo dato potere a un’immagine di Dio negativa e tenebrosa, che non ha nulla a che fare con il Dio di Gesù.
In realtà, ancora una volta Dio “non è quel che credi”. Egli non mi vuole caricare di croci né opprimermi con pesi sulle spalle. La sofferenza non corrisponde a nessun progetto di Dio su di me, benché Dio se ne possa servire – come e quando ciò avviene lo sa però solo Dio – per il mio bene Dio. Dio non vuole sacrifici, ma un cuore aperto ad accoglierlo e amarlo. Per noi non ha pensato la sofferenza, ma da essa come dalla morte ci ha liberati per sempre.
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Francesco Cosentino, sacerdote calabrese, è docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana e officiale della Congregazione per il clero. Tra le sue pubblicazioni recenti: Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo (Cittadella, 2010); Il Dio in cammino. La rivelazione di Dio tra dono e chiamata (Tau, 2011); Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione (San Paolo, 2012); Incredulità (Cittadella, 2017).