300 vescovi brasiliani hanno chiesto di riconoscere ufficialmente il missionario come martire. Lui, che ha portato in Amazzonia parole come comunità e solidarietà, e ha pagato con la vita
Papa Francesco ha voluto affidare il Sinodo per l’Amazzonia ad alcuni protettori. Tra questi ha scelto anche il Servo di Dio, Ezechiele (Lele) Ramin, giovane missionario comboniano, ucciso a 33 anni, in Brasile nel 1985. In una lettera al papa, 300 vescovi brasiliani hanno chiesto di riconoscerlo come martire.
Nato a Padova nel 1953, scrive il portale Settimana News (21 ottobre), da una modesta famiglia profondamente religiosa, Ezechiele Ramin, aveva un carattere estroverso e di grandi vedute.
Ordinato sacerdote il 28 settembre 1980, sognava di andare in Africa, scrive il postulatore per la causa di beatificazione, Arnaldo Baritussio, ma il Signore lo aspettava nella regione settentrionale del Brasile, nello stato di Rondônia, diocesi di Ji-Paraná.
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L’arrivo nella temuta Cacoal
Dopo varie esperienze di carattere formativo, giunse in questa regione dove erano scoppiate delle tensioni sociali dovute alle dispute sul possesso della terra. Nel giugno del 1984, fu destinato alla parrocchia della Sagrada Família de Cacoal.
Lo Stato di Rondônia fa parte della regione dell’Amazzonia dove molte terre venivano accaparrate attraverso documenti fraudolenti. La regione, ricca di diamanti e di minerali, divenne un luogo di corruzione, di violenza, di lavoro di schiavi e di servile sfruttamento, un terreno atto a suscitare dei conflitti tra la popolazione indigena e a sviluppare aggressioni all’ambiente.
La scelta della Chiesa: i campesinos
I latifondisti ottenevano gli atti di proprietà rilasciati dal Governo e si presentavano ai contadini per l’espropriazione, e questi non avevano niente in mano per dimostrare che quel pezzo di terra era di loro proprietà da generazioni. Nell’evolversi della situazione politica, la Chiesa si schierò a difesa dei campesinos, sfidando la forza dei proprietari, appoggiati dai pistoleros, uomini armati da loro assoldati. L’esercito non sempre riusciva a intervenire e molti, troppi, sindacalisti, politici, contadini, capi di leghe contadine, sacerdoti e missionari, venivano uccisi per lo più in imboscate, pensando così di stroncare l’opposizione ai loro soprusi.
Le prime minacce
Padre Ezechiele era pienamente consapevole dei pericoli che correva e di ciò che avrebbe potuto succedergli. In un’omelia del 17 febbraio 1985, pochi mesi prima di essere assassinato, aveva detto ai fedeli: «Il padre che vi sta parlando ha ricevuto minacce di morte… Cari fratelli, se la mia vita vi appartiene, vi appartiene anche la mia morte».
A Cacoal, l’attività pastorale si articolava attorno alle comunità ecclesiali di base che divennero un osservatorio della realtà locale, attraverso cui p. Ramin entrò in contatto con le famiglie. Lavorando in rete con le comunità, i sindacati e le istituzioni impegnate per la promozione della giustizia, il padre cominciò a usare espressioni come coscientizzazione, liberazione, comunità, solidarietà, giustizia che sconvolgevano il sistema economico.
“Moriremo insieme”
Dialogava frequentemente con gli indios. Una volta al capo indio Itabira Surui, che aveva messo in guardia Ezechiele dell’incombente persecuzione se avesse cercato aiutare gli indios, egli rispose immediatamente: «Moriremo insieme! Io sono venuto qui dal mio paese per difendere gli indigeni e voglio difendere la loro terra».
Itabira ancora oggi dice di Padre Ramin: «L’unica persona che mi disse la verità è stato lui. Nessun prete aveva un cuore uguale ad Ezechiele».
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“Come cagnolini”
Padre Ezechiele si unì anche alla piccola lotta dei contadini per un pezzo di terra. «Queste persone sono come dei cagnolini – diceva –, ricevono soltanto qualche osso e io spesso sento un nodo alla gola pensando ai chilometri di siepi filo spinato. Oggi abbiamo una grande quantità di persone escluse: migranti dimenticati negli ospedali, in prigione, negli ospizi, nelle baracche, esclusi dalla vita umana. Come possiamo rimanere indifferenti a tutto questo? Attorno a me c’è gente che muore, il latifundio cresce, i poveri sono umiliati, la polizia uccide e le riserve degli indios sono invase».
In padre Ezechiele le persone semplici e sofferenti ma determinate avevano trovato un pastore.
La guerriglia di Fazenda Catuva
Intanto, all’inizio di gennaio 1985, sorse un problema che stava diventando sempre più serio nella zona di confine tra la Rondônia e il Mato Grosso. In questo luogo abitavano dei piccoli agricoltori minacciati dai possidenti della Fazenda Catuva, un’enorme estensione agricola sui confini con il Mato Grosso, il terzo Stato più grande situato nella parte occidentale del paese.
Sull’orlo di un violento conflitto tra i jugunços (guardie armate) della fattoria agricola e gli occupanti abusivi, egli sentì l’urgente bisogno di farsi mediatore di pace in quel momento di grande tensione.
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L’agguato
La situazione era grave, ma la presenza e la parola del prete riuscì a rassicurare il gruppo degli agricoltori. Egli cercò di persuadere anche gli occupanti abusivi ad abbandonare il luogo. Soddisfatto per l’esito delle trattative, riprese la via del ritorno. A una curva della strada, improvvisamente comparvero davanti alla macchina sette jugunços che cominciarono sparare. Egli scese gridando: «Sono un prete! Parliamo». Ma inutilmente perché le pallottole l’avevano colpito a morte all’istante, mentre Adilio, che era con lui, riuscì a fuggire.
Il corpo di padre Ezechiele fu recuperato 24 ore dopo l’uccisione: «Non era stato toccato nulla – scrive Padre Antonio Borrelli nel profilo pubblicato su internet – né addosso al sacerdote, né nella macchina, segno che l’unica finalità degli assassini era quella di eliminare il missionario.
La causa di beatificazione
«Ora attendiamo – dice il postulatore Arnaldo Baritussio – che gli storici, i teologi, i vescovi e i cardinali della Congregazione vaticana per le cause dei santi valutino la prova del suo martirio e offrano al papa gli elementi per dichiararlo martire e salvi la memoria di tutti coloro che sono caduti mentre lavoravano per la pace e la giustizia».
La fase diocesana per la causa della sua beatificazione si è chiusa nel marzo 2017.
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