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Confessioni del nuovo cardinale a cui il Papa ha affidato la missione più delicata

El cardenal Michael Czerny (a la izquierda) junto a su hermano Robert, después de su llegada a Canadá

Il cardinale Michael Czerny (a sinistra) insieme al fratello Robert dopo il loro arrivo in Canada.

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Jesús Colina - pubblicato il 05/10/19
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Intervista al gesuita Michael Czerny SJ, sottosegretario della Sezione Migranti e Rifugiati“Ho avuto o ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato”. Queste parole di Gesù costituiscono il programma che Papa Francesco ha affidato a uno dei nuovi cardinali creati il 5 ottobre, il sacerdote gesuita Michael Czerny, SJ.

Questa frase del Vangelo di San Matteo (25, 35) è proprio la ragion d’essere della Sezione Migranti e Rifugiati, di cui ora padre Czerny è sottosegretario. Questa sezione vaticana è stata creata ed è guidata direttamente dal Papa stesso, caso unico ed eccezionale nel governo attuale della Chiesa.

Michael Czerny è nato il 18 luglio 1946 a Brno, in Cecoslovacchia (oggi Repubblica Ceca). Quando aveva appena due anni, di fronte alle minacce del totalitarismo comunista i suoi genitori sono emigrati in Canada insieme lui e al fratello di pochi mesi.

Dopo essersi unito alla Compagnia di Gesù, il 9 giugno 1973 è stato ordinato sacerdote. Dal 1979 al 1989 ha fondato e diretto il Centro Gesuita per la Fede e la Giustizia Sociale a Toronto. Dopo l’assassinio dei Gesuiti presso l’Università Centroamericana (UCA) a El Salvador, è stato vicerettore e ha diretto il suo Istituto per i Diritti Umani.

Tra il 1987 e il 1988 ha vissuto vari mesi in Cecoslovacchia e nella comunità dell’Arca a Trosly-Breuil (Francia), fondata da Jean Vanier.

Dal 1992 ha girato il mondo, prima come segretario per la Giustizia Sociale della Curia Generale dei Gesuiti a Roma, poi come fondatore e direttore della Rete Gesuita Africana sull’Aids.

È tornato a Roma dal 2010 al 2016 per essere consulente del cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Attualmente è anche uno dei segretari speciali del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia, che si svolgerà in questo mese di ottobre in Vaticano.

Come ha ricevuto la fede in Gesù? In che momento Cristo è diventato il senso della sua vita?

Ho ricevuto la fede dalla mia famiglia, dalla scuola cattolica, dalle comunità in cui sono cresciuto. Anziché specificare un momento in cui Cristo è diventato il centro della mia vita, cosa che credo sia basata su una buona formazione cattolica, ho scoperto nel corso degli anni che Cristo è il centro della mia esistenza, e l’ho scoperto in esperienze, testimonianze di fede, scelte e nella mia vita di preghiera.

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Quando e come ha compreso che Dio la chiamava a lasciare tutto e a seguirlo sulla via della vita religiosa, in particolare come gesuita?

La chiamata è arrivata presto nella mia vita, quando ero ancora uno studente della Loyola High School a Montreal, e subito dopo il diploma sono entrato nei Gesuiti in quella che allora era chiamata Provincia del Canada Superiore.

Ho sentito con forza il desiderio di servire Dio e il prossimo nella comunità, di usare i talenti donati da Dio, di vivere in libertà. Era questo che speravo di poter fare entrando tra i Gesuiti.

Ha mai avuto qualche dubbio di fede? E ha mai dubitato della sua vocazione religiosa?

Si hanno sicuramente dei dubbi, ma non contraddicono la fede. Il vero pericolo riguardo alla fede sono le paure: si ha davvero bisogno della grazia di Dio per non lasciarsi dominare e governare dalle paure, ma per superarle in vista di una maggiore fede in Dio, alla Chiesa… E questa crescita, per fortuna, significa anche crescere nella speranza.

