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Perché i giochi sono così costosi se i bambini si divertono con niente?

CHILD, PLAY, LEAF
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Una penna spuntata - pubblicato il 24/09/19
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Breve storia di come il marketing è riuscito a convincerci che il bambino è un consumatore esigente. Sui social, non è infrequente leggere il divertito sfogo di una sfortunata acquirente che scrive qualcosa tipo: “Ho speso 200 euro per comprargli il gioco all’avanguardia, e lui che fa? Me lo schifa e si mette a giocare con la scatola”. “Lui”, in genere, è un bambino piccolo oppure un gatto. Per oggi lasciamo perdere il gatto e focalizziamoci invece sul bambino.

Come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i pargoli, i bambini – soprattutto se in tenera età – si divertono da matti giocando con qualunque cosa. Da piccola, io ero una grande fan delle pigne, della pasta cruda e dei rotoli di carta igienica. La figlia di un mio amico ha seriamente destato preoccupazione nei suoi genitori per l’ossessiva maniacalità con cui apriva e chiudeva una striscia di velcro, a ripetizione. Genitori rassegnati spendono ogni giorno soldi sonanti per comprare giocattoli ai loro bimbi, al solo scopo di scoprire che i giovani virgulti sono molto più incuriositi dalla carta di imballaggio.


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Stando così le cose, come diavolo hanno fatto a convincerci che è una buona idea spendere barcate di soldi in giocattolini per la prima infanzia?

Se ci pensate, ci son riusciti solo in anni recenti. Diciamo, nel corso dell’ultimo secolo: non prima. Con la possibile eccezione del Giocattolo, l’unico balocco veramente degno di quel nome, che veniva regalato una o due volte l’anno, magari sotto Natale, a patto che la famiglia potesse permetterselo, i nostri progenitori trascorrevano i loro anni infantili dilettandosi con balocchi veramente semplicissimi. Si giocava con i gusci di noce, con gli oggetti di casa, persino con gli scarti di macellazione (!), ma non è che esistesse un vero e proprio mercato di giocattoli per bambini.
C’erano, naturalmente, ragioni economiche, ma solamente fino a un certo punto: alla fin fine, non costa mica tanto produrre una bambola senza troppe pretese. Il vero ostacolo allo sviluppo delle vendite nel settore infanzia era, prevalentemente, psicologico: alla gente non veniva proprio in mente che si potesse spendere più di tanto per un bambino.

Per dirla con le parole di Jan Whitaker, autrice del bel Service and Style. How the American department store fashioned the Middle Class:

fino al 1900 circa, il negoziante-medio non guardava ai bambini come a potenziali clienti: era più facile che li guardasse come a forza-lavoro.

In effetti,

il bambino-consumatore, come categoria di mercato, era pressoché inesistente. Persino nei grandi magazzini, l’assortimento di prodotti per l’infanzia era molto scarso; i pochi presenti, oltretutto, non erano radunati in un unico reparto, ma bensì mescolati ai prodotti analoghi per adulti.

Oltretutto,

con l’unica eccezione per le calze e la biancheria, le madri ci tenevano a preparare in prima persona i vestitini per i loro figli. Il reparto giocattoli era inesistente o comunque aveva dimensioni minime, tranne che nel periodo di Natale.



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E in effetti: se la mamma si fa vanto di creare personalmente il guardaroba per i suoi figli e i bambini sembrano perfettamente felici nel giocare con i loro balocchi home-made a costo zero, come diamine fai a convincere le famiglie a sborsare soldi in superflui orpelli che, tutto sommato, manco servono? Facile, disse un genio del marketing a inizio ‘900. Tutto sta nel convincere i genitori che questi orpelli, invece, servono un sacco.

