A 40 anni, il 22 ottobre si è sottoposta all’eutanasia l’atleta belga Marieke Vervoort, che soffriva di una grave malattia muscolare degenerativa che le provocava dolore costante, convulsioni e paralisi alle gambe.
Il Belgio ha legalizzato il suicidio assistito nel 2012, ma già nel 2008 Marieke aveva ottenuto l’autorizzazione per chiedere che i medici ponessero fine alla sua vita adducendo l’impossibilità di guarigione, il dolore insopportabile e la capacità razionale di prendere decsioni, anche riguardo alla propria morte.
Prima della diagnosi della sua malattia degenerativa e incurabile, Marieke sempre nel 2008 era diventata nota a livello mondiale per le sue vittorie nel triathlon e per la partecipazione all’Ironman delle Hawaii. Velocista sulla sedia a rotelle, ha vinto la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012 e quella d’argento a Rio de Janeiro nel 2016. È stata anche campionessa del mondo nel 2015 nei 100, 200 e 400 metri nella categoria T 52 dello sprint su sedia a rotelle. Nel 2012 e nel 2015 è stata eletta atleta dell’anno in Belgio.
Nell’ultimo fine settimana, Marieke ha postato un’immagine di congedo su Instagram: una sua fotografia con la legenda “Non possiamo dimenticare i bei ricordi”.
Nel 2016, la sportiva aveva affermato in un’intervista che aveva tutto pronto per il momento in cui avrebbe deciso di chiedere la morte assistita:
“Quando arriverà il momento in cui avrò più giorni negativi che positivi ho già i miei documenti per l’eutanasia. Ma quel momento non è ancora arrivato”.
L’anno dopo ha dichiarato in un’altra intervista che il dolore derivante dalla malattia stava diventando insopportabile.
Perché non siamo riusciti a far cambiare idea a Marieke?
Da un punto di vista meramente umano, sono facilmente comprensibili i motivi dell’atleta per preferire la morte a continuare a vivere tra convulsioni, paralisi e dolore costante.
Questo punto di vista, però, non è l’unico esistente, ma per qualche ragione sulla quale vale la pena di riflettere Marieke non è riuscita a intravederne altri che la convincessero che la vita valeva comunque la pena.
Nel 2016, Aleteia ha pubblicato un articolo, firmato da Jesús Colina, invitando i lettori a una campagna di solidarietà nei confronti dell’atleta, che aveva già annunciato l’intenzione di ricorrere al suicidio assistito.
In quella campagna, si proponevano tre iniziative per aiutare Marieke, considerando che, secondo varie correnti della psicologia, una persona che chiede l’eutanasia sta in fondo lanciando una richiesta implicita di aiuto:
1 – L’aspetto più importante: possiamo e dobbiamo esprimerle il nostro amore e il nostro affetto. Una donna che ha dimostrato con la sua vita un coraggio e uno sforzo così grandi merita di sentire tutta la nostra ammirazione. Marieke deve sperimentare che l’affetto non è dovuto solo ai suoi grandi risultati sportivi, ma alla qualità della sua persona. E questo continuerà anche quando non potrà continuare a praticare lo sport.
2 – Tutti, ma in particolare la comunità sportiva, il sistema sanitario belga e i suoi amici e familiari, potranno sostenere Marieke al ritorno da Rio perché le sofferenze provocate dalla malattia vengano alleviate e dotate di senso. Il sostegno del sistema sanitario, del resto, rappresenta un dovere per qualsiasi Paese che ama i suoi figli e si definisce civile.
3 – Ma c’è qualcosa di più che si può fare per qualsiasi persona, indipendentemente dalla sua situazione. Si può inviare un messaggio a Marieke per manifestarle sostegno – evitando in qualsiasi momento, con delicata carità, che il messaggio si trasformi in un meschino atto di giudizio. Nessuno può giudicare una persona – al massimo può giudicarne gli atteggiamenti concreti, ma non è di questo che Marieke ha bisogno in questo momento. Ha bisogno d’amore! E tutti noi possiamo dimostrare amore e vicinanza.
L’articolo riportava anche i links del sito ufficiale di Marieke e del formulario di contatto attraverso cui si potevano inviare i messaggi d’affetto.
Il cristianesimo ci invita a vedere in tutti i momenti della vita, e nella vita in quanto tale, un dono pieno di proposito e di senso, che per questo motivo implica un appello alla speranza. I momenti difficili fanno parte della vita, e per quanto possano sembrare intollerabili ci sono mezzi, spesso sorprendenti, per superarli.
Non siamo riusciti ad aiutare Marieke a condividere con noi questo punto di vista. Se n’è andata, ma ci lascia una riflessione: perché non stiamo riuscendo a testimoniare al mondo che la vita è un dono che vale la pena dall’inizio alla fine naturale?