Una rubrica odierna, su Avvenire, ci rende edotti del singolare incontro tra due persone affette da gravi malattie neurodegenerative, e questo ci permette di tornare sul concetto espresso da Gesù nella dura espressione “servi inutili”: veramente per Dio è lo stesso se ci siamo oppure no?
Questa mattina a pagina 2 di Avvenire abbiamo letto, nella delicata rubrica di Guido Mocellin, Wikichiesa, una storia internettiana definita “inutile” fin dal titolo. E uno già pensa ad Aristotele e al suo elogio delle scienze teoretiche, più nobili delle altre proprio in quanto si praticano a prescindere dalla ricaduta in un’utilità pratica.
Metti un malato di Sla e uno di Parkinson…
Poi si attacca a leggere il pezzo e si apprende della singolare vicenda in cui due persone affette da tremende malattie neurodegenerative – la Sla e il Parkinson – vengono in contatto grazie alla rete. Sembrerebbe buffo, se non fosse drammatico: una malattia che ti fa muovere tanto e una che ogni giorno ti sottrae qualche filo di motilità… e mi dico che una storia simile io la conosco, ma Mocellin non menziona i protagonisti, a parte il malato di Sla, lo stimato collega Salvatore Mazza (che sulla malattia tiene un’importante rubrica suggestivamente chiamata “Slalom”).
Capita dunque che un utente della Rete, che a sua volta sta attraversando la prova di una malattia neurodegenerativa, il Parkinson, legga le parole di Mazza riprese da un altro blogger, giovane e sensibile, e, avvertendo una particolare empatia, desideri farglielo sapere. Il blogger giovane non lascia cadere la richiesta, ma non ha rapporti diretti e chiede, nel privato di Whatsapp, l’aiuto di un suo follower che suppone più attrezzato alla bisogna. Questi, pur non avendo neppure lui contatti con Mazza, non lascia cadere la richiesta, ottiene facilmente l’indirizzo email e gli recapita il messaggio del compagno di malattia. L’autore di Slalom lo riscontra e gli dà seguito.
Bella storia. Chissà cosa si scriveranno i due – e come! –, e chi li aiuterà ad aprire e leggere i messaggi dell’altro – e quando! – e a rispondere. Un incontro così privato da risultare inaccessibile… eppure favorito da tanti mediatori. Il tutto grazie a quello stesso mezzo che troppo spesso isola le persone e le rende paradossalmente irraggiungibili, da quanto sono connesse.
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Poi però mi ha colpito che Mocellin sia tornato sul tema dell’inutilità, a questo punto rendendo palese che il riferimento era alla sapienza di Gerusalemme, non a quella di Atene:
Tra i post che ho letto durante gli ultimi giorni erano anche presenti, come a ogni fine settimana, vari commenti al Vangelo della domenica, dove si parlava dei servi “inutili”. Ecco, questa storia mi piace perché racconta che, con la Rete, si possono fare anche cose “inutili”.
Quelle virgolette sull’aggettivo “inutile” mi rimandano al testo del Vangelo di domenica, cui fanno un non anodino riferimento:
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sèrvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Lc 17,5-10
L’“inutilità” secondo l’Evangelo
Alla durezza di Gesù – tanto distante dai desiderata di noi quando siamo più immersi nei nostri peccati – sono piuttosto avvezzo, ma questo “servi inutili” non l’ho mai mandato del tutto giù. Non perché io mi senta o mi voglia sentire indispensabile, ma anzi proprio perché “inutile” non mi sembra affatto il contrario di “indispensabile”, essendo entrambe le parole coniate a mezzo di una negazione: “utile”, invece, e “dispensabile” – questo la mia intelligenza credente ha sempre pensato che fosse la qualifica giusta del servo di cui parla Gesù.