Cosa ci può raccontare dei suoi studi universitari e della sua formazione intellettuale?

Ho studiato all’Università di Chicago. Mi sono iscritto a un corso interdisciplinare e innovativo chiamato “Comitato sull’Analisi delle Idee e lo Studio dei Metodi”. Il suo fondatore era il professor Richard McKeon, un noto accademico aristotelico che alla fine è stato relatore della mia tesi dottorale. I corsi che impartiva erano soprattutto di Filosofia, Teologia e Teoria sociale contemporanea.

Papa San Paolo VI è stato una fonte importante di ispirazione in quel periodo, quando ha esortato i Gesuiti ad affrontare lo studio di quello che definiva “il temibile pericolo dell’ateismo che minaccia la società umana” e che “avanza e si estende in vari modi”.

Per questo, il mio lavoro di indagine si è orientato a studiare le cause dell’ateismo presenti nel comunismo in autori come Marx e Feuerbach. Questa richiesta del Papa e quello che ho studiato in quegli anni sono stati particolarmente interessanti per me, visto che con la mia famiglia, per via dell’ateismo comunista, avevo dovuto emigrare dalla Cecoslovacchia al Canada quando mio fratello ed io eravamo molto piccoli.

All’inizio del suo ministero sacerdotale ha fondato il Centro Gesuita per la Fede e la Giustizia Sociale a Toronto nel 1979. Dopo l’assassinio dei Gesuiti presso l’Università Centroamericana di El Salvador nel 1989 è diventato vicepresidente di questa Università Gesuita e direttore del suo Istituto per i Diritti Umani (IDHUCA) Cos’ha imparato da quell’esperienza così traumatica?

Per prima cosa, devo dire che dopo l’assassinio dei miei fratelli gesuiti la Provincia dell’America Centrale viveva uno dei momenti più difficili della sua storia. Il padre generale della Compagnia di Gesù ha scritto a tutti i Gesuiti chiedendo volontari per andare a El Salvador.

Molti Gesuiti si sono offerti per quella difficile missione. Forse questa è stata una prima esperienza importante, sentire e corroborare che noi Gesuiti eravamo veramente disposti ad andare dove era necessario o dove altri non potevano andare.

Sono stato inviato dal mio superiore provinciale e con tutto il corpo della Compagnia di Gesù, e la Chiesa in Canada, ad accompagnare quel momento di crisi e di lenta resurrezione.

Anziché “traumatica” è stata un’autentica esperienza di accompagnare Cristo, nella sua passione, nella sua morte, nella sua resurrezione, nella sua Chiesa e nel suo popolo, perché di fronte alla morte e all’ingiustizia sbocciava molta vita, molta solidarietà, molti segni del fatto che Dio era con noi… tutto questo durante la guerra civile terminata, grazie anche al sacrificio dei Gesuiti, due anni dopo.

Un’altra parte del suo ministero sacerdotale si è svolta presso la Curia generale della Compagnia di Gesù e nella Santa Sede occupandosi di situazioni umane molto forti: Aids, rifugiati, crisi migratorie… Perché crede che Dio le chieda di dedicare il suo ministero a queste persone?

Sì, dal 2002 al 2010 ho vissuto e ho lavorato in Africa, sono stato parte della risposta della Chiesa e della Compagnia di Gesù all’Hiv/Aids. Ho fondato con altri l’AJAN (African Jesuit Aids Network).

I Gesuiti sono uomini di rete, collegano i centri con le periferie, sempre missionari. Prima dell’AJAN il mio ministero è stato dalla Curia Generale dei Gesuiti, poi nella Santa Sede, ma sempre per accompagnare e camminare alle frontiere in movimento, non solo geografiche, ma culturali, sociali, umane.