BABY

Tomsickova Tatyana – Shutterstock

Nei primi anni del ‘900, la percezione dell’infanzia viene influenzata pesantemente da due fenomeni diversi.
Il primo è di matrice politica: con lo svilupparsi dei movimenti che lottano per l’abolizione del lavoro minorile, si fa strada l’idea di infanzia come età dorata e innocente che i bambini hanno il diritto di vivere protetti dalle brutture del mondo.
Contestualmente, le coppie della media e medio-alta borghesia cominciano gradualmente a fare meno figli. Restano assai prolifiche le famiglie povere, ma tanto quelle non interessano a nessuno: la cosa interessante, invece, è che le coppie in condizioni economiche medio-alte si trovano improvvisamente con meno figli da sfamare e, quindi, con un tetto di spesa pro-capite decisamente più alto di prima.

Insomma: il consumatore c’era, adesso si trattava solo di trovare un modo per convincerlo a spendere.
E ben presto il modo fu trovato: si decise cioè di inventare (a tavolino, ché prima non esisteva nulla di questo tipo) una cultura per cui dev’essere il mondo adulto a modellarsi attorno alle esigenze dei pargoli – e non viceversa.
All’atto pratico, si comincia a proporre al grande pubblico eventi, luoghi di ritrovo e persino servizi “a misura di bambino”, ideati da professionisti del settore sulla base delle ultime scoperte scientifiche sulle fasi di sviluppo della prima infanzia. Naturalmente, ognuno di questi appuntamenti era corredato da utili e disinteressate proposte commerciali sull’abbigliamento e i giocattoli più adeguati per accompagnare i pargoli nelle varie tappe della loro crescita.


SAMANTHA CRISTOFORETTI
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Negli Stati Uniti (che fanno scuola – ma pian piano il trend arriva anche in Europa) cominciano a fiorire vere e proprie operazioni commerciali ammantate di disinteressata benevolenza note come Baby Days o Baby Weeks. In questi periodi speciali, preannunciati da ampio battage pubblicitario, i centri commerciali organizzavano eventi aperti al pubblico durante i quali la clientela avrebbe potuto ascoltare i consigli di levatrici, medici specializzati in malattie dell’infanzia, puericultrici. Al soldo del mercato, queste figure professionali, ammantate di quell’aura quasi sacrale che all’epoca avvolgeva chi si intendeva di medicina, fornivano utili consigli igienico-sanitari alle timorose madri alle prime armi, buttando lì ad hoc pure il consiglio interessato: “e comunque, per tener lontani i pidocchi, si è dimostrato essere utile il prodotto che vedete esposto lì nello scaffale a destra, toh!, è pure in saldo”.

L’approccio era universale e ben chiaro: qui non stiamo cercando di arricchirci sui desideri dei vostri bambini (giammai!), qui vi stiamo fornendo un servizio sociale alla luce delle più recenti scoperte scientifiche sulla prima infanzia. Ciò che prima si pensava potesse andare bene per un bambino, adesso non è più accettabile. Quindi, mamme: se volete il bene del vostro figlio, piantatela con il fai-da-te e con i vestitini di seconda mano e affidatevi ai professionisti studiatiNoi sì che saremo in grado di aiutarvi per il meglio.

In certi casi, l’aiuto arrivava per davvero. Alcuni grandi centri commerciali assumevano come commesse per il reparto infanzia delle infermiere professioniste: effettivamente, una mano santa per una mamma inesperta con zero conoscenze professionali in pedagogia e puericultura.
In alcuni casi, le future mamme che varcavano le porte del negozio sapevano di poter contare sull’aiuto di rassicuranti levatrici pronte a guidarle nell’acquisto del corredino per il nascituro: utile, senz’altro, anche a livello psicologico, per la spaventata gestante con un disperato bisogno di un volto amico a guidarla.
Tra il serio e il faceto, eventi periodici come il “concorso di bellezza per bambini” permettevano alle madri di far esaminare i loro pargoli da un team di professionisti del settore. E, cosa non da meno, permettevano ai professionisti del settore di spiegare al grande pubblico concetti non sempre facili, tipo “percentili di crescita”.