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Dalla lunga parabola di Mt 20,1-16 comprendiamo che l’utilità ricercata da Cristo è anzitutto quella dei suoi servi, con genitivo soggettivo: il padrone della vigna va a chiamare operai alle cinque del pomeriggio non perché la vigna si giovi particolarmente di un’oretta di lavoro in più, bensì proprio per dare loro lo stipendio di una giornata piena (e questo egli lo considera “giusto”), dunque si può dire che per questo bizzarro padrone il lavoro degli operai sia il mezzo con cui raggiungere il fine della remunerazione – e non viceversa. Quanto alla vigna, sarebbe tuttavia ingiusto dire che il padrone la trascuri: da Mc 4,28 Gesù ci ha lasciato intendere che l’“avanzamento oggettivo” dei lavori gode di una sua misteriosa autonomia. Ecco perché gli sta bene che gli operai vengano a lavorare anche alla fine della giornata – tanto l’importante è poterli pagare!
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Questo torna a renderci conto dello strano concetto di “inutilità” elogiato da Gesù, e il testo greco ci viene in soccorso: “δοῦλοι ἀχρεῖοι” [“dûloi achrèioi”], infatti, non significa tanto “servi inutili” quanto “servi non-necessarî” (l’aggettivo “ἄχρειος” [“àchreios”] si compone infatti del solito “α privativo” e dell’aggettivo derivato da “χρεία” [“chrèia”], necessità). Quando leggo la splendida Lettera a Filemone di Paolo (più un biglietto che una lettera), mi piace immaginare che con un cartiglio del genere Cristo, scendendo agli inferi, abbia rimandato al Padre l’Adamo liberato:
Ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.
Fil 1,10-12
Impossibile godersi il gioco di parole e di sensi senza conoscere il greco, perché “Onesimo”, il nome dello schiavo fuggitivo e poi pentito (“Ὀνήσιμος” in greco), significa proprio “utile”. Nome benaugurante, per un bambino nato in schiavitù, in qualche modo il segno di una mistica benedizione lasciata sull’umanità decaduta: finita in catene per l’incapacità di comprendere la bontà del suo signore… e tuttavia da lui non disprezzata. Dunque Paolo dice di Onesimo che un tempo era stato “ἄχρηστος” [“àchrestos”] al suo padrone, adesso invece è “εὔχρηστος” [“èuchrestos”] per sé stesso e per lui. Ecco, questo mi piace tanto pensare che Cristo l’abbia detto al Padre di noi, di tutti noi: “ἄχρηστος” viene da “χρηστός” [“chrestòs”], e questo a sua volta da “χράομαι” [“chràomai”], “usare”, “utilizzare”, “praticare”, “trattare” (ma orbita pure nell’area semantica di “χράω” [“chrào”], “aver bisogno”, “desiderare”). Il servo diventa quindi “inservibile” quando e perché dimentica di aver bisogno, scorda di desiderare e quindi non sa più rendersi utile. Torna invece capace di farlo quando si lascia incontrare da uno che vive in Cristo, come Paolo, e che sa di essere anch’egli un servo, perché Cristo stesso si è fatto servo di tutti. La gloria dei cristiani è proprio quella di servire, al punto che in antico qualcuno li chiamava erroneamente “χρηστιανοί” [“chrestianòi”] invece di “χριστιανοί” [“christianòi”], e credeva che proprio dall’attitudine dolce e servizievole si riconoscesse il cuore della loro dottrina. Sbagliavano?
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La storia raccontata da Guido Mocellin oggi mi fa persuaso che no, non sbagliavano: anche operai che possono “lavorare poco” sono tutt’altro che inservibili, e se pure non sono necessarî – ma neppure quelli capaci di “lavorare molto” lo sono – si mostrano tuttavia utilissimi.
L’ecologia integrale – scrivevano bene i ragazzi di Limite, poco tempo fa, in un editoriale impegnativo – non consiste nell’appiccicare la parola “ecologia” su delle questioni sociali e di società, ma nel difendere la vita ovunque essa sia minacciata.
Si capisce quindi perché da un lato la Chiesa combatta la “cultura dello scarto” – nell’aborto e nell’eutanasia, nei migranti e nel consumismo –, contrapponendovi energicamente la propria peculiare “ecologia integrale”; e dall’altra perché essa abbia da esprimere nel dramma umano una parte che solo i discepoli di Gesù, Servo di Dio, possono giocare.