Credo che Dio ci chiami a camminare al fianco di tante persone perché ascolta sempre il grido del suo popolo. Quello di molte di queste persone è stato un forte grido di giustizia, di inclusione, di rispetto, di pace. E Dio risponde chiamandoci a partecipare alla sua risposta, con creatività e nel discernimento.

Dal 2016 Papa Francesco le ha affidato il compito di assisterlo nella direzione della Sezione Migranti e Rifugiati del dicastero per la Promozione dello Sviluppo Umano Integrale. Si tratta di una sezione diretta personalmente dal Papa. Quali sono le consegne che ha ricevuto dal Pontefice per svolgere questa missione tanto complicata?

Ascoltare, comunicare, accompagnare, in collaborazione, rispondere alle necessità delle Chiese locali nel miglior modo possibile.

In questi anni lei ha potuto vedere il volto degli uomini e delle donne che soffrono davvero. Non si sente impotente quando li guarda negli occhi? Cosa può fare per loro? Cosa può fare la Chiesa per loro?

Se credessi che tutto dipende da me e sono solo non riuscirei a guardarli negli occhi, mi sentirei frustrato per il poco che faccio o che posso fare. Mi è chiaro che sono un collaboratore della missione di Dio, che Dio è il protagonista di questa risposta e io sono solo un umile collaboratore.

Ai loro occhi non cerco quindi di trovare la validazione delle mie azioni, ma trovo nel loro sguardo la speranza e la chiamata di Dio a continuare a cercare una risposta alle loro necessità. Posso fare ben poco, ma collaborando con gli altri e con Dio il poco si moltiplica.

La Chiesa fa e ha sempre fatto. Per esempio, fin dall’inizio dell’epidemia di Aids ha saputo rendersi conto, rimanere, accompagnare e cercare insieme. Centinaia di uomini e di donne di fede, in tutto il mondo, sono stati la risposta misericordiosa ed efficace della Chiesa. In tutto il mondo sono accanto a chi soffre. Offrono un piatto di cibo e accoglienza a un fratello migrante, ospitano donne riscattate dalla violenza e dalla tratta, cercano giustizia per tutte le vittime.

Alcuni affermano che il suo apostolato o la stessa azione del Papa è da “comunisti”. Cos’è che non ha capito chi la pensa così?

Non ha capito il Vangelo.

Cosa significa per lei, concretamente, essere cardinale? Il colore rosso della porpora cardinalizia, che lei riceverà, è un simbolo della sua disponibilità a versare il sangue per il Papa e la Chiesa. Oggi non sembra che lei corra questo pericolo…

Non si può spiegare. È accaduto ai Gesuiti a El Salvador, ed è stato impensabile. Abbiamo più martiri oggi che al tempo delle persecuzioni romane. Non siamo pienamente consapevoli del pericolo che comporta il fatto di essere cristiani.

Quando un Papa viene eletto, assume un nuovo nome per mostrare che la sua vita precedente è morta, e dal momento dell’elezione ha una nuova vita consacrata al suo nuovo servizio. Io cerco di vivere così questa nuova missione. Tutto continuerà come prima per me? Ovviamente no.

Ho iniziato ad assimilarlo cinque minuti dopo la telefonata con l’annuncio. Una persona non sa, non può prevedere, ma deve abbracciare una novità, un’ampiezza e una profondità che non ha cercato. Fino a dare il sangue…

Negli anni che le restano di lavoro al servizio del Papa, da vescovo, da sacerdote, da battezzato, cosa le piacerebbe fare? Come vorrebbe essere ricordato da chi l’ha conosciuta?

I saluti e le riflessioni che ho ricevuto dall’annuncio della mia elezione a nuovo cardinale, il 1° settembre, mi incoraggiano molto, perché mi confermano che Dio sa usare molto bene un povero per contribuire all’avvento del suo Regno. Conto su questo aiuto perché tutto ciò continui e si intensifichi, aiutando e sostenendo la missione di Francesco, successore di Pietro.

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