In altri casi, beh… l’ipocrisia era un po’ più evidente.
Ad esempio, sotto lo slogan “giocare è il lavoro dei bambini”, originariamente nato per riecheggiare le campagne politiche per l’abolizione del lavoro minorile, l’industria del giocattolo cominciò a sfoderare, mese dopo mese, una pletora di balocchi che venivano presentati ai genitori non per quello che il più delle volte erano (e cioè: graziosi balocchi; punto e a capo) ma che anzi venivano spacciati per giocattoli educativi alla massima potenza – roba che, se li regalavi a tuo figlio, quello ti diventava il novello Mozart.
Studi scientifici sull’importanza del movimento e del gioco all’aria aperta corredavano i cataloghi pubblicitari di scivoli, altalene, biciclette e macchinine a pedali. Sulle riviste femminili cominciano ad apparire articoli vagamente ansiogeni tipo “la tua casa è veramente a misura di bambino? Il tuo giardino è in grado di favorire un sano sviluppo psicofisico?”, passando il messaggio che solamente una abitazione adeguatamente arredata secondo le nuove norme sarà nido accogliente per le future generazioni.

Si tentò addirittura di creare una Giornata del Bambino che, su modello del Giorno degli Innamorati o della Festa della Mamma, potesse pompare le vendite di giocattoli in un periodo economicamente difficile per il mercato dell’infanzia: quello di inizio estate. Istituita verso la metà degli anni ’20, la festa fu fissata il 18 giugno di ogni anno, nella speranza di dare così una spinta alle vendite di quei giocattoli marcatamente estivi che era ovviamente improbabile poter “piazzare” a Natale.
Mi vien da dire “fortunatamente per le finanze di tutti noi”, la festa non prese piede. Forse il consumatore s’era fatto furbo e s’era reso conto di essere di fronte a una pura operazione di marketing. O, forse, il pubblico reagì con scarso entusiasmo perché, alla fin fine, la Giornata del Bambino esortava i genitori a fare ciò che ormai tutte le buone famiglie facevano quotidianamente: e cioè coccolare, vezzeggiare, ricoprire di doni il bebè di casa. Non si trattava di festeggiare la mamma una volta all’anno: compatibilmente col budget familiare, l’intera esistenza di un bambino, ormai, era organizzata in modo da farla sembrare una festosa ed eterna letizia.


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Se non si fosse già intuito dai miei toni, operazioni commerciali simili a questa suscitano in me molta freddezza. Le case a misura di bambino e i giocattoli educativi certamente esistono, ma quanto è deprimente mettere un’ostetrica a libro paga per convincere le neomamme che solo con quel giocattolo lì il bambino avrà un adeguato sviluppo.
Ad ogni modo, così gira il mondo. Ed è, effettivamente, grazie a questa colossale strategia di comunicazione che nacque il ricchissimo mercato di prodotti per l’infanzia.

Se gli esordi furono, eufemisticamente, discutibili, va detto che l’operazione portò anche qualche beneficio. Ho già parlato di quelli immediati: trasformare un centro commerciale in un consultorio medico è ‘na roba da pazzi furiosi, ma sicuramente fu una manna dal cielo per tante madri non istruite.
Nel lungo periodo – come sottolinea Jan Whitaker – va riconosciuta al mercato dell’infanzia la capacità di muoversi e crescere

perfettamente in sincrono con le più recenti e più innovative teorie pedagogiche del momento.
Anche questo giocò un ruolo non da poco nel far cadere nell’oblio le idee puritane che miravano a sopprimere ogni forma di spontaneità nel comportamento dei bambini – incluso, ad esempio, il loro amore per i colori accesi. Aree gioco e negozi di balocchi festosamente decorati in toni infantili suggerivano ai genitori nuove modalità per arredare le camerette, e set per il disegno e i lavori manuali finirono col liberare la creatività dei bambini.

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Lupuca | Flickr CC

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene?
Se anche vi fu una operazione commerciale su larga scala dietro alla nascita di generazioni sempre più viziate e vezzeggiate… non è forse vero che noi bambini del Novecento siamo cresciuti tra dolci ricordi d’infanzia e con mille skills che un tempo ci si sognava?

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNA PENNA SPUNTATA

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